Il mito di Garibaldi nelle Americhe

Di Alberto Filippi Venerdì 29 Febbraio 2008 16:51 Stampa

Quando Garibaldi era ancora in vita il suo mito si era già esteso dall’Europa alle Americhe collocandolo, in maniera forse sorprendente per molti italiani e francesi dell’epoca, accanto a quello dei massimi eroi dell’indipendenza e della libertas americana: George Washington e Simon Bolivar. Molti fattori favorirono la progressiva elaborazione delle diverse forme, ideologiche e politiche, del mito garibaldino e dei suoi usi nella specificità storica del continente americano.

Per la comprensione del mito come simbolo della religione civile che avrebbe dovuto caratterizzare la nascente nazione italiana, risultano decisive le relazioni storiche che si erano stabilite tra l’Italia, l’Europa e l’America sin dai tempi dell’«eroe dei due mondi».

I legami del giovane marinaio con l’America – dove, non si dimentichi, visse quasi quattordici anni e si sposò con Ana Maria de Jesus Ribeiro con la quale ebbe quattro figli – dimostrano, inoltre, come la configurazione culturale del mito di Garibaldi (e del suo culto) appaia, in una forma decisiva e contraddittoria, vincolata tanto alla lotta per la legalità repubblicana che, con la eccezione del Brasile, si era affermata in tutta l’America, quanto alla difesa delle monarchie costituzionali in Europa. Ciò appare evidente sin dall’inizio della sua presenza in Sud America. Il suo esordio fu in qualche misura decisivo sia per la sua forma- zione, sia per la collocazione politica tra i liberali mazziniani e, pertanto, per come verrà considerato dalle posteriori storiografie nazionali del Brasile, dell’Uruguay o dell’Argentina, così fortemente divise tra liberali progresistas e regresivos, tra repubblicani e monarchici, tra filo o antibritannici, tra federales e unitarios. Nel caso del Brasile, l’ancora ventenne Garibaldi partecipò alla rivolta repubblicana e secessionista sviluppatasi al Sud all’indomani della morte del Visconte de Cairu (nel 1835) e di José Bonifacio de Andrada e Silva (nel 1838), e conosciuta come «Revolução Farroupilha» (rivoluzione degli «straccioni »), avvenuta tra il 1835 e il 1845, che ebbe come scopo la lotta contro il centralismo del sistema imperiale portoghese e culminò nella proclamazione della repubblica indipendente di Rio Grande do Sul. La stessa lotta per l’autonomia si manifestò anche nelle rivolte di Cabanagem nel Grão-Pará (1835-1840) e nella Sabinada a Bahia (1837-1838).1

Va premesso che nel caso specifico dell’Uruguay il mazziniano Giovanni Battista Cuneo, giunto da Genova a Montevideo, aveva costituito nel 1838 una filiale della Giovane Italia, in collegamento con alcuni esiliati argentini come Miguel Cané e Bartolomé Mitre (che lo stesso anno a Buenos Aires avevano fondato la Asociación de Mayo), i quali si trovavano allora nella Banda Oriental a combattere il generale Juan Manuel de Rosas.2 In tale contesto Garibaldi venne coinvolto in modo crescente nel lungo e duro scontro generato dalla peculiare combinazione di guerra civile tra iberoamericani e guerra internazionale, data la presenza dei britannici e dei francesi, che si ebbe per il dominio del Rio de la Plata e il controllo dello sbocco commerciale dei prodotti della Pampa argentina verso l’Atlantico. Protagonista decisivo di questi conflitti fu appunto il generale Rosas, che riuscì a imporre, il 16 febbraio 1843, l’assedio del porto di Montevideo, che attraverso alterne vicende durò nove anni, fino al 1851. Inoltre Rosas, per rispondere alle rotture del blocco che venivano compiute dagli unitarios, dispose – producendo danni economici non meno gravi – il blocco dell’estuario del Rio de la Plata tra il 1845 e il 1848. Tuttavia, prima della caduta di Rosas e della vittoria dei suoi amici liberali, Garibaldi, assieme ad altri settanta combattenti della Legione italiana, era già tornato a Nizza nell’aprile del 1848, e dopo a Milano in lotta contro gli austriaci dove venne incaricato del governo provvisorio. D’altra parte gli uruguaiani, alleatisi allora con i brasiliani (e con gli Stati di Entre Ríos e Corrientes), riuscirono a sconfiggere militarmente la dominazione tirannica del Governatore di Buenos Aires nella battaglia di Monte Caseros nel 1852, costringendo Rosas ad un privilegiato esilio in Inghilterra. All’inizio del Novecento, l’emblematica simbologia che ruota attorno alla figura di Garibaldi, orgoglio di un popolo e prestigiosa effigie della sua raggiunta unità, ha permesso ulteriori e vieppiù contraddittorie interpretazioni della sua eredità tanto in chiave fascista quanto in quella propria delle diverse tendenze della cultura dell’antifascismo. Per coloro che consideravano la rivoluzione iniziata da Mussolini come la continuazione e la realizzazione finalmente piena del (secondo) Risorgimento non esistevano dubbi che Garibaldi fosse un precursore della italianità fascista. Al contrario, per quelli che invocavano la prospettiva della rivoluzione socialista, Garibaldi veniva interpretato come il difensore dei diritti dei popoli all’uguaglianza e alla giustizia, come esperienza sociale le cui potenzialità sorprendenti e clamorose si erano manifestate con gli accadimenti della Comune di Parigi del 1870, che vide l’anziano generale Garibaldi approdare a modo suo al socialismo internazionalista lottando accanto ai francesi contro l’invasione tedesca, con la sua parola d’ordine: «per salvare a tutti i costi la Repubblica».3

In una forma sostanzialmente differente rispetto a ciò che era accaduto con Mazzini e Cavour, la personalità di Garibaldi nelle Americhe si diffuse con grande forza e fu amata anche a livello popolare grazie alle diverse ondate di immigrati italiani (che il patriota italiano aveva preceduto attraversando ben due volte l’Atlantico) giunti a partire dalla seconda metà del secolo XIX fino a tutto il secolo XX; diffusione questa che costituisce un fatto di grande rilievo e rappresenta un capitolo molto particolare di quella che possiamo chiamare la storia d’Italia fuori d’Italia. Storia alimentata da un’intensa, anche se a volte non chiaramente visibile, circolazione delle idee, il cui eclettismo si estende dal repubblicanesimo al nazionalismo, dal liberalismo nelle sue distinte, e perfino opposte, declinazioni e formulazioni sia italiane che europee: circolazione che ha trovato i suoi punti nodali di dibattito e di diffusione nei circoli culturali e negli ambienti politici, comprese le logge massoniche (in modo particolare dopo il 18 agosto 1844 quando Garibaldi, si affiliò formalmente alla loggia massonica Amis de la Patrie del Grande Oriente di Francia a Montevideo), così come attraverso giornali, riviste o gruppi militanti che facevano parte dei nascenti partiti politici tanto a Londra quanto New York, Berlino o Parigi, così come a Torino, Roma, Montevideo, Buenos Aires, Caracas o Rosario.

Questa allusione a Mazzini è imprescindibile perché il politico genovese costituì in forma permanente uno dei paragoni attraverso i quali l’azione specificamente risorgimentale dell’artefice della spedizione dei Mille fu conosciuta e discussa nel mondo politico di quei tempi, anche in America. Sebbene l’elaborazione culturale di Mazzini sia molto più profonda, ampia e rigorosa, non vi è dubbio che molte delle sue idee vennero ad ispirare e pertanto a coincidere con quelle di Garibaldi, tanto più che egli seppe valorizzare e utilizzare, portandole come esempio a tutti gli italiani, la coerente generosità e la tenacia morale di Garibaldi, indicandole come quelle virtù dell’azione patriottica che avrebbero dovuto caratterizzare gli uomini della nascente Italia così come della Giovane Europa. Come Mazzini, Garibaldi seppe vincolare l’emancipazione politica all’emancipazione sociale e culturale dei popoli: temi che appassionavano le classi dirigenti più innovatrici delle repubbliche liberali americane da Washington a Buenos Aires, da Città del Messico a Lima, da Bogotà a Cordoba. Entrambi erano convinti tanto a livello ideologico quanto politico che l’emancipazione dovesse estendersi in maniera indivisibile, contro tutte le forme di violazione delle libertà e dei diritti; contro l’oppressione politica, specialmente sotto la forma abbietta della tirannia, ma anche contro l’altra non meno deprecabile del dominio coloniale, della schiavitù e delle pratiche imperialiste. Contro queste posizioni, che dominavano la grande Restaurazione europea, ancor più dopo i fallimenti del 1848-49, Mazzini e Garibaldi teorizzarono la necessità del liberalismo democratico e il diritto di tutti i popoli all’indipendenza e alla giustizia sociale. Pensieri a quel tempo di eccezionale modernità e che andavano contro corrente rispetto alle ideologie prevalenti, essendo una originale sintesi delle motivazioni e dei principi di alcune delle teorie politiche liberali, democratiche e socialiste. Per tutte queste ragioni, la dimensione europea e americana della figura di Garibaldi e di alcune forme del «garibaldinismo » rappresentano un’evidente e rilevante eccezione, smentendo le visioni storiografiche nazionaliste e ultraprovinciali nelle quali si è voluto contenere e limitare l’interpretazione della storia del «Paese Italia» (per utilizzare lo stesso titolo di una delle ultime opere di Ruggiero Romano), quasi confermando così, con il consenso dell’ignoranza alimentata dalle storiografie «ufficiali», l’illusoria esistenza di una storia da doversi considerare «solo» italiana e che partendo dall’unità arriva fino alla Repubblica democratica sorta dalla lotta di resistenza. Insomma, la recente revisione realizzata dalla critica storiografica (soprattutto non italiana) ha finito per dimostrarci che Garibaldi fu un protagonista di primissimo piano del suo tempo, non solo in Italia e non solo in Europa. Non è casuale che, insieme a Mazzini, il generale nizzardo sia stato oggetto tanto di riflessioni come di critiche da parte di personalità europee tanto significative e dissimili come Marx e de Tocqueville, Mill o Bakunin, Blanc, Proudhon o Jaurès. Nello stesso tempo e in forma eccezionale per l’Italia della sua epoca, Garibaldi fu tra i primi a conoscere, tramite l’esperienza diretta, l’assai complessa realtà americana e l’influenza, polemica e determinante, che al suo interno avevano avuto e continuavano ad avere gli esempi politico-militari delle recenti vittoriose lotte per l’indipendenza compiute da Washington e da Bolivar, da San Martín e da Sucre, che furono oggetto di ammirazione, protagonisti della rottura del vincolo coloniale con gli imperi europei e dell’affermazione delle libertà in quella nuova forma rivoluzionaria di Stato che furono le repubbliche.

Vale la pena ricordare che la prima testimonianza di Garibaldi in merito a Bolivar è del 1851, quando per la seconda volta ritornò in America dopo il drammatico fallimento della Repubblica Romana, e quando, essendo stato condannato a morte, fuggì lungo le coste dell’Adriatico, dove morì la giovane Anita, e giunse dopo incredibili peripezie a Tangeri per imbarcarsi verso New York. Nella primavera di quell’anno, una volta arrivato a Panama, si imbarcò verso Lima, seguendo la rotta del Pacifico per svolgere diverse attività, non solo politiche ma anche di affari e commerciali con l’Estremo Oriente.4 In questa situazione, Garibaldi conobbe Manuelita Saenz, l’amante e compagna di Simon Bolivar, popolarmente conosciuta come la Libertadora, che in quel periodo si trovava anch’essa in esilio in Ecuador una volta disciolta la Repubblica della Gran Colombia, che era stata fondata e presieduta da Bolivar.

Il fatto ebbe per Garibaldi una rilevanza degna delle sue «Memorie» nelle quali evoca la figura «graziosa e gentile» de «la generosa signora»: «Nella traversata passammo a Guayaquil, da dove cercai invano di scoprire la cima del Cimborazo, quasi sempre nascosto dalle nubi. A Paita sbarcammo, e ci fermammo un giorno, e vi fui ospiziato in casa d’una generosa Signora del paese, che trovavasi in letto da anni, essendo stata colpita da un attacco apoplettico nelle gambe. Passai parte di quella giornata accanto al letto della Signora. Io sopra un sofà; e benché alquanto migliorato in salute, ero obbligato di rimanermi sdraiato e senza moto. Donna Manuelita de Saenz era la più graziosa e gentile matrona, ch’io m’abbia veduto. Ella era stata l’amica di Bolivar e conosceva le più minute circostanze della vita del grande Liberatore dell’America centrale, la di cui vita intiera, consacrata all’emancipazione del suo paese e le virtù somme che lo adornavano non valsero a sottrarlo al veleno della lingua mordace dell’invidia e del gesuitismo, che ne amareggiarono gli ultimi giorni». Quando nel 1830 morì Bolivar, l’orgogliosa Manuela aveva trent’anni, e anche se i nemici politici del Libertador la perseguitarono con accanimento, rimase fedelissima alla memoria del suo amante, del quale continuerà ad ammirare e raccontare le imprese. Sprofondata in una estrema povertà, visse nel villaggio di pescatori di Paita sulla costa del Pacifico dove morì cinque anni dopo questo incontro. Garibaldi evoca con emozione il commiato: «Dopo quella giornata ch’io chiamerò deliziosa, dopo tante angosciose, passata nella cara compagnia dell’interessante invalida, io la lasciai veramente commosso, ambi cogli occhi umidi, presentendo senza dubbio esser cotesto per ambi l’estremo addio su questa terra».5

Le sue considerazioni finali nelle «Memorie» rendono bene il complesso stato d’animo che lo tormentava dopo i recenti fallimenti della rivoluzione liberale in Italia e del progetto di unificazione della penisola, pensando che lo stesso Bolivar, al di là dei tanti successi militari e politici che aveva conseguito, era stato oggetto delle forme più vili di diffamazione e ingratitudine che afflissero gli ultimi mesi della vita dell’insigne Libertador. Esclama Garibaldi: «È sempre la storia di Socrate, di Cristo, di Colombo! Ed il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità, che lo sanno ingannare!».

Uno dei motivi di fondo dell’ammirazione che Garibaldi ebbe per Bolivar era dovuto al tipo di strategia politicomilitare che il venezuelano aveva saputo esercitare durante i lunghi anni della guerra contro i Borboni in America. Strategia che ebbe il suo punto più alto e controverso nell’esercizio di quella che si denominava «dittatura temporale », ispirata e ripresa dall’esperienza istituzionale dei secoli della Roma repubblicana. Dittatura stabilita per riusci- re, in congiunture eccezionali e per un tempo determinato, a concentrare tutte le energie e le risorse di un popolo in lotta per la libertà, sotto un comando unico. Concezione teorica e pratica della dittatura «a termine», la cui necessità Garibaldi sostenne – sia pure con alterni e non sempre positivi risultati – durante tutta la sua carriera nei distinti luoghi nei quali combatté, tanto in Sudamerica, quanto in Italia o in Francia.

Convinzioni, queste, che Garibaldi riaffermò in vari scritti e nelle sue «Memorie». La tesi era sostanzialmente così formulata: «Il diritto d’un popolo dev’esser di eleggersi un capo temporario, per il minor tempo possibile, e non occuparsi di governo sino all’elezione del suo successore. Ciò in tempi urgenti; e per l’Italia, ve lo assicuro, l’urgenza durerà un pezzo, con tanta corruzione». La ragionata convinzione di Garibaldi era la seguente: «La Repubblica non verrà a voi senza meritarla, senza sudare per averla; ma non imitate per Dio i nostri fratelli di Spagna che per troppa precipitazione peggiorarono la condizione loro (…). Ove ripeto: padroni del vostro destino, voi non dovete eleggere i cinquecento che vi porteranno Bisanzio. A Bisanzio, mentre Maometto II assaltava le mura della città, i cinquecento disputavano in S. Sofia se si dovesse comunicare con pane azzimo o con lievito. Ma con elezione diretta, eleggetevi un dittatore. Questa è la più gloriosa istituzione che mai abbia esistito in Italia; il più splendido periodo della storia del grandissimo popolo (romano)». Tuttavia, riconosce Garibaldi, «So che non mancano oppositori alla mia idea, ed anche fra i miei amici». Però qual è il vero motivo di queste opposizioni? «Queste sorgono – risponde Garibaldi – dalla indebita confusione tra dittatura e tirannia. Succede della dittatura come del Machiavellismo, considerato, massime dagli stranieri, siccome sinonimo di frode e di falsità. Eppure il grande Maestro dell’arte e della Guerra ‘che temperando lo scettro a’ regnatori, gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue’ – come scrive va Ugo Foscolo – Machiavelli, dico, siede in S. Croce ed è una delle maggiori nostre glorie. Così – spiega Garibaldi – della dittatura ne hanno fatto sinonimo della tirannide, perché vi fu un Cesare. Ma, senza ricorrere a quella massa di dittatori onesti che fregiano la storia dei nostri padri, Washington e Bolivar, liberatori del Nuovo Mondo, senza averne il titolo, non ebbero una vera dittatura? E Andrea Doria, senza cercar lontano, non fu un dittatore di Genova per diritto di merito e per l’imponenza od onnipotenza di Carlo V? E Doria, come Cincinnato, rimetteva al suo popolo il potere supremo e rientrava nella folla dei cittadini».6

Pochi anni dopo, la relazione tra Bolivar e Garibaldi, a proposito della lotta per l’indipendenza sostenuta dal Libertador venezuelano come protagonista della «dittatura repubblicana», del «capo temporario», è uno temi che analizza Luigi Musini, patriota garibaldino, che tra gli altri meriti ha quello di aver scritto la più ampia e importante biografia risorgimentale dell’eroe americano. Citiamo i suoi ragionamenti: «Bolivar il 4 novembre del 1813 fu nominato Dittatore. Che nessuno sospetti che in Bolivar albergassero sentimenti ambiziosi, perché tutta la sua vita costituì una prova luminosa della purezza delle sue intenzioni. Proclamando la necessità della Dittatura, Bolivar salvò la causa americana, perché – riflette Musini – per male che suoni questa parola all’orecchio di un repubblicano, è certo, tuttavia, che nei momenti supremi un Dittatore, che sia un cittadino onorato, salva la patria e la libertà. Beati i popoli che davanti al pericolo, salutano con il nome del Dittatore di Cincinnato, Washington, Bolivar e Garibaldi».7

Tuttavia, non è solamente la forma di governo della dittatura ciò che facilitò l’ambigua e posteriore affermazione del mito di Garibaldi nelle sue declinazioni neogiacobine, di ispirazione più o meno marxista o leninista, o dittatoriali di impianto fascista, distorcendo e manipolando la condotta pubblica, sia militare che politica del generale e travolgendo la realtà dei fatti del suo tempo. L’altra fonte del mito e del suo propagarsi fino alla metà del secolo scorso, con la ben nota analogia con la figura di Che Guevara, fu quella del guerrillero eroico, internaziona- lista avant la lettre come l’argentino. Mito che non a caso ebbe la sua origine e la sua prima irradiazione negli anni dell’esperienza sudamericana e dell’osservazione attenta che il giovane Garibaldi aveva fatto delle tecniche militari e organizzative delle «guerre guerreggiate» che avevano praticato in tante occasioni gli eserciti dei padres de la patria durante le lotte per l’indipendenza. È necessario fare qui una digressione. A tutt’oggi il paragone di Garibaldi con quello che diventerà la figura leggendaria latinoamericana del secolo XX, il comandante Che Guevara, presenta alcune singolari e sorprendenti coincidenze che hanno la loro origine, non a caso, proprio nel Garibaldi sudamericano, nel quale si coniugarono le virtù dell’eroe romantico con le straordinarie doti di coraggio, perseveranza, generosità con i suoi compagni e rispetto dei nemici vinti in battaglia che caratterizzarono il condottiero, il marinaio e il soldato esemplari. L’analogia ha inoltre altre matrici: come Che Guevara in Bolivia, Garibaldi assieme ai suoi compagni delle Camisas Rojas in Uruguay venne accusato di esercitare una forma sospetta e sovversiva di «patriottismo cosmopolita», di essere alla testa di una legione di stranieri, e denigrato in quanto mercenario e bandito. La stampa che difendeva gli interessi dei grandi estancieros e del generale Rosas, e in particolare la «Gaceta Mercantil» di Buenos Aires, lo avversava definendolo «lo sciacallo delle tigri anglofrancesi», denunciando e temendo il fatto che il 2 agosto del 1845 – dopo aver sconfitto la flotta argentina che bloccava il porto di Montevideo – era stato nominato, in accordo con gli unitarios, capo delle forze navali anglofrancesi e insieme ai patrioti uruguaiani avrebbe conseguito la difficile ma chiara vittoria di San Antonio del Salto nel febbraio dell’anno successivo: uno degli episodi più rilevanti del celebre sito di Montevideo.8

Invece, come sappiamo, la «banda de los hermanos», dei liberali della Legione italiana (costituitasi in Brasile nel 1837 e composta, oltre che da Garibaldi, da Luigi Rossetti, Giovanni Lamberti, Luigi Carniglia, Pasquale Lodola, Giacomo Fiorentino, Maurizio Garibaldi e altri) forgiò la sua fama apparendo come la sintesi esemplare di fratellanza e abnegazione, di devozione militante alla causa liberale e repubblicana, onorando quel cosmopolitismo politico che risaliva allo spirito di coloro che parteciparono alla rivoluzione angloamericana e a quella francese, o ad entrambe, come fu il caso eccezionale ma indicativo di Francisco de Miranda e del marchese di Lafayette. L’immagine dei garibaldini, sostenitori degli ideali che avrebbero dato vita all’unità d’Italia, faceva sognare a tanti patrioti la possibilità di portare a termine «grandi azioni in grado di conseguire l’emancipazione e la libertà dei popoli», mantenendosi sempre lontani e opposti all’esercizio «tirannico o dispotico del potere».9

È così che tra i liberali e i democratici americani la figura di Garibaldi entrò a far parte dell’opinione pubblica popolare e si diffuse in quegli anni, come sappiamo dalla preziosa testimonianza di uno scritto di Bartolomé Mitre, non sufficientemente noto e rivalutato. Il giovane argentino, che si trovava assieme alla famiglia in esilio in Uruguay e anche lui in lotta contro Rosas agli ordini del caudillo Fructuoso Rivera, che nel 1839, divenuto presidente della Repubblica, nominò capitano il diciannovenne Mitre che, poco tempo dopo, incontrò il compagno di lotta Garibaldi per il quale ebbe subito una affettuosa deferenza. È un testo, il suo, nel quale l’italiano viene evocato con ammirazione, comparando le sue doti con quelle di un eroe classico come se fosse uscito dalla penna di un Plutarco, qualità rafforzate dalla visione romantica che di Garibaldi trasmisero molti suoi contemporanei, come ad esempio Dumas.

Quello di Mitre è un ritratto di Garibaldi che, guarda caso, finisce nel paragone con l’immagine tradizionale e popolare di Cristo, la cui effigie, a sua volta, ci rinvia un secolo dopo e quasi inevitabilmente ad una simile: quella che ci ha consegnato l’iconografia dell’immaginario popolare latinoamericano del «Chesucristo de Vallegrande», del «San Ernesto de la Higuera», immagini con le quali il comandante Guevara è entrato e si è perpetuato nel suo mito.10 Ricordava Mitre molti anni dopo – quando era già stato governatore di Buenos Aires e presidente della Repubblica argentina – evocando il giovane nizzardo delle imprese negli anni del sitio grande di Montevideo: «All’epoca Garibaldi aveva 36 anni. Era di gesti semplici e misurati, accentuati dall’equilibrio ritmico del marinaio che crede di sentire sotto i suoi piedi il movimento delle onde agitate. (...) I tratti del suo profilo, precisamente straniero, erano rigide e austere. La sua testa, ben modellata ed eretta, coperta da una capigliatura rossa, lunga e setosa alla Nazzarena, con una barba intera di colore rossiccio cui il sole dava riflessi fulvi ricordava i busti degli antichi eroi fusi nel tipo ideale che si è dato all’immagine di Cristo. Di carnagione bianca accesa da sangue generoso, aveva in sé gli elementi della bellezza e della forza fisica, ma la sua bellezza era prima di tutto morale, come lo era il suo potere di attrazione sulle masse e il suo valore fermo e sereno di fronte al pericolo (...)».11

Ritornando alle influenze americane nella formazione della personalità di Garibaldi, si deve riconoscere che l’enorme simpatia e il rispetto che ebbe per l’epopea dell’indipendenza non si limitava alla conoscenza – avuta in molti casi da fonti di prima mano – delle maggiori battaglie di tipo regolare o tradizionale come possono essere state quelle di Maipú, Boyacá, Carabobo o Ayacucho, ma soprattutto alle distinte forme di guerra e di guerriglia, di montoneras o di ribellioni armate che caratterizzarono in modo intenso e sistematico il ciclo delle guerre di liberazione fino al 1830. Un caso esemplare per Garibaldi fu l’esperienza di José Gervasio de Antigas (artefice nel 1815 dell’indipendenza delle Provincias Orientales dalla Spagna e dalle mire egemoniche di Buenos Aires), la cui figura di repubblicano in lotta contro il potere dei grandi latifondi- sti e per la giustizia sociale nei confronti dei contadini e degli indios attrasse Garibaldi, come messo in luce dallo storico Carlos Rama.12 Garibaldi venne così a trovarsi in luoghi particolarmente privilegiati per poter conoscere dal vivo le esperienze militari proprie della tradizione ispanica che si erano così vastamente sperimentate nella penisola iberica durante la lotta patriottica degli spagnoli, dalla Catalogna all’Andalusia, contro l’invasione napoleonica del 1808. Tradizione ben compresa e valorizzata da alcuni autori che precedettero il giovane nizzardo e che avevano già introdotto in Italia le notevoli esperienze della guerriglia e della «guerra per bande». Dalla Spagna all’America in lotta contro i Borboni e contro Napoleone, le guerre «guerreggiate» e quelle corsare costituirono un formidabile laboratorio anche per i futuri protagonisti dell’emancipazione italiana. Il «patriota guerriero» come paradigma della lotta contro il dispotismo e l’oppressione fu uno dei simboli fondanti del mito risorgimentale di Garibaldi e dei garibaldini, che divenne vincolo e ponte tra la storia dell’indipendenza ispanoamericana e quella dell’unità d’Italia, proiettando così il mito ai due lati dell’Atlantico. Lo stesso Garibaldi in una lettera al «The Court Journal» di Londra (del 15 gennaio 1860, ma apparsa il 28 dello stesso mese) ebbe a spiegare e a difendere la sua esperienza ispanoamericana nella conoscenza e nella pratica dell’«arte della guerriglia».

Questa valorizzazione positiva dell’esperienza ispanoamericana tra gli italiani ebbe inizio con il testo del frosinate Luigi Angeloni, «Della forza nelle cose politiche», pubblicato a Londra nel 1826 e con il piemontese Carlo Bianco de Saint-Jorioz nell’opera che rapidamente diverrà celebre «Dalla guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia. Trattato dedicato ai buoni italiani da un amico del paese», pubblicato a Marsiglia nel 1830.13 D’altra parte, e quasi inevitabilmente, la valutazione dell’opera di Garibaldi, della portata del suo mito e dell’uso politico che venne fatto del suo culto eroico, fu apertamente determinata dalla retorica ufficiale fondante dell’i- talianità come punto d’approdo di un Risorgimento che, invece, era stato ottenuto come risultato della conquista regia piuttosto che l’espressione di un movimento popolare a livello nazionale. Per meglio capire le ragioni che stanno alla base delle interpretazioni americane del ruolo (positivo e negativo) di Garibaldi e delle ripetute polemiche tra monarchici e repubblicani, possiamo tenere conto delle considerazioni metodologiche di Antonio Gramsci quando nel «Diciannovesimo Quaderno» osserva come la connessione tra le distinte correnti politiche del Risorgimento e le forze sociali esistenti nelle diverse parti del territorio italiano si riducevano ad un fatto che risultò essere cruciale e determinate: «I moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente limitato (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il cosiddetto Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati. Cioè – spiega Gramsci – storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati: l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di ‘avere in tasca’ il Partito d’Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto ‘indirettamente’ da Cavour e dal re». Celebri a Buenos Aires furono le liti furiose che opposero nell’associazione Unione e Benevolenza (che era stata fondata nel 1858) gruppi di garibaldini e mazziniani repubblicani a quelli dei monarchici che portarono questi ultimi ad abbandonare l’associazione e a costituire nel 1861 la Società Nazionale Italiana. Dopo la conclusione delle guerre d’indipendenza e con la gestione sabauda dell’Italia unita all’indomani della prima guerra mondiale, quando si diffuse l’idea di un «Risorgimento incompiuto», si criticò sempre più intensamente Garibaldi in nome degli ideali repubblicani di Mazzini. Alcuni tra i liberali più ortodossi, tra i quali alcuni gobettiani che si ritenevano custodi della tradizione mazziniana, criticarono la figura di Garibaldi divenuto vittima e complice della monarchia che lo aveva usato per i propri fini riducendolo ad «eroe popolaresco e decadente». Un giovane Curzio Malaparte (che si firmava ancora Suckert) nel numero 23 de «La Rivoluzione Liberale», in un articolo intitolato «Gli eroi capovolti» a proposito del Risorgimento proponeva la comparazione critica tra Garibaldi divenuto «tirannello democratico (…) specie di eroe popolaresco e decadente, avverso a’ suoi senza saperlo, preoccupato di far guerra agli stranieri per svegliare gl’italiani», e appunto Mazzini, «il pallido e sdegnoso genovese, apostolo della lotta nascosta contro la maggioranza degli italiani, avversa all’unità e all’indipendenza (…) nemico dei famigliari piuttosto che degli stranieri, preoccupato soprattutto di svegliare gli italiani per potere fare la guerra ai barbari».14

Uno dei punti culminanti delle elaborazioni ideologiche compiute dalla cultura fascista del mito di Garibaldi in rapporto con l’America di Bolivar, che adesso (in una vera e propria esaltazione della propaganda razzial-ideologica) viene definita come di origine romano-latina, è stata quella elaborata tra il 1929 e il 1930 in occasione delle tante manifestazioni tenutesi in Italia e in America per il centenario della morte del Libertador. L’accostamento intimo e fecondo tra Bolivar e Garibaldi, i «due eroi più rappresentativi del genio latino», diventava l’occasione ideologica della strategia culturale e politica che doveva supportare le nuove relazioni che Mussolini pretendeva di stabilire con l’America Latina, in modo particolare con l’oramai quasi trentennale dittatura del generale Juan Vicente Gómez in Venezuela.

In breve, si trattava di trovare – quasi di inventare – degli antecedenti alla politica «panlatina» del fascismo nei confronti dei paesi di un continente che era stato scoperto, sì, da un italiano (Colombo), ma che, sfortunatamente, fu in seguito colonizzato dalla Spagna e privato così del ben più alto «destino italiano» che avrebbe potuto avere. Inoltre, nella mitizzazione dell’eroe Garibaldi, la relazione tra i due «geni latini» permetteva di fare un salto ulteriore nella costruzione di una supposta genealogia che trovava nella latinità tanto le radici della storia americana quanto della politica internazionale del Duce. In effetti, partendo da Roma, della romanità intesa come «cesarismo» e come «latinità» si possono invocare le ragioni storiche che giustificano la pretesa affermazione dell’italianità fascista tanto nel Mediterraneo come in Sudamerica, spazi privilegiati individuati come banco di prova delle ambizioni neoimperiali della politica estera di Mussolini. In questo contesto, la pretesa ricostruzione storiografica dell’auspicata continuità ideale Cesare-Bolivar che aveva raggiunto la sua contemporaneità passando per Garibaldi e Mussolini venne allora sostenuta e imposta come l’asse portante del mito Garibaldi.15

Sintesi culminante e chiarificatrice di queste elaborazioni come produzione di teoria politica tesa a invocare e difendere una presunta latinizzazione dell’America iberica fu il Discorso d’Ordine pronunciato il 12 dicembre del 1930 nella solenne sessione della camera dei deputati, alla presenza di Mussolini e dell’intero Gabinetto, da Ezio Garibaldi, ministro plenipotenziario ad honorem di sua Maestà il Re e nipote dell’eroe dei due mondi: «Garibaldi e Bolivar: i due eroi più rappresentativi del genio latino. Garibaldi e Bolivar – esclamò l’oratore – sono i due campioni dell’idea latina; due Libertadores; due giganti che identificarono la patria con le loro stesse vite. Tanto Garibaldi come Bolivar discendono da una comune tradizione latina, quella dei Cesari, degli Scipioni, della stirpe dei forgiatori di nazioni, dei rappresentanti più alti di questo mondo occidentale che vive, nei giorni in cui si celebra il Centenario bolivariano, il suo grande momento di possibile ritorno alle glorie imperiali dell’antica Roma, all’autorità che impone il prestigioso passato latino di un popolo grazie a questo privilegiato nel consorzio delle nazioni. Ed è quel ritorno alle origini che ricongiunge – in nome dell’associazione simbolica Cesare-Bolivar – i cicli storici tanto dell’Italia quanto del Venezuela. La storia – spiegava Garibaldi – a volte conosce questi ricorsi – nel senso indicato da Vico – meravigliosi. Quando una stirpe, una nazione sono in pericolo, quando si trovano di fronte al bivio tra la vita e la morte, e si propongono di intraprendere nuovi cammini per il loro futuro, in quel momento, a partire dal più profondo delle loro viscere, si manifestano gli eroi e i dittatori. L’Italia è la terra classica di queste manifestazioni della provvidenza. Il Duce Mussolini è la incarnazione storica nella quale vedo riprodotti alcuni aspetti dello spirito di Bolivar, la qual cosa deve farci supporre l’esistenza di autentiche leggi superiori regolatrici dell’evoluzione storica. Quando con Bolivar e gli altri liberatori sorsero gli Stati sudamericani, possiamo affermare – sosteneva Garibaldi – che la civilizzazione latina ha toccato, per l’appunto appena un secolo fa, il suo estremo limite occidentale, più in là del quale non è lecito e non ha senso avventurarsi. In ciò si radica la inconsolabile grandezza di Simon Bolivar: nell’aver marcato con il timbro latino, per la eternità, le vecchie colonie spagnole; la cui decadenza, d’altra parte, le avrebbe destinate probabilmente, se non fosse stato per lui, a cadere in mano degli anglosassoni o dei tedeschi».

«Con l’avanzata del fascismo in questo inizio di secolo – riteneva Garibaldi – ci siamo dedicati al compimento storico di quell’antico progetto dell’Imperium Mundi; di quel disegno universale latino, per la cui realizzazione pratica era indispensabile incorporare a pieno titolo anche i popoli dell’estremo Occidente geografico, estendendo e consolidando in questo modo la latinità fino a dove è pensabile, giusto, lecito farlo e rivendicarlo effettivamente». Per quali ragioni – si domanda Garibaldi – un immenso impero ideale non deve potersi attuare nello stesso tempo tanto in Europa quanto in America? Come edificare, consolidare e proteggere una unità spaziale e politica tanto vasta ed ambiziosa? Apparentemente l’ostacolo maggiore – o per lo meno il più evidente – è di ordine etnico, cioè razziale secondo il leader fascista. Di fatto, mentre questa grande unità latina ideale che ingloba Europa e America possiede ad Occidente «una frontiera naturale e ben definita, costi- tuita dall’Oceano Pacifico, i suoi limiti verso l’Oriente, che si trovano qui vicino a noi – nell’Adriatico – non sono ben definiti e su queste frontiere spingono, cercando un’uscita verso Occidente, popoli e stirpi storicamente nemiche e bramose: i tedeschi e gli slavi».16

Il discorso di Ezio Garibaldi, pochi anni prima dell’alleanza di Mussolini con Hitler, pretendeva gettare le basi della politica internazionale fascista appellandosi alla romanità come fondamento panlatino di un Occidente che doveva ora estendersi fino al continente di Bolivar: le celebrazioni bolivariane permettevano di stabilire ed esaltare una supposta tradizione romano-latina che avrebbe avuto in Giuseppe Garibaldi una delle sue incarnazioni più emblematiche e in Bolivar il continuatore di Cesare nonché il precursore di Mussolini.

Fanesi studia nella sua opera le distinte proiezioni americane della figura di Garibaldi, dopo aver realizzato diverse ricerche, intimamente collegate tra loro, riguardanti la presenza e la diffusione del fascismo nelle Americhe, così come l’analisi delle conseguenti azioni di lotta e resistenza al nazifascismo da parte di tanti italiani emigrati o esiliati nel continente, dai comunisti agli «azionisti», dagli anarchici ai cattolici di Don Sturzo, ai liberali, agli ebrei italiani che furono colpiti dalle leggi razziali del 1938. La differenziata e composita presenza in Brasile, Argentina, Uruguay, Venezuela, Stati Uniti, Cile, Messico o Perù dei protagonisti del fascismo e dell’antifascismo, con le più differenti origini e militanze, in sindacati e partiti, in organizzazioni clandestine, in centri di azione, o nelle redazioni di periodici o riviste costituì le sedi in cui si produssero le variazioni americane del mito di Garibaldi nelle più imprevedibili e persino opposte interpretazioni e manipolazioni. La simbologia del «patriota-guerriero» Garibaldi e dei garibaldini «difensori della repubblica» entrerà nella memoria collettiva del popolo spagnolo durante la guerra antifranchista e negli anni dell’esilio di tanti repubblicani in vari paesi dell’America Latina, in particolare Argentina, Messico e Venezuela. Il ricordo delle Brigate Internazionali e soprattutto del Batallón Garibaldi (divenuto famoso nell’opinione pubblica europea e americana assieme all’undicesima divisione del comandante repubblicano Lister, dopo la clamorosa sconfitta delle truppe di Franco e Mussolini a Guadalajara, nel marzo del 1937) che combatteva con la lungimirante e coraggiosa parola d’ordine coniata da Carlo Rosselli: «Oggi in Spagna, domani in Italia», ripropose il mito di Garibaldi con nuovi contenuti che ebbero grandissima risonanza nell’immaginario delle sinistre in America Latina, proprio per l’eccezionale partecipazione diretta alla guerra di Spagna di tantissimi intellettuali, letterati e poeti americani, tra i quali Pablo Neruda, Ernest Hemingway, César Vallejo, Octavio Paz, Vicente Huidobro, Raúl Gonzáles Tuñón, John Dos Passos, Alejo Carpentier.

L’ispirazione mazziniana e garibaldina dei volontari italiani in Spagna venne spiegata da Rosselli, nella sua appassionata difesa dell’internazionalismo della lotta per la libertà contro l’armata dittatoriale di Franco (appoggiata da Hitler e Mussolini) nel suo discorso del 13 novembre del 1936: «Ascoltate, italiani. È un volontario italiano che vi parla dalla radio di Barcellona. Un secolo fa l’Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell’Austria, dei Borbone, dei Savoia, dei preti. Ogni sforzo di liberazione veniva spietatamente represso. Coloro che non erano in prigione, venivano costretti all’esilio. Ma in esilio non rinunciarono alla lotta. Santarosa in Grecia, Garibaldi in America, Mazzini in Inghilterra, Pisacane in Francia, insieme a tanti altri, non potendo più lottare nel paese lottarono per la libertà degli altri popoli, dimostrando al mondo che gli italiani erano degni di vivere liberi. Da quei sacrifici, da quegli esempi uscì consacrata la causa italiana. (...) E come nel Risorgimento, nell’epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall’estero vennero l’esempio e l’incitamento, così oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto ma virile dei volontari italiani troverà alimento domani una possente volontà di riscatto. È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Fratelli, compagni italiani, ascoltate. È un volontario italiano che vi parla dalla radio di Barcellona».

Negli Stati Uniti l’antifascismo italiano si ritrovò unito nelle diverse manifestazioni alla causa repubblicana spagnola. Vale la pena citare quanto venne emblematicamente ribadito nel numero di agosto 1938 dalla rivista «L’Unità operaia» (bimestrale dei comunisti italiani negli Stati Uniti), a proposito della cerimonia che si era svolta il 4 luglio di fronte alla statua di Garibaldi in Washington Square Park alla presenza di oltre cinquemila antifascisti: «Nel 4 luglio non una parola fu detta o scritta sui giornali fascisti in occasione dell’anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Essi hanno compreso ormai che le masse rivoluzionarie sono disposte a battersi per strappare a loro tutto quello che è di buono e di sano nella nostra Italia. Essi hanno compreso che la massa non è più disposta a lasciare che si insultino le gesta di Garibaldi e tutte le gloriose tradizioni di lotta del Risorgimento Italiano, di cui l’eroica Brigata Garibaldi, composta dei migliori dell’epoca moderna, che in suolo di Spagna rivendicano con il proprio sangue le tradizioni garibaldine, ne sono la testimonianza più chiara e sublime».

I garibaldini tra i brigatisti internazionali ebbero il loro momento di maggiore eroismo durante i tragici giorni della difesa di Madrid, come raccontava il commissario Gustav Regler della XII Brigata: «Madrid resiste! Si è innalzata la barriera delle Brigate Internazionali! E la barriera si mantiene salda!» L’appello a Madrid è scandito nelle diverse lingue: «Batallón Taelmann, fertig machen!», «Batallón André Marty, descendez vite!», «Garibaldini, avanti!».17 Sono gli stessi combattenti cantati da Neruda nella sua «España en el corazón. Himno a las glorias del pueblo en guerra (1936-1937)», testimone dell’arrivo a Madrid della Brigata Internazionale: «Entonces, quebrando la escarcha del mes de frío de Madrid, en la niebla /del alba /he visto con estos ojos que tengo, con este corazón que mira, /he visto llegar a los claros, a los dominadores combatientes /de la delgada y dura y madura y ardiente brigada de piedra».

Rivisitata alla luce della simbologia rappresentata dai garibaldini difensori della repubblica e della libertà contro il nazifascismo, la figura di per sé leggendaria di Garibaldi entrò nella vita quotidiana dei molti esuli spagnoli in America e nell’immaginario di tanti latinoamericani che seguirono da vicino i tragici avvenimenti della guerra di Spagna. Per molti motivi il battaglione che portava il nome di Garibaldi fu il più vicino alla memoria di tanti che ricordavano il giovane Garibaldi nelle sue lotte libertarie sudamericane.

Basti soltanto ricordare un episodio che, seppur minore, non è meno significativo dell’impatto che la guerra di Spagna ebbe non solo tra i latinoamericani presenti nella penisola, ma anche tra coloro che seguirono da vicino quegli episodi in America Latina. Ci si riferisce ai genitori di Ernesto Guevara a Córdoba. La sorella maggiore di sua madre Celia, Cármen de la Serna era sposata con Cayetano Córdoba Iturburu, militante comunista che fu nominato corrispondente del quotidiano argentino «Crítica» nella guerra civile spagnola. Un motivo in più per cui in casa di Ernesto si parlava della sanguinosa guerra e tali episodi, anche nella versione poetica di Neruda, Rafael Alberti o Vallejo, costituivano un’esperienza fondamentale della sua formazione sentimentale e civile. Donna Celia e la sorella Carmen leggevano con passione le corrispondenze dello zio Cayetano, e ancor più le lettere scritte a Carmen, raccontando l’episodio dell’eroica difesa di Madrid. Ogni avanzata o ritirata delle truppe repubblicane era seguita in una mappa nella quale giocando alla guerra vera Ernesto e i suoi fratelli, guidati dai grandi, indicavano le posizioni delle truppe. Ernesto padre, Celia e gli amici comuni che vivevano ad Alta Gracia seguivano con entusiasmo l’eroismo dei volontari delle Brigate e fantasticavano di unirsi a queste truppe di «cavalieri della libertà», della «ardiente brigada de piedra», che erano giunti in Spagna da tante parti del mondo.18 Pochi anni dopo, anche nelle Americhe la figura di Garibaldi ebbe un notevole impatto tra le comunità italiane della sinistra in occasione della formazione nel 1943 delle Brigate Garibaldi in Italia, fortemente sostenute e organizzate dai comunisti italiani con l’attiva partecipazione (importante in alcune regioni, come nel caso della Toscana) del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Il riferimento a Garibaldi e più in generale la valutazione positiva del garibaldinismo militante si prolungheranno sino alla fine della seconda guerra mondiale e all’inizio della vita repubblicana.

Punto culminante della valorizzazione positiva di Garibaldi e del garibaldinismo, nell’ambito della relazione strategica Roosevelt-Stalin fu proprio la posizione dei comunisti italiani esuli negli Stati Uniti che, attraverso uno dei loro rappresentanti più autorevoli, Giuseppe Berti, in un messaggio rivolto al presidente Roosevelt – pubblicato in seguito nell’articolo intitolato «Intorno al monumento di Garibaldi gl’italiani inneggiano all’Italia libera», apparso su «L’Unità del popolo» dell’8 luglio 1943 – sostenevano: «Noi, italiani e americani di origine e discendenza italiana della grande città di New York, rispondendo uniti all’appello rivoltoci dalle nostre società unioniste, civiche e mutualistiche, per commemorare solennemente questo 4 luglio (1943), nel Washington Square Park, il giorno dell’Indipendenza americana, che è anche l’anniversario dell’eroe della democrazia e della libertà, il patriota italiano Giuseppe Garibaldi, dopo aver rinnovato il nostro sacro impegno di tutto fare e tutto dare, sino all’ultima goccia di sangue, per la vittoria dell’America e dei suoi Alleati in questa giusta guerra, che segnerà anche la liberazione del popolo italiano dai suoi oppressori fascisti e nazisti, esprimiamo ancora una volta a Voi, presidente, la nostra più entusiastica approvazione del nobile appello da Voi rivolto al popolo d’Italia, perché cacci i tedeschi dal suolo della patria e rovesci il governo dei traditori fascisti, riprendendo così il suo posto rispettato nella famiglia delle nazioni con un governo popolare di sua scelta, promettiamo il nostro appoggio più attivo alla Vostra politica di guerra».

Negli stessi mesi, in Italia, in nome di Garibaldi si cercava di tenere insieme il patriottismo della Resistenza con la scelta togliattiana della svolta di Salerno riassunta nella formula della «democrazia progressiva», che ebbe il suo ultimo capitolo nelle difficili e combattute elezioni politiche dell’aprile del 1948. Durante la campagna elettorale i comunisti e i socialisti, esprimendo la nuova politica democratica di massa, fecero valere l’immagine patriottica e resistenziale di Garibaldi (ritenuta molto più italiana della tradizionale falce e martello che campeggiava nella bandiera del comunismo), per opporsi allo scudo voluto dalla Democrazia Cristiana, nel quale l’associazione visiva della croce con la libertà avrebbe dovuto, nell’immaginario cattolico, esorcizzare e contenere il possibile arrivo in Italia, fino a piazza San Pietro, delle truppe di Stalin. Iniziava così l’eclissi del mito garibaldino, che ormai non era più il simbolo della grande alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica di lotta congiunta contro il nazifascismo e nemmeno della politica nazionale dei comunisti italiani. L’eclissi sarà resa quasi definitiva con l’esplosione della guerra fredda, in occasione del conflitto in Corea del 1950, che sancì la divisione militare e ideologica del mondo, non solo in Asia ma ben presto anche nel Mediterraneo e nel continente americano per quasi trent’anni, fino al crollo del sistema sovietico. In questo secondo centenario appaiono esaurite le strumentalizzazioni che furono imposte dal mito e Garibaldi può essere finalmente restituito e ricomposto nel suo tempo storico. Fortunata inattualità, dunque, degli usi che furono fatti della figura di Garibaldi, la quale ci consente, per la prima volta, di farlo uscire dalla mitizzazione in cui per due secoli lo avevano costretto, facendolo divenire suo malgrado un «eroe capovolto».19

 

[1] S. Candido, Giuseppe Garibaldi corsaro riograndense (1837-1838), Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1964; E. C. De Rezende Martins, Brasil visto por si mismo (siglos XVIII-XIX) in J. Z. Vasquez (a cura di), Historia general de América Latina, vol. VI, Ediciones Unesco/Editorial Trotta, Madrid 2003.

[2] A. N. Marani, El ideario mazziniano en el Rio de La Plata, Centro de Estudios Italianos, Editorial Universidad Nacional de La Plata, La Plata 1985.

[3] A. Tamborra, Garibaldi e l’Europa: impegno militare e prospettive politiche, Edizioni dello Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, Roma 1983. 4 A. Ferrero, La presencia de Garibaldi en el Perú, Ediciones de la Universidad de Lima, Lima 2005.

[4] A. Ferrero, La presencia de Garibaldi en el Perú, Ediciones de la Universidad de Lima, Lima 2005.

[5] G. Garibaldi, Le Memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, in Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Garibaldi a cura della Reale Commissione, Cappelli, Bologna 1932-33, p. 330.

[6] Ivi., pp. 624-26.

[7] L. Musini, Vita di Simón Bolívar, Borgo San Donnino 1876, p. 26. 8 N. Colli, La Política Francesa en el Río de La Plata: Rosas y el bloqueo de 1838- 1840, Ediciones Cesari, Buenos Aires 1963; J. Lynch, Juan Manuel de Rosas, 1829- 1852, Emecé Editores, Buenos Aires 1984, pp. 281-87.

[8] N. Colli, La Política Francesa en el Río de La Plata: Rosas y el bloqueo de 1838- 1840, Ediciones Cesari, Buenos Aires 1963; J. Lynch, Juan Manuel de Rosas, 1829- 1852, Emecé Editores, Buenos Aires 1984, pp. 281-87.

[9] L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma 2007, pp. 50-53. 10 A. Filippi, Il mito del Che. Storia e ideologia dell’utopia guevariana, Einaudi, Torino 2007, pp. 63-65.

[10] A. Filippi, Il mito del Che. Storia e ideologia dell’utopia guevariana, Einaudi, Torino 2007, pp. 63-65.

[11] B. Mitre, Un episodio troyano. Recuerdos del sitio grande de Montevideo, in ID. Paginas de Historia, Editorial Buenos Aires, Buenos Aires 1906.

[12] C. Rama, Garibaldi y el Uruguay, Ediciones Nuestro Tiempo, Montevideo 1968.

[13] V. Filippi (a cura di), Bolivar y Europa en las cronicas, el pensamento politico y la historiografia. Siglo XIX, Ediciones de la Presidencia de la República, Caracas- Barcellona 1986, pp. 479-594.

[14] K. E. Suckert, Gli eroi capovolti, in La Rivoluzione Liberale, 23/1922, p. 85.

[15] Volpe, Bottai, Grandi, Bodrero, Nicolai, Franzi in Filippi (a cura di), op. cit.

[16] E. Garibaldi, Discorso alla Camera dei Deputati [che] acclama unanime e vibrante di altissimi sensi latini alla gloria immortale di Simón Bolívar, in «Corriere Diplomatico e Consolare», Roma, dicembre 1930.

[17] N. Binns, La llamada de España. Escritores extranjeros en la Guerra Civil, Ediciones de Intervencion Cultural Montesinos Ensayo, Madrid 2004, pp. 219- 223 e 241-45; D. Puccini, La guerra di Spagna e le sue ripercussioni nelle Americhe, in Americhe amare, Quaderni di letterature d'America, Università di Roma «La Sapienza», Roma 1987, pp. 205-211; A. Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi, Torino 1959.

[18] Filippi, Il mito del Che cit., pp. 94-97.

[19] Versione rivista e ampliata dell'introduzione a P. R. Fanesi, Garibaldi nelle Americhe, Cangemi Editore, Roma 2007.