Differenziazione e specialità regionale nell'unità e indivisibilità della Repubblica

Di Marcello Cecchetti Mercoledì 10 Febbraio 2010 14:25 Stampa
Il tema della attuazione del cosiddetto “regionalismo differenziato” si intreccia ormai da tempo, nelle riflessioni della dottrina costituzionalistica, con quello – assai più risalente – della crisi delle autonomie speciali e dei tentativi di ripensare le ragioni e le pro¬spettive di tale specialità. La necessità di individuare i limiti costituzionali “comuni” all’asimmetria delle forme e condizioni dell’autonomia regionale, quale presidio dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, sembra costituire il punto di congiunzione della riflessione sui due temi e, al tempo stesso, la base indispensabile su cui fondare una prognosi comples¬siva del futuro del nostro regionalismo.

Lo stato di crisi conclamata del “regionalismo dell’uniformità/specialità” e l’articolo 116 della Costituzione

Nei contributi di Eduardo Gianfrancesco, Felice Giuffrè, Gianmario Demuro e Guido Rivosecchi pubblicati in questo numero di “Italianieuropei” si coglie un filo rosso che muove da una comune premessa: il giudizio complessivamente insoddisfacente dell’attuale stato di attuazione del nostro modello originario di regionalismo fondato sulla contrapposizione tra uniformità e specialità. Un modello, come è noto, che la revisione costituzionale del 2001 ha inteso correggere nella sostanza, da un lato confermando la possibilità di riconoscere alle cinque Regioni (e alle due Province autonome) espressamente individuate nell’articolo 116 della Costituzione «forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale », dall’altro stabilendo ex novo che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) [norme generali sull’istruzione] e s) [tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali], possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

Da un primo punto di vista, la novità del testo costituzionale riguarda senza dubbio le cosiddette Regioni ordinarie: la differenziabilità di ciascuna di esse – da intendersi correttamente come «differenziazione in astratto delle “forme e condizioni” dell’autonomia regionale, ossia del complessivo patrimonio di competenze e di poteri esercitabili dall’ente Regione nel sistema degli enti della Repubblica»1 – determina, come osserva Gianfrancesco, l’evidente abbandono del “culto per l’uniformità”, pur senza costituire un elemento di “scardinamento” del sistema preesistente.

Si tratta, tuttavia, seppure ancora solo in potenza, di un sicuro fattore di riequilibrio per l’attuale stato del regionalismo italiano, la cui attuazione dovrebbe considerarsi addirittura “necessaria” – sempre secondo quanto rileva l’autore citato – in quanto in grado di conferire una identità più propriamente e autenticamente autonomistica alla nostra forma di Stato, permettendo di incanalare in un circuito virtuoso le istanze di quelle Regioni che ritengano di “poter fare di più” ed evitando l’appiattimento sulle cosiddette Regioni di coda che da tempo caratterizza il concreto funzionamento del sistema.

Peraltro, in una lettura sistematica del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, l’articolo 116 non può non aprire prospettive di forte novità anche in relazione all’altro “universo” tradizionalmente contrapposto all’uniformità, quello della specialità, imponendo di ripensarne in chiave attuale il senso e le condizioni alla luce del nuovo quadro ordinamentale.

Tutti e quattro i contributi qui pubblicati pongono in evidenza, sotto molteplici profili, l’indiscutibile stato di crisi progressiva nel quale, da anni, versano le autonomie speciali. Del resto, la questione dell’autonomia delle cinque Regioni speciali e delle due Province autonome di Trento e di Bolzano, del suo significato, del suo valore, dei suoi limiti e delle sue potenzialità non è affatto un problema nuovo o scarsamente dibattuto. Da qualche decennio, ormai, in una vastissima letteratura, in larga parte assai nota, la dottrina giuspubblicistica si interroga circa la perdurante attualità delle ragioni che portarono i costituenti ad approvare l’articolo 116 della Carta costituzionale, l’emersione di eventuali nuove finalità od obiettivi della specialità, il senso delle sempre più esigue (talora persino stravolte, rispetto al disegno originario) «forme e condizioni particolari di autonomia », i possibili rimedi al perverso fenomeno della “specialità a rovescio” e alla paradossale rincorsa delle autonomie speciali verso l’omogeneizzazione nei confronti delle Regioni cosiddette “di diritto comune”, pur nel mantenimento di alcuni dei loro privilegi, soprattutto di carattere finanziario.

Come affrontare la crisi di identità delle autonomie speciali e la loro parabola discendente che sembra condannarle ad una inesorabile condizione di separatezza e di isolamento? La sensazione che si avverte nella lettura dei quattro contributi che seguono è che – di fronte alle radicali novità della riforma costituzionale del 2001 e, soprattutto, nella fase attuale caratterizzata dal tentativo di provvedere finalmente alla concreta attuazione delle norme contenute nell’articolo 119 della Costituzione attraverso il cosiddetto “federalismo fiscale” – il problema della specialità possa finalmente fuoriuscire dall’angusta prospettiva di una riflessione concernente la particolare condizione autonomistica di specifiche aree periferiche del paese, per assurgere a vera e propria questione ordinamentale in grado di produrre effetti sull’intero sistema delle autonomie territoriali, con implicazioni evidenti sulla ricostruzione del modello complessivo della nostra forma di Stato.

Pur nella diversità dei singoli approcci, infatti, gli autori citati sembrano convergere su un’idea di fondo: la necessità di impostare qualunque ragionamento sulla concreta valorizzazione del principio di “differenziazione” o di “specializzazione diffusa” (così si esprime Giuffrè) ricavabile dall’intero articolo 116 della Costituzione – da assumere quale connotato fondamentale dell’assetto pluralistico e policentrico delle istituzioni repubblicane (articolo 114 della Costituzione) – ma, al tempo stesso, anche sulla effettiva e concreta garanzia del rispetto di quella unità e indivisibilità della Repubblica che l’articolo 5 della Costituzione pone a presupposto stesso del pluralismo istituzionale attraverso il “riconoscimento” e la “promozione” delle autonomie locali. Come efficacemente evidenziato da Demuro, il combinato disposto degli articoli 114 e 116 della Costituzione impone di concepire differenziazione e specialità come parti dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, dal momento che la garanzia del policentrismo convive nella Costituzione proprio con l’unità dell’ordinamento repubblicano.

Il principio di “differenziazione” e le sue implicazioni sistemiche

Se, dunque, si ritiene possibile dare dell’articolo 116 della Costituzione una lettura unitaria, dalla quale ricavare l’esistenza di un generale “principio di differenziazione” delle autonomie regionali, si tratta di comprendere quale significato possa assumere tale principio e quali implicazioni di sistema se ne debbano far discendere. Va sottolineato, innanzitutto, che il principio in questione costituisce senz’altro una evoluzione ordinamentale pienamente coerente – e, forse, logicamente consequenziale – rispetto ai richiamati principi del “riconoscimento” e soprattutto della “promozione” delle autonomie locali contemplati nell’articolo 5 della Costituzione, in base ai quali si impone la progressiva valorizzazione ed espansione del pluralismo istituzionale. La “differenziabilità” delle forme e condizioni di autonomia di tutte le Regioni non può non esprimere una forma di realizzazione più intensa di quel pluralismo su cui già il costituente del 1947 aveva voluto costruire la nostra forma di Stato; in questo senso, Giuffrè sottolinea – in termini del tutto condivisibili – che «il passaggio ad un modello regionale asimmetrico costituisce sviluppo naturale del principio di autonomia, al punto che in mancanza delle differenziazioni tra le Regioni “verrebbero meno le stesse ragioni a fondamento della previsione del principio di autonomia all’interno dell’ordinamento statale”».

La “differenziazione” dell’autonomia regionale, d’altronde, si collega necessariamente con il “principio dispositivo” (Gianfrancesco) che impone la partecipazione dell’ente direttamente interessato al procedimento di riconoscimento della maggiore autonomia almeno quale co-protagonista necessario; con il “principio identitario” delle singole comunità regionali (ciascuna dotata della possibilità di “fare meglio” di tutte le altre), dal quale dovrebbe discendere una inevitabile dimensione “competitiva” tra le Regioni (Demuro); con il “principio di sussidiarietà” (Giuffrè) e, in definitiva, con il “principio democratico”, dal momento che avvicina ai cittadini e ai loro concreti bisogni la stessa distribuzione dei poteri pubblici tra i livelli territoriali, anche nell’ambito di un medesimo livello, in specifica relazione con l’adeguatezza di ciascun ente ad esercitarli e con le differenze che caratterizzano quella determinata realtà.

Da quest’ultimo punto di vista, un’ulteriore conferma è offerta dall’articolo 118, comma 1 della Costituzione, laddove il principio di differenziazione è testualmente contemplato, come canone specifico di funzionamento della sussidiarietà accanto all’adeguatezza, in relazione alla definizione degli spazi di autonomia amministrativa di tutti gli enti della Repubblica. In tale contesto, il contenuto precettivo del principio di differenziazione consiste nello stabilire che la valutazione di adeguatezza/inadeguatezza rispetto allo svolgimento della funzione che sorregge il principio di sussidiarietà deve tener conto delle differenze concrete che sussistono tra enti della medesima categoria. Il principio di differenziazione, dunque, ai fini della concreta allocazione delle competenze amministrative, spinge il legislatore di volta in volta competente a trattare diversamente enti che, pur appartenendo alla medesima categoria (ad esempio, due Comuni, due Province, o anche due Regioni) hanno caratteristiche (dimensionali, territoriali, demografiche, sociali ecc.) differenti. Se così è, la previsione costituzionale del “regionalismo differenziato” o “asimmetrico” non può essere letta come semplice addizione di un elemento accidentale rispetto al nostro sistema regionale.

Si tratta, infatti, di un elemento che vale a qualificare lo stesso modo di essere e, soprattutto, di divenire delle autonomie regionali, proprio nell’ottica della loro massima valorizzazione, almeno sotto il profilo di rendere possibile, per ciascuna realtà, uno sviluppo delle proprie peculiarità adeguato alla specificità delle situazioni, attraverso strumenti di intervento diversificati rispetto al modello comune applicabile indifferentemente a tutte le Regioni.2 E proprio con riferimento alle possibili virtù della nuova norma contenuta nell’articolo 116, comma 3 della Costituzione, anche nei confronti delle tradizionali autonomie speciali, già all’indomani dell’approvazione della legge costituzionale 3/01, è stato puntualmente osserva-to che tale “clausola evolutiva” costituirebbe l’espressione di un principio di “ordinaria specialità”, o di “geometria variabile”, che caratterizzerebbe flessibilmente l’assetto complessivo delle competenze fra Stato e Regioni. In altri termini, grazie alla suddetta clausola – direttamente connessa con i principi di autonomia e di sussidiarietà – lo stesso riparto delle competenze assumerebbe connotati intrinseci (seppur ancora, allo stato attuale, soltanto potenziali) di differenziazione e mobilità tali da far ritenere che anche la specialità tradizionale delle autonomie regionali non venga assorbita dal nuovo modello costituzionale, ma entri definitivamente nell’ordinamento come parte qualificante l’intero sistema.3

In un simile contesto, è del tutto evidente che l’introduzione del principio di differenziazione, parimenti riferibile – seppure con diverse modalità di realizzazione in concreto – a tutte le autonomie regionali, comporta la definitiva perdita di attualità dell’antico modello dualistico fondato sulla contrapposizione tra uniformità e specialità e la sua vera e propria sostituzione con un nuovo modello di regionalismo, ancora tutto da definire prima ancora che da attuare, la cui caratteristica fondamentale diviene il binomio costituito dal “diritto comune”, da un lato, e dai “diritti differenziati”, dall’altro. Tutti gli autori dei contributi contenuti nelle pagine che seguono concordano sul fatto che tanto le Regioni ordinarie quanto quelle speciali debbano ritenersi inequivocabilmente innestate all’interno di un sistema unitario definito da un diritto comune rinvenibile, ovviamente, in primis nella Carta costituzionale;4 di modo che, proprio nell’ambito di questo diritto comune i diritti differenziati (da individuare attraverso l’adeguamento degli statuti speciali o le leggi atipiche di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione) – ossia le forme e condizioni particolari di autonomia che potranno caratterizzare la posizione costituzionale di ciascuna Regione, determinando la virtuosa asimmetria dell’ordinamento autonomistico – dovranno necessariamente incontrare il parametro della loro legittimità costituzionale, quale espressione della garanzia dei principi di unità e indivisibilità della Repubblica sanciti dallo stesso articolo 5 della Costituzione.

La problematica individuazione del “diritto indifferenziabile” e del “diritto differenziabile”

La prospettiva del nuovo modello fondato sulla coppia diritto comune- diritti differenziati rende assolutamente imprescindibile e preliminare – rispetto a qualunque ipotesi di concreta attuazione del principio di differenziazione delle autonomie regionali – l’individuazione, nell’ambito del diritto costituzionale comune, del diritto da considerare “indifferenziabile” e, per converso, del “diritto differenziabile”, come tale suscettibile di dare legittimamente vita a quelle «forme e condizioni particolari di autonomia» cui fa riferimento l’articolo 116 della Costituzione.

A prescindere dagli aspetti formali concernenti le fonti e i procedimenti per l’attribuzione della maggiore autonomia (aspetti la cui analisi potrebbe condurre ad ipotizzare l’esistenza di un principio costituzionale inderogabile quantomeno di “coinvolgimento necessario” della Regione direttamente interessata, nonché di un principio di permanente revocabilità unilaterale delle particolari condizioni di autonomia da parte dello Stato, almeno con la legge costituzionale approvata nelle forme standard dell’articolo 138 della Costituzione), occorre prendere atto che, in relazione ai profili sostanziali, la questione dell’individuazione del diritto comune “indifferenziabile” presenta una problematicità senza dubbio minore con riferimento alla differenziabilità dell’autonomia delle quindici Regioni ordinarie, se non altro in ragione del fatto che l’articolo 116, comma 3 della Costituzione prevede espressamente che le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia » possano essere attribuite, in questo caso, solo nell’ambito delle materie di potestà legislativa concorrente di cui all’articolo 117, comma 3, nonché di tre specifiche materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Tuttavia, la esplicita delimitazione degli ambiti di operatività di questa differenziazione – con il connesso mantenimento delle competenze trasversali nelle mani del legislatore statale, a presidio dell’unitarietà dell’ordinamento – non elimina del tutto il problema della necessità di una compiuta ed esauriente individuazione del “diritto indifferenziabile”. In primo luogo, come osserva puntualmente Gianfrancesco, si pone la questione di alcune delle materie attualmente di legislazione esclusiva statale – e, come tali, poste a presidio di indiscutibili “esigenze unitarie” – potenzialmente attribuibili alla competenza regionale (in particolare, le «norme generali sull’istruzione» e l’«organizzazione della giustizia di pace»); in secondo luogo, dovrebbe ipotizzarsi la verosimile inderogabilità dei principi dell’articolo 118, comma 1 della Costituzione sull’allocazione delle funzioni amministrative e, più in generale, l’inderogabilità di tutte le norme costituzionali che non disciplinino il riparto di competenze tra Stato e Regioni e che, per tale ragione, siano da ritenere estranee alla definizione del rapporto tra la sfera dell’autonomia regionale e la sfera di attribuzioni dei poteri centrali (basti pensare alle norme che riconoscono direttamente attribuzioni agli enti locali). Ancora, sicuramente inderogabili dovrebbero considerarsi le previsioni costituzionali che riconoscono agli organi centrali dello Stato quei poteri sostitutivi che costituiscono le “valvole di chiusura” del sistema. Infine, non può certo essere trascurata la difficoltà di definire, tanto nel suo significato quanto nella sua effettiva portata normativa, l’esplicito limite contenuto nell’articolo 116, comma 3, riferito al «rispetto dei principi di cui all’articolo 119» in tema di autonomia finanziaria.5

Ad ogni modo, il problema in esame assume connotati decisamente più complessi in relazione ai vincoli costituzionali che debbano ritenersi imposti al riconoscimento delle «forme e condizioni particolari di autonomia» alle cinque Regioni speciali e alle due Province autonome e, dunque, all’opera di necessario adeguamento al vigente testo costituzionale degli attuali statuti approvati con legge costituzionale. Nella dottrina costituzionalistica non è dato rinvenire ancora una posizione condivisa circa il fondamento giuridico della ipotizzata inderogabilità di alcuni principi costituzionali da considerare comuni all’intero sistema delle autonomie e, come tali, non derogabili in sede di revisione degli statuti speciali. Ciò nondimeno, è assai difficile affermare che, proprio in forza dell’articolo 5 della Costituzione, alcune norme contenute nell’attuale Titolo V della Parte II della Costituzione possano essere considerate suscettibili di “differenziazione” in relazione alle cinque Regioni indicate nell’articolo 116, comma 1 della Costituzione Si pensi, in proposito, al principio del “pluralismo istituzionale paritario” dell’articolo 114; oppure al “principio di residualità” della potestà legislativa regionale e al corrispondente “principio di tassatività” delle competenze legislative statali. Si pensi, inoltre, alle insopprimibili ga-ranzie di uniformità del corredo giuridico essenziale degli individui cui rispondono alcune delle materie espressamente riservate alla legislazione nazionale (cittadinanza, giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti, previdenza sociale); ancora, ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza per l’allocazione delle funzioni amministrative tra tutti gli enti della Repubblica; o alle connesse clausole di chiusura del sistema che riconoscono poteri sostitutivi in capo agli organi dello Stato. Si pensi, infine, alle garanzie costituzionali previste a favore degli enti territoriali minori e, last but not least, ai principi sull’autonomia finanziaria di entrata e di spesa o sulla perequazione, coesione e solidarietà di cui all’articolo 119.6

Proprio a tale ultimo riguardo, il contributo di Rivosecchi mette a fuoco, in termini assai chiari, il tema dell’indispensabile coinvolgimento delle autonomie speciali all’interno del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario intestato al legislatore statale e direttamente connesso ai principi di unità e di solidarietà sociale della Carta costituzionale, a pena della sua sostanziale vanificazione. Sulla base di questa premessa, pienamente condivisibile, l’autore sottolinea i pericoli e le aporie che potrebbero scaturire nell’attuazione del cosiddetto “federalismo fiscale” dalle numerose carenze e contraddizioni rinvenibili nell’impianto della legge di delega 42/09 in relazione alla finanza delle autonomie speciali.

Considerazioni di sintesi

Dall’impostazione qui suggerita risulta evidente la cornice unitaria all’interno della quale potrebbe utilmente svolgersi la riflessione sulle prospettive di evoluzione del nostro regionalismo complessivamente considerato, in particolare nella direzione di dare compiuta e razionale attuazione a quella sorta di “differenziazione diffusa” prospettata da Giuffrè, la quale accomuni – pur con tutte la peculiarità e le specificità dei due meccanismi previsti nell’articolo 116 e senza dover necessariamente rinunciare alla “speciale specialità” delle cinque Regioni ivi prevista, come invece mostra di auspicare lo stesso Giuffrè – tanto le Regioni ordinarie quanto quelle speciali (che, forse, così continueremo a chiamare). Una differenziazione chiamata a misurarsi, per le une come per le altre, sul parametro di legittimità del diritto costituzionale comune “indifferenziabile”, egualmente applicabile a tutte quale garanzia dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e, dunque, anche dei connessi valori di eguaglianza, solidarietà, cooperazione e coesione sociale.


[1] Così A. Anzon Demmig, Quale “regionalismo differenziato”?, in “Le Istituzioni del Federalismo”, 1/2008, p. 51.

[2] Cfr. già M. Cecchetti, Il regionalismo differenziato, in “i Quaderni di Italianieuropei”, 1/2009, pp. 95-96.

[3] In tal senso, cfr. G. Pastori, La nuova specialità, in “Le Regioni”, 3/2001, p. 493.

[4] Cfr., ancora, Cecchetti, op. cit., p. 98.

[5] Al riguardo, cfr. di nuovo Cecchetti, op. cit., pp. 101-2, e ivi il richiamo ad A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in “Federalismo fiscale”, 1/2007, pp. 182 e sgg.

[6] Su tali aspetti, peraltro, come è ampiamente noto, la giurisprudenza costituzionale, sia pure in relazione al più limitato problema dell’applicabilità alle Regioni speciali – «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti» – delle norme contenute nella legge costituzionale 3/01 in forza della clausola di maggior favore contenuta nell’articolo 10, non è riuscita a fornire fino ad oggi un punto di vista univoco e coerente (cfr., per tutti, S. Pajno, L’“adeguamento automatico” degli statuti speciali, in “Federalismi.it”, 23/2008, disponibile su www.federalismi.it).