Il rendimento istituzionale delle Regioni italiane, un decennio dopo l'elezione diretta

Di Raffaele Bifulco e Nicola Lupo Mercoledì 10 Febbraio 2010 14:23 Stampa
A dieci anni dalla riorganizzazione della forma di governo regionale è lecito interrogarsi sugli effetti di tale riforma. Nonostante la consapevolezza che questa trasformazione sia stata accompagnata da alcuni effetti negativi, non è pensabile proporre un ritorno al passato; è auspicabile invece che le istituzioni nazionali recuperino la capacità di guida del processo di regionalizzazione/federalizzazione. Nella prospettiva, tra l’altro, dell’istituzione di una seconda Camera rappresentativa delle Regioni.

L’approssimarsi di una nuova tornata elettorale, nel marzo 2010, per tredici Regioni ordinarie sollecita una riflessione sul rendimento dell’istituzione regionale. Negli ultimi dieci anni, in effetti, sono intervenuti mutamenti assai profondi sia nell’organizzazione e negli equilibri interni della Regione (il riferimento è all’elezione diretta del presidente e al conseguente ridisegno della forma di governo determinati dalla legge costituzionale 1/99, approvata a ridosso delle elezioni regionali del 2000, e, per le Regioni speciali, dalla legge costituzionale 2/01), sia nelle competenze e nei poteri spettanti al livello regionale (essenzialmente per effetto della legge 59/97 e della legge costituzionale 3/01).

Nel momento in cui il legislatore ha deciso, con la legge 42/09 in materia di federalismo fiscale, di compiere ulteriori passi nella direzione della valorizzazione del livello regionale di governo, sembra necessario domandarsi quali siano stati gli effetti derivanti dalle riforme fin qui realizzate (con particolare riferimento, per ora, all’elezione diretta del presidente).

Una prima considerazione discende dal confronto rispetto al quadro che un celebre studio sociologico aveva fornito, una ventina d’anni or sono, circa il radicamento e il rendimento dell’istituzione regionale: ne emergeva un radicamento ancora piuttosto scarso delle Regioni (almeno di quelle a statuto ordinario), con un panorama assai diversificato a seconda dell’area territoriale di volta in volta interessata (con un evidente miglior rendimento delle Regioni del Centro- Nord, spiegato essenzialmente sulla base di elementi tratti dal contesto storico-sociale: il cosiddetto “capitale sociale”).1

Allo stesso modo, gli studiosi di scienza politica, alla fine degli anni Novanta, avevano evidenziato un grosso problema in termini di stabilità degli esecutivi regionali: per citare un solo dato, prima del 1995, gli esecutivi (delle Regioni ordinarie e speciali) erano durati in media 524 giorni, e le crisi 38 giorni, con punte (in particolare, in Campania) di durata media dei governi pari ad appena 326 giorni e delle crisi di ben 108 giorni (dati non molto più confortanti emergevano in Liguria o in Regioni speciali quali Sardegna e Sicilia).2

Rispetto a questo quadro, dunque, tra gli effetti positivi delle regole introdotte nel 1999, e in particolare dell’elezione diretta del presidente della Regione, sono sicuramente da annoverare, da un lato, la maggiore visibilità assicurata al livello istituzionale regionale3 e, dall’altro, la stabilizzazione degli esecutivi.4

Tuttavia, l’elezione diretta del presidente della Regione ha portato con sé anche una serie di effetti negativi, identificabili, per un verso, nell’accentuata personalizzazione degli esecutivi e, per altro verso, nella mancanza di contropoteri all’interno della forma di governo regionale.5

I due effetti appaiono, invero, strettamente connessi tra di loro: i governatori regionali hanno goduto, in questi anni, di ampi poteri nella determinazione dell’indirizzo politico e, per effetto dei sistemi di concertazione territoriale operanti nei rapporti sia con lo Stato centrale sia con gli enti locali, hanno spesso potuto incidere sensibilmente anche sull’indirizzo politico nazionale e su quelli degli enti locali ricompresi nei confini della propria Regione.

In tutto ciò non ci sarebbe – almeno ad avviso di chi scrive – nulla di male, se solo al rafforzamento del presidente di Regione si fossero accompagnati una valorizzazione dei contropoteri, in grado di bilanciare il surplus di legittimazione di cui viene a godere il presidente, e un incremento dei meccanismi volti a far valere la sua responsabilità politica.

Invece, in parte per effetto di un malinteso “presidenzialismo” regionale, in parte a causa del ritardo con cui si è proceduto all’approvazione dei nuovi statuti (i cui margini di azione sono peraltro stati interpretati in modo piuttosto ristretto dalla giurisprudenza costituzionale),6 si è proceduto, più o meno intenzionalmente, in direzione esattamente opposta.

In primo luogo, i consigli regionali sono usciti assai indeboliti dal nuovo disegno della forma di governo e solo con grande fatica, e sempre con tempi lunghi, hanno iniziato a ripensare la propria funzione, anzitutto valorizzando i compiti di controllo e di codeterminazione dell’indirizzo politico regionale (si vedano, ad esempio, i nuovi regolamenti consiliari di Lombardia e Piemonte, approvati nel corso del 2009).

In secondo luogo, gli organi di garanzia statutaria sono stati istituiti con grande lentezza e hanno iniziato ad operare, per ora, solo in tre Regioni (Liguria, Piemonte ed Emilia-Romagna);7 analogamente, i consigli delle autonomie locali, pur “costituzionalizzati” dalla legge costituzionale 3/01, almeno con riguardo alle Regioni ordinarie, sono stati istituiti o riformati con molte titubanze e incertezze, soprattutto per effetto dei veti incrociati e dell’ancora irrisolto rapporto tra Regioni ed enti locali.8

In terzo luogo, non ha sostanzialmente operato quella che, nei sistemi presidenziali così come a livello comunale e provinciale, costituisce la principale limitazione giuridica all’accumulazione di poteri e di legittimazione popolare che l’elezione diretta comporta a vantaggio del capo dell’esecutivo: il divieto di svolgere più di due mandati consecutivi da presidente della Regione. Tale criterio, pur sancito in termini di principio dall’articolo 2, comma 1, lettera f, della legge 165/04, ha, infatti, trovato scarsissima attuazione da parte del legislatore regionale.9 Con la conseguenza che, specie nelle Regioni in cui l’alternanza tra coalizioni appare improbabile (per tutte, la Lombardia), vi sono presidenti che sono in carica ininterrottamente sin dal 1995. In quarto luogo, l’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione, in materia di autonomia finanziaria regionale, ha impedito fin qui la costruzione di un circuito autonomia-responsabilità in grado di rendere comprensibile per gli elettori l’esito delle politiche regionali. E, certo, la costruzione di tale circuito non è stata incoraggiata a causa dell’assenza di una Camera delle Regioni, ossia di una sede trasparente e partecipata in cui far emergere, a livello centrale, i condizionamenti, in positivo e in negativo, esistenti tra i diversi livelli di governo in relazione allo svolgimento delle principali politiche pubbliche;10 e dal persistente operare, in sua vece, di un organismo di cooperazione amministrativa quale dovrebbe essere il cosiddetto sistema delle Conferenze Stato-autonomie territoriali.

In quinto e ultimo luogo, rispetto alla esperienza anteriore all’elezione diretta non pare essere mutato un dato di fondo, attinente l’assetto del sistema dei partiti. Questi, infatti – anche quando radicati prevalentemente in alcune aree del paese – mantengono una struttura largamente accentrata e presentano articolazioni assai deboli a livello regionale:11 tant’è che le principali, e spesso decisive, opzioni relative alle candidature e alle alleanze vengono decise (o comunque controllate) dal centro, anche nei casi in cui sono (parzialmente) rimesse a meccanismi di tipo elettorale.

Finché questi elementi non saranno affrontati, e gli squilibri attuali permarranno, anzi finiranno con ciò per consolidarsi, la sensazione è che la politica regionale continuerà a rappresentare una sede in cui sperimentare le (cattive) pratiche del “maggioritario all’italiana”: quello che, con qualche semplificazione, si caratterizza per la concentrazione dei poteri e l’irresponsabilità di chi li detiene; per la moltiplicazione dei costi della politica e lo svilimento delle assemblee rappresentative; per l’elusione degli istituti di garanzia e per la diffusione del premio di maggioranza (pressoché sconosciuto altrove).

E forse non è un caso che proprio negli ultimi anni le principali discontinuità registratesi con riguardo alle istituzioni regionali abbiano tratto origine da alcuni dei nodi irrisolti del sistema politico italiano: si pensi ai rapporti tra politica e giustizia, in Abruzzo; agli intrecci tra interessi politici e interessi imprenditoriali, in Sardegna; alla mediatizzazione della vita privata del presidente eletto, nel Lazio; agli stalli politici, legati all’assenza di una reale dialettica politica, nella gestione della politica dei rifiuti in Campania.

Tali situazioni giustificano le critiche al sistema di potere regionale.12 Non altrettanto condivisibili appaiono, tuttavia, le tesi che, proprio partendo da tali casi estremi, propugnano un ritorno al passato, ad uno status quo ante riforma costituzionale del 1999. Ciò sarebbe in controtendenza rispetto a ormai risalenti processi storicosociali nazionali e sovranazionali. Infatti, per quanto governata dall’alto, la regionalizzazione italiana si inserisce in quei complessi processi di federalizzazione che hanno interessato molti ordinamenti originariamente unitari. Essi hanno assunto forme accentuate soprattutto in Belgio, Spagna, Canada e forme più temperate in Austria, Portogallo, Francia, Regno Unito. Ciò che è degno di attenzione è che questi processi di federalizzazione si sono svolti, per lo più, in un arco temporale e in uno spazio comuni: la seconda metà del Novecento, il territorio europeo. Si sarebbe tentati di osservare, in una prospettiva più astrat ta, che i processi federali nella seconda metà del XX secolo hanno preso la forma soprattutto dei cosiddetti “federalismi per dissociazione”. E si potrebbe fare un passo ancora più in là e ipotizzare che questi processi siano legati, in un complesso rapporto di causa-effetto, alla cessione di sovranità degli Stati nazionali a favore di unità ordinamentali più ampie, come è appunto l’Unione europea.13

Per evitare esiti disgreganti o comunque di eccessiva frammentazione, è necessario che questi processi siano adeguatamente governati, in primis dalle istituzioni centrali. Non a caso, fino a qualche anno fa, i temi della riforma regionale (o, meglio, dell’attuazione del dettato costituzionale in materia regionale) e della riforma dello Stato venivano giustamente sovrapposti o fatti coincidere.14 Non tutti gli Stati hanno dimostrato un’uguale capacità di governance, come nel caso del Belgio e, in misura minore, della Spagna. In Italia, fino agli anni Novanta del secolo scorso, il potere centrale (scilicet, i partiti nazionali) ha dettato i tempi e l’ampiezza della regionalizzazione (si pensi all’istituzione delle Regioni ordinarie, al frazionamento temporale del trasferimento delle competenze regionali, e così via).15

Con la progressiva affermazione di un partito legato a una porzione del territorio, la Lega Nord, questa capacità di guida delle istituzioni nazionali si è visibilmente incrinata. Prova di ciò so - no sia la riforma costituzionale del 2001 sia la recentissima approvazione della legge 42/09 in materia di federalismo fiscale: provvedimenti adottati, nel primo caso, per inseguire la Lega Nord nel proprio “territorio di caccia” e, nel secondo, per soddisfare esplicite richieste di tale partito (peraltro legittimamente fondate sull’articolo 119 della Costituzione, modificato appunto dalla riforma del 2001). In conclusione si potrebbe dire che, se per un verso appare irrealistico un aprioristico e artificiale arresto o ripensamento del processo italiano di regionalizzazione/federalizzazione, per l’altro esso necessita di una forte capacità di guida da parte delle istituzioni nazionali. Un arretramento dell’autonomia regionale non si otterrebbe a costo zero, ma richiederebbe un ripensamento globale del l’assetto delle istituzioni centrali e periferiche. I rischi di un’assenza di adeguata governance non sono pochi. Con specifico riferimento alla situazione italiana, possiamo pensare alle seguenti conseguenze. Per quanto fortemente accentrata nella sua organizzazione, la Lega Nord rappresenta un partito dalla forte connotazione regionale. La sua presenza, le sue richieste, il condizionamento che è in grado di esercitare all’interno dello schieramento politico di centrodestra potrebbero essere cause della nascita di altri partiti regionali, crea ti al solo fine di costituire un argine o comunque una controspinta alla pressione della Lega Nord stessa. Indipendentemente da questo possibile scenario (non tanto irrealistico se si osservano i recentissimi avvenimenti politici in corso nelle Regioni meridionali), un eccessivo condizionamento della politica nazionale da parte della Lega Nord potrebbe essere all’origine di un aggravamento della frattura tra Nord e Sud. Se non attentamente ponderata, l’attuazione della delega sul federalismo fiscale, in particolare, si presta ad essere l’occasione di questo ulteriore deprecabile scenario.

Infine il mantenimento dei caratteri principali della forma di governo regionale, per come sono stati sopra descritti, accentuerà l’eventualità del formarsi di veri e propri potentati regionali/ locali, fondati su logiche clientelari, con esiti devastanti per la maturazione dello spirito civico e democratico.

L’agenda politica non può evidentemente ignorare i processi individuati, i problemi che essi pongono e soprattutto la necessità di guidarli. Gli interventi da attuare sono molteplici e di natura differente. Con riferimento a quelli di livello costituzionale, si ritiene, senza mezzi termini, che la riforma del bicameralismo nel senso della istituzione di una seconda Camera adeguatamente rappresentativa delle Regioni rappresenterebbe l’occasione per recuperare, da parte delle istituzioni nazionali, la capacità di guida dei processi sociali e politici fin qui descritti.16 I vantaggi per l’intero sistema politico nazionale sarebbero diversi.

In primo luogo, la creazione di una seconda Camera regionale legittimerebbe definitivamente le Regioni come attori, a pieno titolo, del processo politico nazionale. La partecipazione regionale all’adozione dei provvedimenti legislativi in grado di incidere sulla loro autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria avrebbe come conseguenza diretta il rafforzamento del circuito virtuoso autonomia-responsabilità, che va posto alla base di ogni reale processo federale. Inoltre, il coinvolgimento delle Regioni nell’esercizio della funzione legislativa nazionale dovrebbe contribuire a stemperare l’alta conflittualità che si riflette nel contenzioso Stato-Regioni dinanzi alla Corte costituzionale.

In secondo luogo, una efficace riforma del nostro antiquato bicameralismo perfetto (anche attraverso la riduzione del numero complessivo dei parlamentari) costituirebbe l’occasione per un contributo alla riduzione dei costi della politica. D’altronde, l’instaurazione del rapporto di fiducia con la sola prima Camera potrebbe rappresentare un ulteriore passaggio di stabilizzazione e di rafforzamento del circuito di formazione e attuazione dell’indirizzo politico.17

Infine, non sono da sottovalutare altri due importanti riflessi della riforma del bicameralismo, la cui incidenza dipenderà dalla concreta configurazione della riforma medesima. Il primo riguarda la previsione di un rafforzamento della partecipazione delle Regioni, attraverso la seconda Camera, al procedimento di revisione costituzionale. Dipenderà naturalmente dalle forze politiche stabilire il grado di tale coinvolgimento: la partecipazione delle Regioni può però diventare un utilissimo strumento per ricalibrare il procedimento di revisione in un mutato contesto politico. Il secondo riguarda la composizione della Corte costituzionale: anche se in misura limitata, sarebbe difficile negare a una Camera delle Regioni un potere di nomina di una quota dei “giudici della legge”.


[1] Il riferimento è a R. D. Putnam, La tradizione civica nelle Regioni italiane, Mondadori, Milano 1993, specialmente pp. 61 e sgg., 97 e sgg.; di recente cfr. anche R. Cartocci, Il capitale umano. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 2007.

[2] Cfr. S. Vassallo, G. Baldini, Sistemi di partito, forma di governo e politica delle istituzioni nelle regioni italiane, in “Le Istituzioni del Federalismo”, 3-4/2000, pp. 533 e sgg. e R. Bin, Lettera di un Talebano ad un Fariseo, disponibile su www.forumcostituzionale.it, 7 ottobre 2003.

[3] Sul punto cfr., ad esempio, Vassallo, Regioni, “governatori” e federalismo. Come la leadership può cambiare la geografia, in “Le Istituzioni del Federalismo”, 3-4/2001, pp. 643 e sgg.

[4] Cfr. M. Rubechi, Le regole del gioco. Forma di governo e sistema elettorale regionale, disponibile su www.forumcostituzionale.it, 16 novembre 2009, specialmente pp. 8 e sgg.

[5] Un attento panorama, che dà conto anche dei diversi gradi di personalizzazione a seconda delle diverse realtà, è ora offerto da F. Musella, Governi monocratici. La svolta presidenziale nelle regioni italiane, Il Mulino, Bologna 2009, specialmente pp. 201 e sgg.

[6] Cfr. soprattutto la sentenza 2/04, su cui si veda la nota critica di M. Olivetti, Lo “spirito della Costituzione”: un concetto giuridicamente inutile, in “Giurisprudenza costituzionale”, 1/2004, pp. 38 e sgg. A supporto si veda, invece, Bin, Un passo avanti verso i nuovi Statuti regionali, in “Le Regioni”, 4/2004, pp. 909 e sgg.

[7] Sugli organi di garanzia statutaria cfr. C. Napoli, Gli organi di garanzia statutaria nella legislazione regionale, in “Le Istituzioni del Federalismo”, 2/2008, pp. 167 e sgg.

[8] Per un quadro cfr. A. Ferrara, Gli statuti e la normativa istituzionale delle regioni ordinarie, in ISSIRFA, Quinto Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia, Giuffrè, Milano 2008, pp. 51 e sgg., specialmente pp. 65 e sgg.

[9] Praticamente, soltanto in Abruzzo e in Toscana (oltre che in Umbria, ma sulla base di una previsione statutaria, di dubbia legittimità costituzionale). Cfr. M. Raveraira, Il limite del doppio mandato alla immediata rielezione del presidente della giunta regionale: una questione complessa, disponibile su www.federalismi.it, 7 ottobre 2009. Per la (assai discutibile) tesi secondo cui il divieto di terzo mandato si applicherebbe solo dalle elezioni del 2015 cfr. S. Ceccanti, Il tetto ai mandati qualifica l’ordinamento regionale, ma non è applicabile prima del 2015, Ivi, 7 ottobre 2009.

[10] Sulla complessa articolazione territoriale delle politiche pubbliche cfr. la nota di sintesi del Rapporto 2009 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, Camera dei deputati, Roma 2009, specialmente pp. 14 e sgg.

[11] Sul mancato decentramento organizzativo dei partiti politici come una delle cause del persistente centralismo cfr., per tutti, T. Martines, L’“intreccio delle politiche” tra partiti e regioni: alla ricerca dell’autonomia regionale, in CNR-Istituto di studi sulle Regioni, Autonomia politica regionale e sistema dei partiti - I. I partiti di fronte alle Regioni, Giuffrè, Milano 1988, pp. 1 e sgg.

[12] Per tutti, si veda C. Salvi, M. Villone, Il costo della democrazia, 2ª edizione, Mondadori, Milano 2007, pp. 20 e sgg.

[13] Sul punto, si veda D. Held, Modelli di democrazia, Il Mulino, Bologna 1997, p. 63.

[14] Ripercorre i termini della questione V. Atripaldi, La Regione come “via italiana all’estinzione dello Stato”, in “Ichnusa”, 1989, pp. 39 e sgg.

[15] S. Tarrow, Decentramento incompiuto o centralismo restaurato? L’esperienza regionalistica in Italia e in Francia, in “Rivista italiana di scienza politica”, 2/1979, pp. 239 e sgg.; G. Pasquino, Organizzazione dei partiti, in ISAP, La regionalizzazione, I, Giuffrè, Milano 1983, pp. 793 e sgg.

[16] Capacità di guida che implica anche la volontà, da parte delle istituzioni parlamentari, di creare adeguati canali deliberativi. Non pare che vada in questa direzione la recente proposta del ministro Roberto Calderoli di affidare il processo di riforma costituzionale ad una convenzione formata da parlamentari ed (ex) titolari di altre rilevanti cariche istituzionali. Al di là delle buone intenzioni, la soluzione dei nodi costituzionali, in altri termini, non passa attraverso la creazione di organismi, in parte sganciati dai circuiti della rappresentanza, in parte connotati da una natura fortemente tecnica.

[17] Per una più completa analisi dei progetti di riforma del Senato cfr. la sintesi di A. D’Atena, Seconda Camera e regionalismo nel dibattito costituzionale italiano, disponibile su www.issirfa.cnr.it, 28 giugno 2006.