Cina, diritto e democrazia: un'amicizia possibile?

Di Federico Roberto Antonelli Giovedì 10 Dicembre 2009 18:47 Stampa

Partendo dalla constatazione del processo di moder­nizzazione del sistema giuridico in atto negli ultimi decenni nella Cina popolare e dell’intensa opera di codificazione che sta accompagnando le più note riforme economiche, vengono evidenziate alcune delle caratteristiche fondamentali di tale trasforma­zione e l’eco che stanno trovando nella società civi­le; più in generale, l’attenzione si concentra sul pos­sibile impatto positivo che le riforme del diritto po­trebbero avere sul sistema istituzionale cinese e sul-l’avvio di un processo di democratizzazione.

La centralità del diritto nella politica cinese di oggi

Il 1° ottobre 2009, in occasione dei sessanta anni dalla fondazione della Repubblica popolare, Piazza Tiananmen è stata nuovamente teatro di uno di quegli avvenimenti che hanno scandito la storia cinese contemporanea. 1 Con una parata che ha visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, Piazza Tiananmen è stata teatro dell’autocelebrazione da parte del popolo cinese (sarebbe senz’altro riduttivo vederla come una semplice manifestazione del regime) dei numerosi successi ottenuti non solo in campo economico, tecnologico, militare (le cosiddette “quattro modernizzazioni”), ma anche culturale e sociale.

Mancava a questo appuntamento la quinta delle modernizzazioni da molti, sia in Cina che all’estero, auspicata (fin dal 4 maggio 1919): quella “democratica”. La cosiddetta “quinta modernizzazione” è stata ribattezza da alcuni anche come Mr Democracy, quasi fosse personificata da un signore (dalle chiare sembianze occidentali) con il quale la Cina e i cinesi avrebbero dovuto stringere al più presto amicizia. Se questa amicizia non sembra essere mai sbocciata, in compenso, la Cina degli ultimi venti anni (ovvero quella post guerra fredda) sembra abbia ormai stretto un’amicizia duratura con un tale Mr Law.2

A partire dalla fine della Rivoluzione culturale, la Cina popolare ha intrapreso un’imponente opera di legificazione in tutti i settori del diritto, riprendendo i modelli di diritto socialista, soprattutto in materia di diritto pubblico, e attingendo invece a tradizioni giuridiche eterogenee (una sorta di commistione tra diritto socialista, civil law, common law e diritto tradizionale cinese) per quanto attiene al diritto privato. Diversamente, le normative in campo commerciale si sono adeguate maggiormente ai cosiddetti modelli di diritto internazionale uniforme, risultando permeabili alle soluzioni adottate nei paesi economicamente più sviluppati. Il processo di completamento di un corpus di leggi scritte in tutti settori della vita collettiva (come probabilmente mai avvenuto prima nella storia cinese) è stato peraltro accompagnato, ed è questo l’aspetto più significativo, da un parallelo sforzo volto a formare figure di giuristi (giudici, procuratori, avvocati, notai, professori di diritto e decine di migliaia di laureati in giurisprudenza), con un’educazione tecnico-giuridica specifica (spesso completata da periodi di formazione all’estero). Inoltre, l’“educazione al diritto” ha visto protagonisti gli stessi cittadini, tramite campagne informative e di sensibilizzazione sull’importanza di costruire «un paese governato dalla legge» (così come oggi recita l’articolo 13 della Costituzione), condotte con ogni mezzo di comunicazione, dai dazibao ai media. Tutti presupposti essenziali affinché, progressivamente, le norme scritte possano diventare “diritto vivente” (law in action).

Non è dunque un caso che, nel corso della parata civile (seguita a quella militare che ha calamitato l’attenzione della maggior parte dei media cinesi e stranieri), Mr Law abbia avuto una posizione di primo piano accanto al sempre celebrato Mr Science e le sue “quattro modernizzazioni”. Nella parata civile3 infatti, il Partito, facendo sfilare in successione dei giganteschi carri allegorici, ha avuto modo di comunicare (e celebrare) i risultati raggiunti dalla Cina di ieri e di oggi, ma anche il proprio programma politico per la Cina di domani. Tra i primi carri che hanno sfilato a Tiananmen ve ne era uno raffigurante la Costituzione cinese sul quale alcuni figuranti rappresentavano simbolicamente le professioni giuridiche; al passaggio del carro sulla piazza, l’anchorman dello televisione di Stato commentava: «La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato, governare lo Stato secondo il principio di legalità è il principio cardine per il governo e per il Partito, è la precondizione per il progresso, è la necessaria garanzia per una forte coesione sociale». Aggiungeva poi enfaticamente la sua spalla: «Oggi, la costruzione di un sistema di legalità socialista è stata fondamentalmente completata, il principio di governare il paese secondo la legge è praticato ed entrato nel cuore dei cittadini!». Ora, la domanda che ci si deve porre per la Cina dei prossimi anni è in quale misura sia inevitabile che, affinché l’amicizia della Cina con Mr Law sia sincera e duratura, il paese debba stringere una qualche forma di amicizia anche con Mr Democracy.

Di seguito verranno descritti alcuni degli scenari ipotetici delle modalità in cui Mr Law potrebbe costituire il tramite per il quale la Cina, nei prossimi anni, arrivi a stringere un’amicizia più o meno persistente anche con Mr Democracy.

 

Quali strade per una Cina democratica?

Tra coloro che sostengono (o auspicano) l’avvio di un processo di democratizzazione nell’“Impero di mezzo” sono stati da tempo immaginati vari scenari rispetto a come, in un futuro più o meno prossimo, tale processo potrebbe aver luogo, e attraverso quali tappe democrazia e pluralismo politico potranno essere instaurati in Cina. Come noto, nonostante gli enormi passi avanti compiuti nella direzione della liberalizzazione dell’economia e nonostante l’imponente opera di codificazione realizzata in questi stessi anni (quest’ultimo aspetto, per la verità, meno noto), la sfera delle libertà politiche non sembra aver beneficiato di quel vento di cambiamento e di “globalizzazione” che sta invece interessando la sfera dell’economia e del diritto.

Le direttrici su cui si è mossa la politica della leadership cinese nel corso degli ultimi trenta anni sono state, da una parte, un’apertura dell’economia ai meccanismi del “mercato globale” e, dall’altra, prudenza (per non dire totale sordità) nel concedere libertà in campo politico. Il risultato di questo sistema, per il quale è stato coniato il termine di “socialismo di mercato”, è stato uno sviluppo rapido (anzi, rapidissimo) ma sostanzialmente ordinato e controllato, che, nonostante stia creando una sempre più marcata (e preoccupante) divaricazione della forbice sociale, ha garantito, almeno fino ad oggi, una stabilità sociale e politica sorprendente. Il miracolo economico cinese è tanto più stupefacente se lo si confronta con il contemporaneo crollo dell’URSS e di quasi tutti gli altri regimi comunisti nel mondo. D’altronde proprio il fatto di aver anteposto le esigenze della modernizzazione economica a quelle politiche, a giudizio dei dirigenti di Pechino (ma non solo), ha permesso questo successo economico; un successo di dimensioni tali da trovare, oggi, molte economie dei paesi sviluppati impreparate a competere.

Di questa seconda rivoluzione cinese (dopo quella maoista), il cui artefice indiscusso è stato Deng Xiaoping, sono stati gli aspetti economici ad aver, quasi esclusivamente, attirato l’attenzione degli osservatori; scarse sono state invece le riflessioni sulla cosiddetta rivoluzione del diritto. E ancor meno, fino ad oggi, ci si è fermati a riflettere sull’impatto che le riforme del diritto potranno avere su una prossima e ormai necessaria riforma delle istituzioni politiche in senso maggiormente democratico.

La liberalizzazione economica è stata, infatti, accompagnata da uno speculare processo di modernizzazione del sistema giuridico che, per la prima volta nella millenaria storia cinese, ha posto il diritto come un elemento positivo e fondamentale per regolare i rapporti in seno alla comunità. Nella Cina imperiale il diritto e i giuristi venivano considerati un fattore di disturbo per la stabilità della società; il diritto sconfinava nella morale; al più, nella visione della tradizione filosofica legista, aveva un compito puramente repressivo. Tale prospettiva, rimasta sostanzialmente immutata durante i primi decenni della Cina comunista e addirittura divenuta patologica durante gli anni della Rivoluzione culturale – che ha visto la distruzione di ogni forma di legalità (borghese o socialista che fosse) − sta cominciando ora a venire meno, anche grazie alla sempre maggiore apertura del paese al mondo esterno.

In particolare, se nei primi anni delle riforme (1978-92) il processo di codificazione era stato sostanzialmente volto al ripristino di un sistema di legalità (socialista) nel campo del diritto pubblico e alla costruzione di un apparato di norme (spesso “civetta”) al fine di attrarre capitali e tecnologia dai paesi sviluppati, un fenomeno nuovo è rappresentato oggi dall’emergere − forse per la prima volta nella storia cinese − di una società civile in grado di fare pressione affinché nuovi diritti vengano guadagnati alla causa della rule of law. Certo, gran parte di queste conquiste sono limitate per ora ai diritti economici (e, in minor misura, ai diritti civili) ma è immaginabile che finiranno, prima o poi, per toccare anche la sfera dei dirit ti politici, e ciò soprattutto se si considera il parallelo sforzo di educazione al diritto avvenuto in questi anni. Appare dunque pertinente, e di attualità, una riflessione su come le riforme del diritto realizzate in questi anni potranno influenzare positivamente l’avvio di un processo di democratizzazione nella RPC.

Non considerando in questa sede chi ritiene i principi democratici di stampo occidentale sostanzialmente incompatibili con la tradizione cinese o con la sua attuale situazione socioeconomica, le risposte alla domanda su come possa avvenire un processo di democratizzazione sono state le più svariate. Alcuni, in analogia con quanto accaduto nell’ex URSS, credono che un’opposizione politica potrà nascere da un dibattito interno allo stesso PCC, con il distacco dal Partito di una corrente più riformista o, al contrario, di una più “conservatrice” (o di sinistra, secondo la prospettiva che si vuole adottare) che basi le sue rivendicazioni sulle sempre più attuali e problematiche questioni sociali. Altri ipotizzano l’organizzarsi di un movimento popolare dal basso, nel solco della tradizione storica del paese che ha visto movimenti di contadini rovesciare la dinastia al potere revocandole il cosiddetto mandato celeste; potrebbe essere questo il caso della setta Falun Gong o della stessa Chiesa, nel caso dovessero essere riallacciati i rapporti diplomatici tra Santa Sede e Cina;4 non si deve dimenticare che il primo importante movimento rivoluzionario della Cina moderna è stato ispirato, a metà dell’Ottocento, proprio dal cristianesimo.5 Altra ipotesi è quella che vedrebbe il riorganizzarsi nella Cina continentale dei partiti politici già presenti nella Cina pre comunista, innanzitutto del Partito nazionalista (Guomindang); è una ipotesi che, in una prospettiva di comple - tamento dell’unificazione naziona - le con la riannessione dell’isola di Taiwan, potrebbe addirittura non vedere totalmente ostile il Partito comunista.6

Infine, un’ipotesi meno suggestiva ma forse più realistica (e più gradualistica rispetto a quelle appena elencate) passa, appunto, da un ulteriore avanzamento delle riforme del sistema giuridico volto ad eliminare (o forse solo a ridurne il peso) quei principi cardine di diritto pubblico rimasti immutati nei trenta anni di politica di “riforma e apertura”, principi che fanno ancora della Cina, da un punto di vista pubblicistico, un paese socialista (sebbene di mercato): ci si riferisce in particolare al principio dell’unità dei poteri dello Stato e alla conseguente subordinazione (o mancanza d’indipendenza) del potere giudiziario rispetto al potere legislativo, alla mancanza di un controllo di costituzionalità delle leggi e, più in generale, alla piena attuazione dei principi democratici contenuti nella Costituzione.

 

Come il diritto potrebbe favorire un processo di democratizzazione

Il 28 febbraio 2002, il settimanale in lingua inglese “Beijing Review”, che continua a rappresentare l’immagine ufficiale che la Cina vuole dare di sé all’estero, riportava con una certa enfasi la notizia del Sichuan, alto 165 cm, che vedendosi precludere la strada di un concorso pubblico, in quanto tra i requisiti del bando vi era quello di un’altezza minima per gli uomini di 168 cm, ha deciso di ricorrere al Tribunale del popolo appellandosi al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 33 della Costituzione.7 Per il legale del richiedente, il requisito di un’altezza minima era illegittimo anche in considerazione del fatto che il lavoro in oggetto (un posto di impiegato nella filiale locale della Banca popolare di Cina) non prevedeva una mansione per la quale l’altezza fisica fosse di alcuna importanza. Il richiedente riteneva dunque leso il principio di eguaglianza dei cittadini maschi con altezza inferiore ai 168 cm.8

L’istanza − che, per inciso, è stata rigettata −9 segna in ogni caso una pietra miliare nella storia del costituzionalismo cinese. Il caso, ribattezzato dalla dottrina cinese come “il primo caso relativo al principio di uguaglianza della Costituzione cinese” (Zhongguo xianfa pingdengquan diyi’an), costituisce, di per sé, un fatto di assoluta novità nella Cina popolare e non poteva non attirare l’attenzione della dottrina e dei media, aprendo un dibattito di assoluto interesse circa il valore della Costituzione e la diretta applicabilità delle sue norme.10 L’episodio non sembra peraltro isolato se in un articolo, a firma di Cai Dingjian, intitolato “La via dell’applicazione della Costituzione cinese in ambito civilistico” (apparso sulla rivista della autorevole Accademia delle primo caso giudiziario in cui un cittadino si richiamava direttamente ad un articolo della Costituzione; Costituzione, è appena il caso di ricordarlo, che, come tutte le carte costituzionali dei paesi socialisti, non è priva di riferimenti formali al fondamento dei principi democratici (diritto di manifestazione del pensiero, di associazione, di elezione attiva e passiva ecc.), ma le cui previsioni, secondo un’interpretazione finora mai messa in discussione, non sono direttamente applicabili dal giudice se non recepite da una normativa di tipo ordinario. In sintesi, il caso ha riguardato un giovane laureato della provincia del scienze sociali)11 si menzionano ben cinque episodi simili verificatisi tra il 2001 e il 2003. In particolare, si fa riferimento sia a casi in cui, nel corso di un processo, è stata direttamente invocata una norma costituzionale, sia a casi in cui, non meno significativamente, semplici cittadini hanno richiesto un controllo di costituzionalità di norme al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (l’organo legislativo cinese), attualmente competente per l’esame di costituzionalità delle leggi nazionali.

Di particolare interesse sono proprio i due casi che fanno riferimento al potere di controllo di costituzionalità (finora mai esercitato). Il primo caso riguarda l’iniziativa di tre cittadini che, nell’aprile 2003, a seguito di un episodio di omicidio per percosse − avvenuto in un ufficio di polizia di Canton ai danni di un giovane trovato senza documenti di residenza − hanno inoltrato un’istanza al Parlamento in cui si richiedeva l’accertamento dei requisiti di costituzionalità della normativa “Sui metodi di detenzione e rimpatrio” (Shourong qiansong banfa), ovvero la norma − oggi abrogata grazie anche alla mobilitazione dell’opinione pubblica − che disciplinava in senso restrittivo la circolazione e lo stabilimento dei cittadini cinesi nelle diverse province del paese.

Il secondo episodio si riferisce all’iniziativa di un gruppo composto da 116 cittadini di Hangzhou e Jinhua che ha fatto ricorso di incostituzionalità in riferimento ad una legge locale in tema di disciplina degli espropri degli immobili ad uso residenziale; la questione, cioè, degli espropri illegittimi che, come noto, ha interessato milioni di cittadini cinesi.

Al di là degli specifici episodi giudiziari che si sono peraltro susseguiti negli anni, ciò che qui interessa rilevare sono gli effetti che in un prossimo futuro tali vicende potrebbero avere sul sistema istituzionale cinese.

Se, infatti, nel caso del Sichuan, da parte dei legali si è già fatto esplicitamente riferimento ad un possibile utilizzo giudiziale della carta costituzionale per agire contro discriminazioni fondate su qualità fisiche o di residenza (del resto assai frequenti), non è impossibile ipotizzare che il passo ulteriore possa essere quello di appellarsi alla Costituzione per vedere riconosciuti diritti ben più sensibili (diritto alla manifestazione del pensiero, di associazione e altri diritti più propriamente politici). E se, fino ad oggi, il principio della ragion di Stato e dell’ordine pubblico sono sempre stati considerati di interesse prevalente, in un contesto sociale in continua e rapida evoluzione, una mutata sensibilità del mondo giudiziario, dagli organi inferiori e periferici alla Corte suprema di Pechino, o dello stesso organo legislativo (che esercita, o dovrebbe esercitare, il controllo di costituzionalità), potrebbe oggettivamente influire sul processo di democratizzazione per via giudiziale o costituzionale, favorendo contestualmente maggiori spazi di pluralismo politico.

 

Conclusioni

Che la Cina popolare stia compiendo un colossale lavoro di codificazione in ogni settore della vita economica e sociale non costituisce più una novità per l’osservatore occidentale più attento. Tale processo, che ha interessato in un primo momento la sfera economica al fine di precostituire un ambiente favorevole per gli investitori e stimolare le forze imprenditoriali interne, sta interessando oggi ogni aspetto della vita sociale, dalla disciplina della protezione ambientale alla protezione dei consumatori, sebbene (ed è questo un grosso limite) il processo avvenga per ora sotto la direzione esclusiva del Partito. Dal 1999, quando l’allora presidente cinese Jiang Zemin fece inserire nel testo costituzionale (articolo 13) la parola d’ordine “governare il paese secondo la legge” come fondamento e collante della Cina del Duemila, la scienza del fa (diritto) è divenuta tra le più importanti discipline universitarie e le stesse professioni legali hanno assunto un’importanza fin qui sconosciuta nella storia cinese. Tale processo non si sta peraltro limitando alla compilazione di un corpus di leggi scritte destinate a rimanere pura enunciazione di principi ma, grazie ad una campagna di informazione e sensibilizzazione di massa, sta cominciando a penetrare nella coscienza collettiva del paese. Come gli episodi menzionati dimostrano, tali principi vengono ora reclamati attivamente per via giudiziaria dalla parte più avanzata della società civile. Le statistiche mostrano, infatti, che il ricorso agli strumenti di tutela previsti dalla legge sta divenendo prassi sempre più diffusa (con un percorso per certi versi contrario a quello di molti ordinamenti europei, tra cui l’Italia, dove si sta riconsiderando il ruolo della conciliazione e della giustizia equitativa). La Cina continentale sta dunque conoscendo in questi anni, per la prima volta nella sua storia e pur con tutte le incertezze e i limiti del caso, il passaggio fondamentale dalla law in the books alla law in action. Un salto di qualità del sistema giuridico che, nonostante la copiosa produzione normativa, non era riuscito nemmeno durante il periodo della Repubblica nazionalista (1912-49).

Il versante debole di questo processo rimane il quadro di attuazione dei diritti civili e, soprattutto, politici; il processo di liberalizzazione dell’economia non è stato accompagnato fino ad oggi da un altrettanto incisivo processo di democratizzazione delle istituzioni, sebbene per molti versi si possa parlare di una democratizzazione della società. Il diritto costituisce lo specchio di questa situazione: se molto si è fatto nell’ambito del diritto commerciale e (più limitatamente) del diritto civile e amministrativo, quasi nessun segnale di cambiamento è fin qui intervenuto nella sfera del diritto pubblico. Se nelle intenzioni, più o meno palesi, della dirigenza comunista, il governo, per mezzo della legge (rule by law), ha la duplice funzione di legittimare il potere del Partito dopo il crollo del collante ideologico e di fungere come una sorta di “ammortizzatore sociale” nel passaggio da una società socialista ad una socialista di mercato (funzione che altrove è stata svolta dal pluralismo politico), i casi giudiziari menzionati evidenziano lo stretto legame tra Stato di diritto e affermazione dei principi democratici. Una maggiore democrazia (anche politica) in Cina può dunque passare proprio per il proseguimento sulla strada delle riforme del diritto verso una maggiore e reale autonomia di quest’ultimo dalla sfera politica; processo che, ad un certo punto, potrebbe mettersi in moto anche a prescindere dalla volontà del Partito. Dall’altra parte, una via giudiziaria alla democrazia potrebbe rappresentare un percorso graduale che meglio garantirebbe la stabilità economico-sociale, cara alla leadership comunista quanto – in un contesto di globalizzazione dei mercati economico-finanziari – alla comunità internazionale nel suo complesso. Non è forse dunque troppo lontano il momento in cui Mr Law possa far conoscere Mr Democracy alla Cina, salvo che non sia costretto lui stesso a rompere un’amicizia che non era, evidentemente, molto sincera.


[1] Si pensi, in particolare, al “movimento del 4 maggio” 1919, quando migliaia di giovani intellettuali cinesi sfilarono nella Piazza per contestare le decisioni contenute nel Trattato di pace di Versailles (forse il primo significativo episodio di “globalizzazione della storia”); alla proclamazione della Repubblica popolare, avvenuta in Piazza Tiananmen il 1° ottobre 1949, quando il presidente Mao annunciò: «La Cina si è alzata in piedi» (parole che alludono, tra l’altro, ad un nuovo ruolo che la Cina avrebbe recitato sulla scena mondiale); più di recente, alle tragiche vicende del giugno 1989, entrate nella memoria collettiva dell’intera umanità (anche perché furono il primo avvenimento storico ripreso in diretta televisiva).

[2] Si veda L. Moccia, Il diritto in Cina. Tra ritualismo e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[3] Si vedano su www.youtube.com le diverse versioni (anche integrali) della parata, tratte dai filmati della televisione di stato cinese, CCTV.

[4] Con il pontificato di papa Benedetto XVI sono stati accelerati i negoziati già da tempo in corso ma ancora in fase di stallo, anche a causa delle restrizioni che la Cina vuole imporre alla Chiesa per limitarne l’ingerenza nelle questioni politico-sociali, considerate “affari interni” dal Partito. Il governo cinese vuole, in sostanza, evitare una replica del fenomeno Solidarnos´c´ .

[5] Il movimento in questione è quello dei cosiddetti Taiping che fu ad un passo dal rovesciare la dinastia imperiale occupando per circa venti anni un’ampia parte del territorio cinese. I Taiping furono, peraltro, i primi ad introdurre la scienza giuridica occidentale in Cina; si veda a questo proposito, F. R. Antonelli, Il contributo dei Taiping alla modernizzazione del sistema giuridico cinese, in M. Scarpari, T. Lippiello (a cura di), Caro Maestro… Scritti in onore di Lionello Lanciotti per l’ottantesimo compleanno, Cafoscarina, Venezia 2005.

[6] Si pensi alle possibili conseguenze della storica visita in Cina nel 2005 dell’allora segretario del Partito nazionalista Ma Ying-jeou, oggi presidente in carica di Taiwan (Repubblica di Cina), salutata da tutti i media cinesi come un grande passo nella direzione di una pacificazione nazionale. Quest’anno, lo stesso Hu Jintao ha inviato un telegramma di congratulazioni per la rielezione di Ma Ying-jeou a capo del Partito nazionalista. Quest’ultimo, assunta la presidenza e rompendo con la precedente linea indipendentista del Partito democratico progressista, ha inaugurato un rapporto distensivo con il governo di Pechino, con l’idea (tutt’altro che mascherata, a parere di chi scrive) di diventare un giorno il presidente di tutta la Cina unita; a favore di questo suo “sogno” giocano il credito e la visibilità acquisiti in Cina continentale, la sua giovane età anagrafica (soprattutto se comparata con la leadership cinese) e il suo grande carisma personale.

[7] “Tutti i cittadini della RPC sono uguali davanti la legge”.

[8] La richiesta sembra tanto più fondata dal momento che secondo le statistiche almeno il 40% della popolazione maschile del Sichuan ha una statura inferiore ai 168 cm.

[9] Con sentenza del Tribunale del distretto di Wuhou (Chengdu) del maggio del 2002; sentenza per la quale non è stato, peraltro, proposto appello.

[10] Sono centinaia gli articoli più o meno autorevoli che si possono trovare, anche in internet, sull’argomento.

[11] Cai Dingjian, Zhongguo xianfa shishide sifahua zhi lu, in “Zhongguo shehui kexue” (“Social Sciences in China”), 2/2004.