Considerazioni sul passato e il presente della socialdemocrazia europea

Di Massimo L. Salvadori Giovedì 08 Ottobre 2009 17:23 Stampa

L’offensiva delle forze neoconservatrici e neoliberiste gui­data dalla Thatcher e da Reagan al predominio socialdemocratico, che aveva caratterizzato il periodo compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Settanta, fon­data da un lato su alcuni rapidi cambiamenti delle struttu­re produttive e delle tecniche organizzative del lavoro e raf­forzata, dall’altro, da eventi epocali come il crollo dell’URSS e lo sviluppo economico di Cina e India, ha colto imprepa­rate le socialdemocrazie europee, messe in crisi dal profon­do cambiamento delle condizioni che ne avevano garanti­to l’ascesa e il consolidamento. Quali sono quindi, ora, le premesse per una possibile ripresa della socialdemocrazia?

Presupposti e fondamenti di un’ascesa

Il grande segno lasciato dalla socialdemocrazia nel Vecchio continente è chiaramente indicato dal fatto che tra le sue varie denominazioni il Novecento ha avuto anche quella di “secolo socialdemocratico”, a riconoscimento del ruolo centrale che la socialdemocrazia ha ricoperto come movimento di grandi masse lavoratrici, corrente ideologica e politica, organizzazione internazionale di numerosi partiti. Ma è stata soprattutto la sua importante azione di governo, nel corso di una parabola che si è svolta tra la fine degli anni Venti e gli anni Settanta, a dare ad essa la sua forte caratterizzazione. La socialdemocrazia di governo definì il proprio volto negli anni tra le due guerre mondiali, in un’epoca in cui sia le correnti liberali conservatrici sia le tendenze di opposta sponda – ovvero quelle fascistiche e comunistiche, che in quanto le più dinamiche e nuove apparivano destinate a “dominare la storia” – la combattevano come amalgama contraddittorio di ideologie e di interessi, compromesso stantio e, in ultima analisi, irrealistico e provvisorio.

Orbene, la socialdemocrazia mostrò che così non era. Ai conservatori liberali, i quali nel periodo dei totalitarismi di destra e di sinistra e delle ricorrenti crisi economiche, culminate nella grande depressione scoppiata nel 1929, difendevano le libertà politiche e civili ma decisamente contrastavano i diritti sociali e la regolamentazione e l’intervento da parte dell’autorità pubblica nell’economia, i socialdemocratici opposero la tesi che la democrazia politica e le libertà ad essa connesse si sarebbero indebolite e al limite sarebbero andate distrutte senza una strategia di difesa e protezione delle masse lavoratrici, senza politiche di riforma atte a ridistribuire in maniera più equa il reddito e ad attribuire allo Stato il compito di gestire in maniera non dispotica quei servizi e settori produttivi che l’iniziativa privata o non era in grado di coprire oppure faceva confliggere direttamente con gli interessi generali della collettività. Ai fascisti, ai nazisti e in generale alle destre autoritarie, i socialdemocratici opposero la difesa delle istituzioni democratiche, la lotta sia contro il nazionalismo e l’imperialismo militaristico sia in opposizione alle politiche sociali e assistenzialistiche fondate sulla distruzione dei sindacati, sull’asservimento delle masse lavoratrici all’interno di istituzioni corporative e di forme pretoriane di difesa degli interessi delle oligarchie capitalistiche. Ma ciò che conferì alla socialdemocrazia in maniera più pregnante la sua fisionomia e identità fu in primo luogo il confronto-scontro con il comunismo e le correnti socialiste più radicali a questo legate. Tutte queste erano forze di sinistra e avevano nelle masse dei lavoratori e dei disoccupati e negli strati sociali poveri la loro comune base sociale di riferimento il cui consenso si contendevano. Le strategie politiche e sociali delle due parti si ponevano in alternativa: perché la prima difendeva la democrazia di matrice liberale pur intendendo dare ad essa una dimensione sociale, mentre i secondi miravano a distruggerla; perché, laddove il comunismo giudicava necessario e possibile l’abbattimento del capitalismo avendo come modello il regime sovietico, la socialdemocrazia da un lato riteneva un simile obiettivo non realistico e dall’altro aborriva la prospettiva di vedere estendersi ad altri paesi le istituzioni politiche, sociali ed economiche di uno Stato dittatoriale quale l’URSS, in cui la società era sottoposta al dominio dispotico di una nuova oligarchia del potere e la pianificazione statolatrica faceva delle masse lavoratrici, private di ogni libertà, le vittime di un’inedita forma di servitù assai peggiore di quella esistente negli stessi paesi capitalistici. Da ciò le radici dell’accusa rivolta dai comunisti ai socialdemocratici di essere i manutengoli “socialfascisti” del capitalismo, alla quale i socialdemocratici rispondevano sostenendo che i comunisti erano spregiatori e affossatori di ogni democrazia al pari dei fascisti.

La socialdemocrazia di governo europea prese dunque il suo avvio tra le due guerre mondiali, con due obiettivi di fondo: impedire in Europa, e fino a quando fosse stato possibile, la deriva politicamente autoritaria del capitalismo e sottrarre le masse lavoratrici al richiamo del comunismo. Fu un compito quanto mai arduo, che fallì clamorosamente in Germania, dove il nazismo al potere distrusse tutte le forze che ad esso si opponevano, e anzitutto i socialdemocratici e i comunisti impegnati in una lotta senza tregua gli uni contro gli altri; mise invece con successo le radici nei paesi scandinavi, dove non incombeva, a differenza che in Germania, la minaccia di consistenti, pericolosi movimenti dittatoriali di destra e di sinistra. Lì ebbe origine il moderno “Stato del benessere” con le sue istituzioni dirette ad assicurare un welfare fondato sull’idea di far pagare le tasse dovute agli strati più ricchi per sostenere le politiche sociali e finalizzato a mettere a disposizione delle altre fasce sociali servizi cui in precedenza non potevano accedere, ad aprire una via di miglioramento e promozione delle condizioni dei gruppi sociali e degli individui, ad affidare allo Stato maggiori e più incisivi poteri senza cadere in uno statalismo generalizzato, a coniugare i tradizionali diritti politici e civili con nuovi diritti sociali. Fu l’inizio di una grande ascesa, stroncata temporaneamente, salvo che in Svezia, dall’invasione nazista e poi rilanciata in grande stile in Gran Bretagna dal governo laburista di Clement Attlee tra il 1945 e il 1951.

L’esperienza del governo laburista di quegli anni, liberatosi dal passato moderatismo di Ramsay MacDonald, diede un contributo cruciale nel definire il ruolo, gli ideali e le finalità pratiche della socialdemocrazia di governo in Europa. I laburisti si trovarono a doversi misurare con due compiti egualmente importanti e urgenti, che affrontarono congiuntamente e con vigore: risollevare economicamente un paese fortemente impoverito dal grande conflitto e farlo senza seguire le vie tradizionali del conservatorismo privatistico, dell’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, del rafforzamento, insomma, dei poteri e dei privilegi delle élite capitalistiche, ma all’opposto elevando a com pito e dovere dello Stato l’assicurare ad ogni cittadino “dalla culla alla tomba” un sistema diffuso e articolato di tutele sociali ed economiche, da realizzarsi mediante una migliore ridistribuzione del reddito, la gestione di servizi e settori produttivi, la costituzione di un sistema sanitario nazionale gratuito e provvidenze a favore di disoccupati, malati e invalidi dirette a far scomparire il pauperismo. L’intento fu insomma di unire organicamente cittadinanza politica e cittadinanza sociale. Si trattò di una svolta che pose fine all’assistenza agli strati più deboli della società intesa come carità pubblica o privata e volta ad affermare il concetto, secondo un’idea di etica modernamente laica, della solidarietà come fondamento del vivere civile e compito politico. Si trattava di una concezione che culturalmente si nutriva dell’apporto determinante del liberalismo progressista di William Henry Beveridge e di John Maynard Keynes, il cui nucleo ideologicamente dinamico era la determinazione vuoi di sottoporre il capitalismo al primato del comando pubblico e di regolarne lo sviluppo, vuoi di contrapporre al progetto comunista quello di un socialismo democratico riformatore. Il laburismo del dopoguerra costituì il lancio più clamoroso del programma. Le istituzioni del welfare ottennero un vasto consenso nel continente. Esse ebbero la loro più duratura e organica attuazione nella Svezia socialdemocratica, che diventò il paese socialmente più avanzato d’Europa e trovarono un punto di forza di primario rilievo in Germania; furono poi fatte proprie anche dalle correnti sociali dei partiti di ispirazione cristiana e conquistarono l’appoggio pratico, anche se non ideologico, dei grandi partiti comunisti di paesi come la Francia e l’Italia.

 

Il nuovo corso neoconservatore e neoliberista e la debolezza della risposta della socialdemocrazia

La socialdemocrazia di governo è stata una forza in grado di guidare con efficacia la società fino, grosso modo, agli anni Settanta. La base su cui poggiava era formata da un insieme di componenti il cui scollamento non poteva che portare l’intero edificio a diventare via via più debole fino a determinarne gradualmente il cedimento. Tali componenti erano di carattere insieme soggettivo e oggettivo. La grande crisi economica del 1929 prima e gli effetti deprimenti della seconda guerra mondiale poi avevano profondamente delegittimato nelle masse lavoratrici e nei ceti medi impoveriti il capitalismo liberistico, favorendo una vasta accettazione dell’interventismo statale nell’economia; avevano inoltre approfondito in maniera drammatica le disuguaglianze di reddito e creato aree amplissime di precarietà e di miseria, con l’effetto di dare un nuovo forte vigore all’ideale di una maggiore giustizia sociale, di cui si fecero interpreti i partiti della sinistra. Questi partiti, fossero al governo o all’opposizione, fecero dunque appello alla trasformazione dello Stato in “Stato sociale”, in un paese in grado di dare consistenza alle politiche sociali mediante l’azione sistematica della mano pubblica. A sostenerli erano grandi masse di salariati da essi organizzate politicamente e sindacalmente, aventi il loro punto di forza negli operai delle grandi fabbriche metalmeccaniche e siderurgiche che costituivano l’asse portante dell’economia dei paesi più avanzati dell’Europa occidentale, dove l’interventismo statale aveva ormai una base assai larga e le politiche sociali dovettero essere fatte proprie anche da partiti e governi non di sinistra. In questo quadro la socialdemocrazia, quando e dove era al governo, costituì la forza trainante e fu la principale realizzatrice, secondo quello che venne definito il compromesso socialdemocratico, di una strategia di attuazione di una maggiore giustizia sociale attraverso le istituzioni del welfare. Motori essenziali di questo processo furono insieme le nazionalizzazioni di cruciali settori produttivi e la leva fiscale adoperata secondo criteri di imposizione progressiva. Il sistema cedette poi a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta sotto l’attacco delle correnti neoconservatrici e neoliberiste; iniziato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti pressoché contemporaneamente, ad opera rispettivamente di Margaret Thatcher e dell’amministrazione di Ronald Reagan, esso divenne tendenza prevalente a livello internazionale.

L’offensiva neoconservatrice, durata per un trentennio, ha poggiato su una serie di rapidi e impetuosi cambiamenti nelle strutture produttive e nelle tecniche organizzative del lavoro. Si è avuto un rapido processo di contrazione di processi produttivi concentrati nelle grandi fabbriche, che ha portato con sé il declino delle forti concentrazioni operaie e una crescente riduzione numerica della classe operaia nel suo insieme, favorita dall’impiego a mano a mano più vasto dell’automazione e della robotica; ma il processo ha portato anche una correlativa espansione degli addetti alle molteplici branche del settore terziario e un utilizzo accelerato dell’informatica, tale da rendere obsoleti i tradizionali sistemi di gestione burocratica portando ad una riduzione dei ranghi degli impiegati. La diminuzione del numero e delle dimensioni delle grandi fabbriche in concomitanza con il sempre più rapido rinnovamento delle tecnologie e delle forme di organizzazione del lavoro ha fatto sì, da un lato, che le imprese nascessero e morissero con un turn over via via più veloce; dall’altro, che sempre più i posti di lavoro perdessero il carattere di “posti per la vita”, e che si affermasse la tendenza, da parte delle direzioni aziendali, sia a privilegiare i contratti a termine sia a escludere gli addetti ritenuti non in grado di tener dietro alle esigenze di una maggiore e periodica riqualificazione. In questo generale contesto hanno preso vigore a livello soggettivo le correnti neoindividualistiche fautrici di quella che è stata definita la “rivoluzione conservatrice”, i cui principi e valori si riassumevano nell’appello alla piena libertà di iniziativa delle imprese – che per competere efficacemente nel mercato internazionale dovevano essere, appunto, liberate dagli impacci e dai vincoli posti dall’intervento e dal controllo dello Stato nell’economia e sgravate dagli eccessi di un’imposizione fiscale resa troppo pesante dal sostegno delle istituzioni del welfare – e nella diffusione di un’ideologia secondo la quale la carta vincente nella corsa per la vita era la capacità di ciascun individuo, in ogni grado delle gerarchie e delle articolazioni sociali, di cogliere le opportunità offerte da un sistema economico che, se lasciato libero, avrebbe assicurato a quanti erano capaci di dispiegare le proprie energie il miglioramento delle proprie condizioni, in un quadro di continua espansione, ponendo limiti e da ultimo fine alle protezioni offerte persino agli strati indotti all’inerzia e al parassitismo dalle istituzioni dello Stato del benessere. Ad essere messi sotto accusa, accanto all’intervento dello Stato, al fiscalismo e al welfare, furono i sindacati dei lavoratori, ritenuti responsabili di imprigionare imprese e lavoratori in vecchie gabbie da rimuovere in quanto ostacoli all’innovazione. La filosofia della nuova era trovò la più eloquente e tipica espressione nell’affermazione della Thatcher di non sapere che cosa mai fosse la società e di riconoscere solo l’esistenza e il ruolo positivo e creativo degli individui e della loro capacità di iniziativa.

L’offensiva neoconservatrice è stata rafforzata enormemente da alcuni eventi epocali, quali il crollo dell’URSS e del suo impero, l’apertura della Cina alla penetrazione finanziaria e industriale del capitale straniero e l’accelerazione dello sviluppo economico dell’India. Essi hanno avuto un duplice impatto: per un verso, hanno creato le condizioni per la costituzione di un mercato davvero mondiale; per l’altro, in seguito al fallimento politico ed economico del sistema comunista, hanno contribuito in maniera determinante a screditare in generale l’intervento statale e le politiche pubbliche e ad esaltare le virtù e i benefici del neoliberismo. Si è trattato di un’ondata che ha colpito anche in prima persona la socialdemocrazia, la quale, proprio mentre celebrava la sua vittoria nei confronti del comunismo, veniva a sua volta investita dalla critica radicale alle politiche pubbliche di carattere sociale. Il processo di globalizzazione ha avuto un ulteriore effetto di enorme importanza. Esso ha messo drasticamente in crisi la capacità decisionale degli Stati nazionali sull’economia, i cui soggetti dominanti, a onta della retorica ideologica individualistica, sono divenuti come mai in precedenza non già i mitici singoli individui ma le grandi oligarchie della finanza e dell’industria, operanti a livello internazionale, al di fuori di ogni legittimazione politica democratica e di ogni efficace controllo, in quanto titolari delle più rilevanti decisioni relative alla produzione e dislocazione delle risorse non solo materiali ma anche culturali. La logica del loro agire è stata orientata ad uno sfruttamento indiscriminato della forza lavoro, al limite della schiavizzazione nei casi estremi dei paesi dove erano inesistenti i diritti sociali e la protezione dei sindacati. La concorrenza di questi paesi rispetto a quelli più avanzati si è fatta poi difficilmente sostenibile, con la conseguente chiusura di imprese, con la dilatazione del lavoro precario e della disoccupazione, con un forte indebolimento dei sindacati. Ha avuto così libero corso il capitalismo “selvaggio”.

Di fronte ad un mutamento qualitativo tanto profondo delle condizioni che ne avevano garantito l’ascesa e il consolidamento, la socialdemocrazia europea di governo, che aveva operato nell’ambito di Stati nazionali un tempo in condizione di decidere delle scelte economiche fondamentali e ora in larga misura privati di questa capacità di decisione, ha mostrato di non essere in grado di far fronte con efficacia ai nuovi problemi. Non ha saputo farlo né a livello culturale né a livello pratico. L’Internazionale socialista non ha saputo levare con energia la propria voce di fronte ai guasti sociali della globalizzazione, produrre una sua aggiornata cultura politica, lanciare una grande battaglia per la difesa e l’esportazione dei diritti sociali attaccati e indeboliti. I partiti ad essa affiliati non hanno mostrato neppure di avere una strategia unificante; si sono divisi tra “tradizionalisti” e “innovatori”: gli uni sostanzialmente volti a riproporre le linee di un passato esaurito, gli altri, di cui Tony Blair, Gerhard Schröder e Ségolène Royal sono stati gli esponenti principali, si sono divisi fra i seguaci del primo – un aperto celebratore della globalizzazione liberista e un propagandista del neoindividualismo, al punto da favorire l’erigersi di Londra a una delle massime piazze del potere delle oligarchie finanziarie e industriali – o degli altri, fautori di una socialdemocrazia “centrista”. Il risultato è stato un arretramento generale rispetto a due obiettivi costitutivi e irrinunciabili del socialismo democratico riformatore: la difesa prioritaria degli strati sociali più deboli e l’opposizione ad un potere senza limiti e regole dei potentati padroni dell’economia, la cui libertà di azione ha avuto l’effetto di accrescere ai livelli estremi le disuguaglianze di reddito tra una minoranza sempre più ricca e una maggioranza composta da ceti medi impoveriti e da lavoratori sempre meno tutelati nei loro posti di lavoro, da schiere di precari, disoccupati ed emarginati. Poi è arrivata la grande crisi iniziata nell’autunno del 2008, che ha mostrato tutta la miseria della fino ad allora trionfante globalizzazione neoconservatrice e neoliberista e gli effetti nefasti del dominio incontrastato delle oligarchie plutocratiche.

 

La socialdemocrazia può avere un futuro? Le condizioni possibili di una ripresa

Se la socialdemocrazia possa o meno avere ancora un futuro, intendendo per tale non una semplice sopravvivenza ma una ripresa che le consenta di riacquistare il ruolo di forza capace di rappresentare su scala europea l’asse fondamentale dell’alternativa di governo alle forze variamente conservatrici e di destra, dipende da alcuni elementi essenziali che possono essere indicati come segue, partendo però dalla premessa, sempre e in ogni luogo valida, che se l’assenza di favorevoli fattori oggettivi rende velleitaria qualsiasi azione soggettiva è del pari vero che nessun fattore oggettivo è di per sé sufficiente senza la volontà e l’azione di una forza organizzata e culturalmente attrezzata.

La crisi economica del 2008 ha messo chiaramente in luce, in primo luogo, che il capitalismo e il mercato hanno ancora una volta manifestato e più che mai manifestano la connaturata tendenza, quando lasciati “liberi di scorazzare”, ad assoggettare con determinazione e durezza la società agli interessi particolari di una minoranza privilegiata e ad ignorare con indifferenza il benessere della maggioranza. In secondo luogo, che un cedimento dell’autorità pubblica in materia di regole e controlli quale quello messo in atto dai governi liberistici vanifica la difesa degli interessi di quella stessa maggioranza. Infine, che siffatta difesa passa necessariamente attraverso non solo regole e controlli, in assenza dei quali le oligarchie operano sistematicamente al fine di accrescere indefinitamente il loro potere e la loro ricchezza, ma anche attraverso l’esistenza di forti organizzazioni politiche e sindacali rappresentative del mondo del lavoro, impegnate a conferire alla democrazia un carattere “sociale” e aventi perciò come scopo la ridistribuzione in maniera accettabilmente equa di quelle risorse materiali e culturali senza le quali gli esseri umani non possono sviluppare la loro personalità e migliorare le loro condizioni di vita.

Il quadro politico europeo dell’ultimo trentennio ha parlato un linguaggio eloquente, affermando che quando i partiti socialisti e socialdemocratici, caduti in una posizione di subalternità persino ideale alle forze moderate e conservatrici, puntano in maniera prevalentemente elettoralistica alla conquista del centro – obiettivo di per sé persino necessario – rinunciando però a organizzare e mobilitare in maniera permanente la massa dei lavoratori dipendenti e gli strati più deboli della società e a far leva sui loro bisogni e diritti compressi, allora essi rinunciano alla propria identità e alla possibilità di far presa su questi stessi strati. Tali gruppi sociali infatti, privati di un ancoraggio politico sicuro ed evidente, cadono in uno stato di disorientamento e diventano sensibili al richiamo populistico delle forze conservatrici e di destra; le quali, proprio mentre le disuguaglianze si accrescono, trovano una via facile nell’insistere sulla perdita di significato della differenza tra “sinistra” e “destra” e nel propagandare l’ideologia della “comunità solidale” e della fine della diversità degli interessi, nel momento stesso in cui accumulano sempre maggiori quote di potere finalizzate ad incrementare i loro interessi di parte.

Le condizioni possibili di una ripresa della socialdemocrazia dipendono da alcuni presupposti, il principale dei quali è la capacità di indagare a fondo nei mutamenti strutturali avvenuti nel corpo della società rispetto a come questo si presentava prima delle trasformazioni degli ultimi decenni del Novecento, di capire insomma quali elementi giustifichino la continuità con il passato e quali richiedano una necessaria discontinuità. Chi scrive ritiene che i valori e gli obiettivi di fondo della socialdemocrazia, che possiamo definire “tradizionali”, escano non già indeboliti ma rafforzati dalla recente débâcle subita dall’economia guidata dalle oligarchie plutocratiche e che, quindi, su questo terreno la socialdemocrazia possa ben rivendicare una linea di continuità. Sennonché occorre che essa si svincoli, salvo annullare rapidamente le sue stesse ragioni di esistenza, da una cultura politica tutta rivolta alla conquista del centro sociale e politico al prezzo di annacquare la sua costituzionale natura, laddove il suo compito è di allargare la propria base di consenso partendo dal mantenimento del proprio baricentro a sinistra. Dove sta questo baricentro? È ben vero che non esistono più le grandi masse dei lavoratori dell’industria metalmeccanica d’un tempo (che però non sono certo scomparse), le quali costituirono la base di riferimento principale della socialdemocrazia; non solo, ma accanto ai restanti operai dell’industria vi sono le masse, ora grandi, dell’articolato mondo dei lavoratori a vario titolo dipendenti che, attualmente assai disarticolate e disperse, abbisognano di essere elevate a soggetto politico, e che profondamente “umiliate e offese” dal sistema di iniquità sociale sprofondato nel 2008 richiedono di tornare ad essere tutelate da partiti che le rappresentino e guidino. Occorre mettere mano a questo compito. Occorre inoltre porre al centro il problema, fattosi epocale, dell’integrazione dei lavoratori immigrati, dei loro diritti politici, sociali e anche religiosi, assumendo energicamente la difesa dello Stato laico. Occorre agire in difesa della libertà di informazione minacciata dai tycoons che li concentrano nelle proprie mani, in difesa delle istituzioni rappresentative contro la tendenza del potere esecutivo a diminuirne l’autonomia e le prerogative. Occorre mettere in primissimo piano la questione della difesa dell’ambiente, destinata a diventare sempre più cruciale per la sopravvivenza comune, facendone un elemento centrale della critica di un modo di produzione subordinato agli interessi delle oligarchie plutocratiche. Ma tutto ciò richiede un rilancio dell’internazionalismo, poiché senza questo nessuna forza che resti chiusa in una prevalente prospettiva nazionale è più in grado di affrontare i nodi fondamentali da sciogliere nel mondo attuale. L’internazionalismo è stato l’anima della sinistra del passato e deve tornare ad essere l’anima di quella presente.

Questa la considerazione finale. Non vi è dubbio che nessuna forza politica di sinistra che si ponga il compito di governare oggi in Europa può pensare di darsi una prospettiva “classista” in società in cui le vecchie classi hanno perduto la loro composizione e identità di un tempo passato, e che una strategia di governo deve poggiare su un progetto che valga per l’intero corpo sociale; d’altra parte, la società continua ad essere segnata da interessi tutt’altro che omogenei e quindi le sintesi di governo non possono evitare lo scoglio di tutte le decisioni che da questo permanente stato di cose deriva. Sicché non è eludibile la questione relativa a come si intenda rivolgersi alla conquista elettorale, pur necessaria, del centro. Se si ritiene che guardare al consenso del centro con successo significhi ipso facto mettere in soffitta la sinistra politica e sociale, allora la conclusione è che la socialdemocrazia e la sinistra non hanno più altro ruolo e significato che non siano meramente residuali.