2001-08, ovvero la Russia di Putin

Di a cura di Daniela Ferrazza, Luca Meldolesi e Nicol Venerdì 29 Febbraio 2008 11:27 Stampa

Putin ha preso il potere in Russia in un momento di forte crisi. Oggi le condizioni sono decisamente migliorate, ma sebbene sul fronte economico il merito sia essenzialmente da attribuirsi ad altre cause, Putin ha saputo sfruttare la situazione a suo vantaggio, guadagnandosi la riconoscenza dei cittadini e divenendo simbolo di stabilità. Così il sostegno popolare gli è garantito nonostante gli insuccessi nei punti più delicati, come la questione cecena. Questo perché i russi non vedono alternative valide, che Putin stesso ha provveduto ad eliminare, creando un sistema di potere rigido e accentrato, segno forse più di insicurezza che non del contrario. Ciò induce i russi a disinteressarsi delle questioni di Stato, su cui sanno di non poter avere alcuna influenza, limitandosi ad osservare la politica da lontano e preferendo occuparsi delle proprie faccende private.

Nel momento in cui si conclude il periodo nel corso del quale Vladimir Putin si è trovato alla guida della Russia come presidente e anche se, con ogni probabilità, resterà al potere sotto un’altra forma, per esempio come primo ministro, è opportuno tracciare un bilancio del suo regno e delineare un quadro di ciò che è divenuta la Russia sotto di lui. C’è un errore che è necessario evitare fin dall’inizio: andare a rimorchio di tutti i propagandisti del regime, che contrappongono l’ordine “putiniano” al caos “eltsiniano”. È proprio su questa contrapposizione che Putin ha costruito inizialmente la propria popolarità, nonché sulla seconda guerra cecena, che agli occhi della popolazione e, cosa ben più importante, dei militari, rappresentava la vittoriosa rivincita dopo la “vergognosa capitolazione” di Eltsin, a conclusione del primo conflitto (1994-96).

Se è vero che, nei fatti, ci sono state molte evoluzioni, la situazione economica e il livello di vita sono migliorati, l’autorità dello Stato si è rafforzata (anche se in misura assai inferiore a quanto sostengono i politologi), i punti di somiglianza e di continuità sono quanto meno altrettanto vistosi di quelli di rottura; in proposito, si può riprendere e generalizzare quanto afferma un acutissimo osservatore della politica estera russa, il caporedattore della rivista “Rossia v globalnoï politike”: «Il contrasto tra il periodo del primo presidente della Federazione Russa [Eltsin] e quello del secondo è molto meno evidente di quanto si potrebbe pensare a un primo sguardo e di quanto non cerchino di farci credere gli analisti fedeli al Cremlino».1

L’elemento essenziale che accomuna i due periodi è il regime politico, quello di un potere personale assicurato da una Costituzione fatta su misura per Eltsin e che riduce al minimo il potere della Duma, la camera dei rappresentanti eletti. All’epoca del premier, la Duma cercava – senza successo – di resistere; oggi accetta con entusiasmo e riconoscenza il proprio ruolo di camera del registro. Mentre la maggior parte dei commentatori occidentali oggi deplora la drammatica assenza di partiti politici e l’egemonia del “partito” del potere, la “Russia unita”, sembra si dimentichi che l’idea stessa della creazione di un partito del potere, della nascita ex nihilo di un partito di centrosinistra che facesse da contraltare al centrodestra, ma del tutto fedele al presidente, per non parlare della liquidazione di tutte le forze di opposizione, non è scaturita da Putin, ma da Eltsin. Ma, per una serie di ragioni, Putin è riuscito a realizzare quelle che con Eltsin erano rimaste solo velleità.

Una situazione economica favorevole

Quando Putin accede alla carica di primo ministro, nel 1999, e poi, nel marzo 2000, a quella di presidente, la situazione economica per la maggioranza della popolazione è estremamente difficile. La terapia d’urto del 1992 ha dimezzato i redditi e la caduta è andata avanti fino al 1995; il leggero miglioramento a metà degli anni Novanta è messo in crisi dal fallimento dello Stato causato dal crollo, nel 1998, delle piramidi finanziarie che lo Stato stesso aveva edificato. Il 30% della popolazione si trova con un reddito al di sotto della soglia di povertà. I salari e le pensioni non vengono pagati per mesi e mesi. Un fatto ribalterà profondamente la situazione: il prezzo del petrolio conosce una crescita ininterrotta dal 1999, anno in cui era al minimo (intorno a 20 dollari al barile), per arrivare in pochi anni a quasi 100 dollari. L’afflusso di petrodollari, oltre a moltiplicare le fortune costruite intorno agli idrocarburi, va a riempire le casse dello Stato e permette all’economia di ripartire grazie ai consumi interni. Il reddito pro capite passa da 2.223 rubli al mese nel 2000 a 10.727 rubli (320 euro circa) nel 2007; la percentuale di persone al di sotto della soglia di povertà cala al 15%; salari e pensioni sono pagati con regolarità. Anche se il redito rimane basso per la maggior parte della popolazione e permangono enormi disparità (ufficialmente il rapporto tra il primo e l’ultimo decile dei redditi è di uno a quindici, ufficiosamente di uno a venti o addirittura di uno a venticinque, contro un valore di uno a sette in Italia),2 la popolazione, dopo il crollo vertiginoso dei redditi negli anni Novanta, si sente rassicurata e aspira alla stabilità. La sensazione di un miglioramento si rispecchia nei sondaggi qui di seguito riportati.

Sostegno popolare

Anche se la coincidenza tra la venuta al potere di Putin e il miglioramento della situazione economica è solo frutto del caso, Putin ha saputo evidentemente capitalizzare a proprio vantaggio la riconoscenza della popolazione ed è riuscito a incarnare, agli occhi dei cittadini, quella stabilità e quell’ordine tanto desiderati. È probabilmente questa la ragione principale dell’appoggio indefettibile di cui gode dalla sua ascesa al potere. Nulla è riuscito ad intaccarlo, né la sua iniziale indifferenza davanti alla tragedia del sommergibile Kursk, né il terribile sequestro di ostaggi a Mosca durante la rappresentazione della commedia musicale “Nord-Ost” nel 2002, o quello degli allievi e degli insegnanti della scuola di Beslan nel settembre 2004 e il clamoroso smacco delle forze speciali, dei servizi d’informazione e della polizia. Dietro a queste cifre, che farebbero invidia a qualsiasi dirigente, si nasconde una situazione un po’ più complessa di quanto si pensi abitualmente. Il sostegno a Putin, infatti, è più un appoggio a un simbolo della Russia che alla sua politica concreta, che suscita quanto meno qualche riserva. È quanto dimostrano due sondaggi del Centro Levada,

 

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riportati nelle Tabelle 3 e 4. Risulta pertanto che la popolazione appoggia Putin perché, soprattutto grazie ai suoi sforzi in questo senso, non c’è nessun altro sulla scena politica (tranne i suoi stessi cloni, come Medvedev, Ivanov ecc.) e perché si tratta più di un appoggio per difetto di alternative che di una vera adesione politica; il che conferma il giudizio per lo meno tiepido nei confronti della sua politica, visto che una maggioranza relativa delle persone interrogate vede più fallimenti che successi nei punti essenziali della sua politica (annientare i Ceceni e instaurare “l’ordine” nel loro paese, sradicare il terrorismo, porre fine alla corruzione). L’unico dei cardini del suo programma che la popolazione riconosce come successo è quello del miglioramento dei redditi.

Le verticali del potere

Avendo fatto parte del KGB per quindici anni, in posizioni subalterne, Putin ha tenuto come bagaglio della propria esperienza nella polizia politica alcune certezze e convinzioni che condivide con la maggioranza dei propri compatrioti: l’importanza dell’ordine, la grandezza della Russia, la nostalgia della grande potenza sovietica, il rispetto della forza ecc.; sono queste che fanno la sua forza e che gli valgono il sostegno generale. Altre le condivide con la classe politica dei suoi tempi, sia del periodo sovietico sia di quello post sovietico: l’importanza di avere un solo capo e quindi la diffidenza verso tutto ciò che può apparire come una spartizione dei poteri e, di conseguenza, la necessità di disporre di catene di comando di tipo quasi militare per garantire l’esecuzione delle decisioni.

Per questo, fin dal suo arrivo al potere, Putin ha eliminato in modo sistematico qualsiasi contropotere. Successivamente o contemporaneamente ha privato di ogni autorità la camera alta, sostituendo i governatori che vi sedevano in precedenza con rappresentanti di nomina (che sono poi diventati semplici lobbisti): nel 2002 ha annullato l’elezione a suffragio universale dei governatori, che da quel momento sono in pratica nominati dal presidente. Così un’autorità essenziale qual era quella del governatore mantiene le proprie prerogative in ambito regionale, ma è divenuta del tutto dipendente dal pre-

 

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sidente e da lui si aspetta solo una riconferma del posto: si passa così dalla responsabilità davanti agli elettori al vassallaggio nei confronti del presidente. Il segno più vistoso di questa presa di controllo è la nomina di un gran numero di militari e di poliziotti nell’apparato statale e politico (governatori, capi dell’amministrazione presidenziale, grandi amministrazioni ecc.).

 

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L’amministrazione presidenziale, composta da migliaia di funzionari, come i responsabili del PCUS di un tempo, assicura il vero esercizio del potere, riportando nell’ombra il governo e i suoi ministri.

Allo stesso tempo Putin ha privato di ogni potere politico gli oligarchi, ossia i detentori delle grandi fortune che si erano costituite dal niente e nella maggior parte dei casi in modo fraudolento, intorno alla produzione e all’esportazione di materie prime, sotto l’occhio compiacente e il più delle volte fortemente premiato, dell’apparato statale. Per sgradevole che fosse, il potere degli oligarchi sui media (giornali e televisione) assicurava comunque un certo pluralismo dell’informazione. Dopo avere costretto due di loro a emigrare (Gusinski e Berezovski), Putin ha attaccato l’oligarca più ricco e potente, Khodorkovski, che aspirava ad assumere un ruolo politico con la creazione di una ONG e con finanziamenti ai partiti. Il suo arresto, il processo davanti a giudici allineati, tutta la vicenda è stata bene intesa dagli altri oligarchi che, lungi dal difenderlo, hanno cercato di entrare nei favori del potere, al prezzo – beninteso – della rinuncia a qualsiasi ruolo politico e all’accettazione del crescente controllo degli alti funzionari sui grandi gruppi economici. La distinzione tra potere politico e potere economico, che cominciava a delinearsi, è nuovamente scomparsa e le due sfere si ritrovano ancora una volta confuse insieme. Il controllo, sia diretto sia mediato da uomini d’affari che hanno buoni rapporti con i media, in primo luogo la televisione, assicura al potere un appoggio compatto e impermeabile a qualsiasi voce di dissenso. Certo, si può apprezzare quell’ordine instaurato da un Stato forte. È quello che fanno i Russi, che al 74% preferiscono l’instaurazione dell’ordine anche a prezzo di una limitazione delle libertà, contro un 11% che vorrebbe piuttosto il rispetto assoluto dei principi democratici anche a costo di concedere una certa libertà alle forze distruttrici e criminali.4 È però lecito dubitare che un tale potere, interamente “agganciato” al presidente, senza equilibri, senza separazione dei poteri, sia forte come vorrebbe apparire o che si tratti del migliore regime possibile per un grande paese come la Russia.

Le paure

Le rivoluzioni colorate (la rivoluzione delle rose in Georgia, quella arancione in Ucraina, quella dei tulipani in Kirghizistan) hanno spaventato le autorità russe al potere, che hanno voluto vedervi un complotto di forze misteriose, ma evidentemente straniere, ai danni della Russia. È a partire da queste esperienze che la retorica antioccidentale, già ampiamente presente, è andata accentuandosi nei discorsi dei responsabili russi, conformandosi al tono già dato da Putin in occasione dell’incontro di Monaco nel febbraio 2007. La Russia non aveva lezioni da ricevere da paesi il cui stesso carattere democratico era quanto meno dubbio e poteva definire da sé la propria democrazia: di qui la tesi della “democrazia sovrana”, ossia autosufficiente. Davanti ad alcuni giovani sostenitori, Putin dichiarò che non avrebbe permesso che qualche ficcanaso (le potenze occidentali) si impicciasse delle faccende russe. Questo timore spiega l’accanimento con il quale il potere ha soffocato qualsiasi parvenza di opposizione, un accanimento che ha stupito un poco l’Occidente, ma che trova una sua ragione nella paura paranoide di un complotto antirusso. Spiega altresì l’organizzazione di elezioni manovrate anche se la vittoria dei partiti vicini a Putin era più che certa. Tuttavia, come è stato possibile osservare nel corso degli ultimi mesi, la scomparsa delle procedure democratiche di trasmissione del potere si paga con feroci lotte dietro le quinte tra i diversi clan vicini al presidente, che sono causa di una grave instabilità.

Il discorso sui nemici della Russia si accompagna ad una glorificazione del ruolo storico dello Stato russo attraverso i secoli. Televisione, cinema, manuali di storia battono e ribattono il chiodo sul tema. La Russia deve dunque tornare a svolgere il proprio ruolo di grande potenza. Non potendo pretendere un importante ruolo economico e avendo perso gran parte delle proprie posizioni sulla scena internazionale, la Russia conta oggi sul proprio seggio al Consiglio di sicurezza, sulla possibilità di avere un ruolo nelle situazioni di conflitto tra le potenze occidentali e sull’arma che le deriva dalle esportazioni di energia. Di qui la tesi avanzata di recente di “grande potenza energetica”. È giocoforza tuttavia constatare che la Russia vorrebbe riacquistare il posto nel mondo che aveva l’Unione Sovietica, ma che non ne ha le armi politiche né quelle ideologiche ed economiche.

Conclusioni

Come hanno dimostrato le recenti elezioni legislative con l’accesso dei soli partiti pro Putin alla Duma e l’annunciato successo del delfino di Putin, Medvedev, i Russi hanno accettato un regime che si potrebbe definire di “democrazia contemplativa” (voto ogni quattro anni e resto a osservare quello che succede), o meglio imitativa: ha tutti gli attributi di una democrazia, ma sta bene attenta a non farli funzionare. Riscoprendo abitudini che risalgono all’epoca sovietica, la maggioranza della gente si allontana dai grandi problemi del paese, lasciati alla gestione dei dirigenti, per occuparsi delle proprie faccende private, dal momento che il 64% nel 2005, rispetto al 47% del 1994, è convinto che «gli uomini politici si occupano esclusivamente del proprio successo materiale e della propria carriera». A ogni livello della scala sociale prevale il motto “ognuno per sé”. Ci si può tuttavia domandare, riguardo ai conflitti sindacali che esplodono qui o là (come i recenti scioperi alle officine Ford), se con un relativo miglioramento delle proprie condizioni di vita i Russi non ritrovino anche la via delle rivendicazioni.

[1] F. Loukianov, La politica estera della Russia, in “Neprikosnovennyj zapas”, 6/2006, pp. 140-41.

[2] Ordinando i soggetti in modo crescente in base al reddito posseduto e dividendo il gruppo così ordinato in dieci sottogruppi (decili), il rapporto fra il reddito medio del decimo decile e quello del primo fornisce un’indicazione della diseguaglianza distributiva.

[4] Inchiesta del Centro di analisi Yurij Levada, Mosca 2005.