Prospettive di pace e di guerra nell'Iraq del dopo Bush

Di Bruna Soravia Giovedì 02 Luglio 2009 17:50 Stampa

L’Iraq degli ultimi mesi, dopo le elezioni provinciali dell’inizio dell’anno, appare un paese complessivamente tranquillo, in attesa del ritiro totale e definitivo delle truppe della coalizione annunciato per la fine del 2011. Si tratta però di una condizione ancora fragile e reversibile, la cui stabilità dipenderà dalle riforme politiche che devono definire la natura dello Stato federale iracheno.

Missione compiuta?

È possibile considerare la sparizione quasi totale dell’Iraq dalle prime pagine dei giornali occidentali – con l’eccezione parziale della stampa statunitense e britannica – un dato positivo, quasi fosse una conferma della fine dei travagli iracheni? A sei anni dall’incauto annuncio della fine della guerra da parte di George W. Bush, questo dato, unito all’evidente spostamento dell’attenzione della nuova Amministrazione americana sull’Afghanistan, farebbe propendere per il sì. L’Iraq del 2008 è sembrato un paese relativamente pacificato, dove l’ordine pubblico è assicurato in gran parte da forze di sicurezza governative, che ha ristabilito normali relazioni diplomatiche con i suoi vicini mediorientali, nel quale le ultime elezioni provinciali – tenutesi il 31 gennaio 2009 – si sono svolte senza incidenti di rilievo. Inoltre sono state fissate, per il gennaio 2010, le prossime elezioni parlamentari, le seconde dopo la caduta del regime baathista di Saddam Hussein: vi parteciperanno, presumibilmente, i partiti sunniti che avevano boicottato la precedente consultazione, e lo svolgimento e i risultati di questa nuova consultazione influenzeranno senz’altro i tempi del ritiro «totale e incondizionato» delle truppe americane, previsto per il dicembre 2011 e fortemente richiesto dall’attuale coalizione governativa a maggioranza sciita, guidata da Nuri al-Maliki.

La coalizione al governo e il premier sono usciti complessivamente vittoriosi dalle elezioni provinciali, che hanno visto anche la partecipazione di li ste sunnite e la loro vittoria nelle province di Ninive (Mosul), Diyal (Baquba) e Anbar. Il processo di riconciliazione era stato preceduto, l’estate scorsa, da un’amnistia generale, che aveva liberato oltre 100.000 detenuti politici, in massima parte sunniti; e dalla cosiddetta “legge di riforma della debaathificazione”, che ha permesso, alla fine del 2008, la reintegrazione nella vita pubblica di parte dei baathisti – anch’essi, in genere, sunniti – che ne erano stati espulsi fin dal 2003, secondo le vincolanti direttive adottate nel corso della reggenza Bremer.

È difficile giudicare ora quanta parte di questi risultati positivi sia dovuta al famoso surge, l’incremento della presenza militare statunitense in Iraq promosso da Bush verso la fine del suo secondo mandato. È però certo che, dopo la spirale di violenza terroristica e intersettaria che nel 2006 aveva rischiato di condurre l’Iraq verso la guerra civile, il cambio di strategia militare americana, orientato verso la soppressione mirata della resistenza terroristica (soprattutto delle basi e delle reti di sostegno di al Qaida in Iraq), la protezione della vita dei civili all’esterno delle cittadelle ben difese dalle forze della coalizione e il rafforzamento dei legami all’interno della società, ha permesso, nel corso del 2007, il ritorno a una vita più normale e a una dialettica politica non più dominata dal ricatto terroristico. Il circolo virtuoso così innestato ha condotto perfino un’organizzazione estremista come l’esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr, privato dei suoi appoggi politici, a proclamare il cessate il fuoco e a riqualificarsi come forza umanitaria. Le cifre rivendicate poco più di un anno fa dal generale Raymond (Ray) Odierno, attuale capo delle forze armate statunitensi in Iraq dopo David Petraeus, il vero architetto del surge sul campo iracheno, appaiono impressionanti sebbene vagamente ingannevoli: le vittime civili sarebbero diminuite ovunque del 90% rispetto agli stessi mesi del 2007 – il che significa in ogni caso averne contate a decine.1 Conta anche, tuttavia, che l’esercito americano sia stato costretto a cambiare i suoi obiettivi, privilegiando il benessere dei civili iracheni e la distensione politica in generale a scapito delle finalità puramente militari e dell’autoprotezione; e che questo sforzo abbia umanizzato i capi della coalizione, dopo gli abusi infamanti di Abu Ghraib e gli errori gravissimi di strategia politica e militare dei primi quattro anni di occupazione.

Lo stesso Odierno, in un’intervista di cinque mesi fa reperibile sulla sua pagina di Facebook (di per sé uno degli indicatori del processo d’ingentilimento delle forze armate statunitensi), ripercorre le fasi del surge, enfatizzandone i risultati ma anche individuando correttamente alcuni fra i punti deboli della situazione attuale: lo statuto della provincia di Kirkuk, rivendicata dal Kurdistan iracheno, che il governo federale non vuole cedere a causa dei suoi ricchissimi giacimenti petroliferi; la cosiddetta “legislazione sugli idrocarburi” (Hydrocarbon Laws) che dovrà assegnare precisamente le rendite petrolifere, definite dalla Costituzione del 2005 patrimonio di tutto il popolo iracheno, indipendentemente dalla provincia o dal governatorato di appartenenza, che invece la regione curda rivendica per sé; infine, l’effettiva capacità del governo federale – al di là della spartizione pura e semplice del potere – di fornire servizi ai cittadini e soprattutto di garantirne la sicurezza a lungo termine. Quest’ultima condizione, se realizzata, favorirebbe, inoltre, il ritorno dei profughi iracheni, l’altro grande problema d’attualità trascurato da Odierno: si tratta di milioni di persone su una popolazione di circa 28 milioni di abitanti in Iraq, fra i quali vi è una parte importante dell’élite intellettuale del paese che, vittima della violenza settaria nei primi anni dell’occupazione americana, è stata costretta a stabilirsi negli Stati vicini, in Siria e in Giordania soprattutto.

 

Una Costituzione incompleta

La revisione della carta costituzionale appare oggi l’ostacolo principale sulla strada della stabilizzazione interna dell’Iraq ed essa è l’obiettivo principale dell’attuale governo e di quelli che vi seguiranno. Frettolosamente approntata e fortunosamente approvata dal referendum dell’ottobre 2005, la Costituzione irachena si presenta come la bozza incompleta e a tratti contraddittoria del progetto della futura identità politica del paese. È noto che le componenti politiche sunnite non vi hanno contribuito, se non con accenni marginali alla necessità dell’unità nazionale – come correttivo al problema della divisione delle rendite petrolifere, delle quali le province a maggioranza sunnita sono prive –, e che esse hanno poi boicottato attivamente il referendum con lo scopo, fallito per poco, di farlo invalidare. D’altra parte, i curdi hanno invece negoziato l’accentuazione dei poteri regionali, nella prospettiva d’istituire una regione autonoma curda, contro la patina religiosa dello Stato voluta dalle forze sciite filoiraniane.

La Costituzione, che si apre con un preambolo dal tono fortemente religioso, ribadisce nell’articolo 2 che l’Islam è religione ufficiale dello Stato – principio già affermato, peraltro, nelle precedenti costituzioni irachene – e la shari’a fonte fondamentale della legge, sebbene non l’unica, come è detto, non senza incoerenza, nel comma successivo, che le affianca «i principi della democrazia». Al punto seguente è garantita l’«identità islamica» della maggioranza della popolazione e anche la tutela dei diritti religiosi delle minoranze non islamiche, che tuttavia sono poste ai margini della definizione intrinseca di nazione irachena. In una formulazione precedente (il testo della Costituzione è cambiato numerose volte fino al referendum), l’articolo 3 definiva l’Iraq «paese islamico»; nella formulazione dell’ottobre 2005 lo si dichiara invece «paese di molte nazionalità, religioni e sette», ma anche – di nuovo contraddittoriamente – «parte del mondo islamico». Nonostante l’ampio riconoscimento dei diritti religiosi delle minoranze, l’Iraq è già oggi un paese meno composito culturalmente di quanto lo fosse, non solo fino alla diaspora ebraica degli anni Cinquanta (gli ebrei di Baghdad sarebbero oggi meno di dieci!), ma anche fino al recentissimo esodo di quote significative della popolazione cristiana.

Che tali formulazioni confessionali siano affiancate da altre che le bilanciano sul piano delle garanzie democratiche resta insomma contraddittorio, in assenza di precisazioni sulla loro gerarchia reciproca o eventuale interazione. In ogni caso, l’adozione della shari’a come fonte del diritto pone, com’è noto (si vedano i casi della Siria e dell’Egitto), problemi incalcolabili di gestione dello statuto e delle libertà personali. Le decisioni in merito sono, nella carta irachena, rimesse al Parlamento e alla Corte suprema federale, le cui composizioni e competenze sono tuttavia, per entrambi, solo vagamente definite.

Arabo e curdo sono le lingue nazionali e la struttura dello Stato è federalista su base etnica e regionale, con un assetto imperfettamente delineato. Non definite, e fortemente dibattute, sono soprattutto le prerogative del governo federale, peculiarmente debole, nella definizione attuale, rispetto alle macroregioni che si prefigurano (meridionale sciita; centrale sunnita; settentrionale curda). Esso ha potere esclusivo nella politica estera e nella difesa, regola le risorse elettriche e idriche (ma non quelle petrolifere, negoziate separatamente), disciplina le politiche fiscali, commerciali, ambientali, sanitarie ed educative. Alle regioni sono tuttavia attribuiti tutti i poteri non conferiti esclusivamente al governo federale: i governi regionali hanno facoltà di organizzare forze di difesa proprie e con ciò si legittima ad esempio, in contraddizione dei principi enunciati all’inizio della carta, la presenza di milizie sciite e dei peshmerga curdi accanto all’esercito e alla polizia nazionali. Inoltre, in caso di conflitto di competenze fra governo federale e regionale su poteri condivisi, prevale la legge regionale.

 

Quale federalismo per l’Iraq?

Fondamentali nella definizione del futuro assetto dell’Iraq e per la sua stabilità appaiono dunque, più ancora che l’accento posto sull’Islam, la questione già accennata della proprietà delle rendite petrolifere e quella, a monte, della natura del federalismo illustrato. I curdi, nel cui territorio si trova oltre la metà delle risorse petrolifere irachene, hanno infatti iniziato a sottoscrivere autonomamente contratti con le compagnie petrolifere occidentali, rivendicando questa manovra come prerogativa regionale. Il ministro del Petrolio, al-Shahristani, ha proposto di centralizzare le rendite che ne deriveranno, con quelle delle altre province petrolifere, distribuendone il 17% al governo regionale curdo. Il problema, davvero paradossale, sarebbe quello di compensare le compagnie straniere coinvolte nello sfruttamento poiché, ufficialmente, il governo federale non può riconoscere i contratti firmati in base a prerogative non confermate.2 In ogni caso, com’era prevedibile, il governo regionale curdo ha rifiutato la proposta federale, che minerebbe la sua autonomia.

La questione della provincia di Kirkuk è l’altro ostacolo posto dall’autonomia curda sulla via del federalismo regionale intrapresa dall’Iraq del dopo-occupazione. Geograficamente, parte del Kurdistan figurava nella Costituzione come provincia indipendente e non ricongiungibile a nessun’altra, per impedire che i curdi si appropriassero dei ricchissimi giacimenti presenti. Le proteste dei politici curdi hanno condotto all’aggiunta successiva di un ultimo articolo, il 140, al testo costituzionale, dove è indicata la necessità di un referendum per l’autodeterminazione della provincia, dal quale è prevedibile che esca l’indicazione all’unificazione con il Kurdistan. Indetto per la fine del 2007, il referendum è invece slittato più volte, l’ultima delle quali all’inizio di quest’anno, per permettere lo svolgimento delle elezioni provinciali – con grandi e comprensibili proteste da parte del governo regionale curdo.

Se si considera che i restanti giacimenti petroliferi sono posti nella regione meridionale a egemonia sciita, e che le regioni centrali dove predominano i sunniti ne sono invece sprovviste, si vede bene che la conferma delle prerogative regionali, richiesta dal modello federalista fin qui perseguito, porterebbe a una forte disparità di risorse fra le tre macroregioni e al riaprirsi di conflitti politici e religiosi dalle conseguenze incalcolabili, non solo all’interno dell’Iraq. Si pensi solo alla tensione permanente fra Turchia e Kurdistan iracheno o alla pesantissima ipoteca posta dall’Iran sul partito politico del primo ministro (al-Da’wa, l’appello all’Islam, fondato su una piattaforma politica teocratica), anch’esso in bilico fra autonomia e acquiescenza ai richiami della dirigenza iraniana.

È per questo che appare oggi urgente la revisione definitiva della Costituzione nel senso del superamento del modello settario e del rafforzamento delle prerogative del governo federale, all’interno di una prospettiva di unità nazionale che finora è stata garantita soprattutto dalla volontà e dall’impegno personale del primo ministro al-Maliki e del presidente della repubblica Talabani. L’Iraq moderno è un paese con una storia nazionale complessa e drammatica, ma anche con una cultura politica diffusa e sofisticata: un paese che, dal mandato alla monarchia, alle rivoluzioni e ai colpi di Stato, ha sempre finito per riaffermare un’identità nazionale specifica.3 La comunità internazionale dovrebbe ormai sostenere l’obiettivo dell’unità nazionale in modo informato e consapevole, rinunciando definitivamente all’idea della spartizione dell’Iraq che ha ispirato fin dall’inizio l’ideologia dell’occupazione americana.4


[1] R. T. Odierno, The Surge in Iraq: One Year Later, disponibile su www.heritage.org/Research/ NationalSecurity/hl1068.cfm. Negli ultimi tempi si è registrata tuttavia un’allarmante inversione di tendenza, che ha ridato forza all’ipotesi di posticipare il ritiro delle forze statunitensi.

[2] The Iraqi Oil Ministry Clarifies Its Position on Oil Exports from Kurdistan and the DNO Deal, disponibile su www.historiae.org/notebook. asp, rapporto del 18 maggio 2009.

[3] Cfr. Iraqi Academics and Professionals, Norwegian Institute of International Affairs (NUPI), More than “Shiites” and “Sunnis”: How a Post- Sectarian Strategy Can Change the Logic and Facilitate Sustainable Political Reform in Iraq, NUPI, Oslo 2009, disponibile su www.historiae.org.

[4] Proprio l’attuale vicepresidente americano Biden, in coppia con il collega repubblicano Brownback, aveva, nell’ottobre 2007, presentato al Senato americano una risoluzione, approvata a larga maggioranza, che proponeva di dividere l’Iraq in tre Stati come soluzione alla spirale di violenze settarie. In quale momento, e in quali termini, abbia rinunciato a questa soluzione non è stato possibile sapere.