Le politiche economiche dell'Unione europea dopo la crisi finanziaria: è tempo di cambiare

Di Stefano Micossi Venerdì 08 Maggio 2009 17:45 Stampa

La crisi finanziaria ha mandato in frantumi i vecchi equilibri su cui si erano finora fondate le politiche economiche comuni dell’Unione europea, portando alla luce le lacune esistenti nel sistema europeo di gestione delle problematiche economiche. È quindi emersa l’esigenza di costruire meccanismi e procedure che diano continuità e contenuto alle forme di coordinamento, e la necessità di creare nuove strutture comuni capaci di decisioni efficaci e vincolanti.

Il sistema delle politiche economiche comuni dell’Unione europea si articola su tre pilastri:

a) la moneta comune; a tutela della moneta comune e della stabilità finanziaria appartengono a questo pilastro anche le norme del Trattato CE sui disavanzi eccessivi e i regolamenti collegati al Patto di crescita e stabilità, con relativi poteri sanzionatori;

b) le politiche comuni del mercato interno, della concorrenza e delle politiche commerciali (e in qualche misura industriali e di coesione), a fianco delle quali ancora sopravvive il mostro della politica agricola, con propri poteri di regolazione e sanzione – e anche di spesa – delle istituzioni comunitarie;

c) un meccanismo di coordinamento delle politiche macroeconomiche nazionali gestito dal Consiglio dell’Unione, basato sulla “pressione dei pari” e senza poteri sanzionatori, improntato a una visione comune di medio-lungo periodo espressa dall’Agenda di Lisbona, un programma di modernizzazione dell’economia e dello Stato sociale teso a consentire all’Unione europea di competere nel mondo globalizzato delle tecnologie della conoscenza.

Questo apparato presenta due caratteristiche salienti. In primo luogo, esso esclude dal coordinamento le politiche anticicliche, sia per la moneta, gestita da una banca centrale indipendente in funzione esclusiva della stabilità dei prezzi, sia per le politiche di bilancio che, quando non eccedono i limiti permessi dal Patto di stabilità, sono lasciate alla discrezione degli Stati membri. Dunque, le politiche comuni sono nel complesso orientate al miglioramento della struttura dell’offerta, attraverso il buon funzionamento del mercato, la qualità dell’azione pubblica di regolazione, il rispetto delle regole di concorrenza e di libertà di movimento dei fattori produttivi.

In secondo luogo, esso è rivolto principalmente o esclusivamente a finalità interne, che a loro volta esprimono essenzialmente l’equilibrio tra gli interessi nazionali degli Stati membri. In altre parole, l’Unione europea non esprime una visione economica per il mondo globale né una coerente proiezione esterna comune nel governo delle istituzioni economiche multilaterali, dove è normalmente presente indirettamente attraverso i suoi Stati membri.

Si spiega così il ruolo normalmente difensivo giocato nel negoziato commerciale internazionale, dove il ruolo di agenda setter è stato lasciato agli Stati Uniti, così come la subalternità a quel paese nella fissazione delle regole dell’aggiustamento internazionale e del funzionamento dei mercati dei capitali. In tutti questi campi, la visione dell’economia di mercato che è prevalsa è venuta dall’esterno; l’Europa continentale l’ha accettata con qualche resistenza, mantenendo nel complesso una presenza dello Stato più elevata e una maggior rigidità delle strutture economiche rispetto al mondo anglosassone, e poi anche rispetto alle economie emergenti dell’Asia e dell’Est europeo. Anche l’euro è stato concepito più come uno scudo rispetto all’instabilità proveniente dal mondo esterno che come strumento di proiezione internazionale. L’accesso delle imprese straniere al mercato interno dei capitali è stato governato dai singoli Stati in funzione degli interessi costituiti, senza una vera unificazione dei mercati finanziari. Tale impostazione, naturalmente, ha essenzialmente riflesso gli equilibri globali emersi dalla seconda guerra mondiale. Quel che colpisce è quanto a lungo tali equilibri siano sopravvissuti agli interessi che li avevano espressi.

La crisi finanziaria è giunta come il classico elefante nel negozio di porcellane, mandando in frantumi i vecchi equilibri; ma costruirne di nuovi richiederebbe una capacità di leggere gli eventi e una visione politica che semplicemente non sono disponibili tra i leader europei del momento – forse con la sola eccezione della signora Merkel (questo non lo sapremo compiutamente se non dopo le elezioni politiche generali, previste dopo l’estate). Dunque, nel futuro prevedibile saranno gli eventi a sospingere le soluzioni. Purtroppo, non è sicuro che le decisioni riescano a tenere il passo con le esigenze della gestione della crisi: vi è dunque il rischio che l’Unione subisca lacerazioni nel suo tessuto istituzionale e che continui a svolgere un ruolo subalterno nella costruzione dei nuovi equilibri mondiali.

Vediamo perché sono saltati i vecchi equilibri. In primo luogo, il decentramento a livello nazionale delle politiche fiscali non è in grado di assicurare le risorse necessarie per fronteggiare né la possibile (anzi, probabile) insolvenza di uno degli Stati membri – è in pole position la Grecia, seguita dall’Irlanda – né le esigenze di stabilizzazione delle monete e delle economie che ruotano intorno all’euro, dentro e fuori dell’UE. Va premesso che questa semplicemente non può evitare di assumere tali oneri, perché i costi di abbandonare al proprio destino paesi fortemente integrati nell’Unione sarebbero altissimi, con immediate ripercussioni sui sistemi bancari dei maggiori paesi. Inoltre, la svalutazione delle monete che non partecipano all’euro – il Regno Unito e la Svezia, oltre alle monete dei paesi dell’Est – sta oggi seriamente aggravando le prospettive di crescita dell’area dell’euro. Quei paesi stanno già andando da soli, come avvenne negli anni Trenta, senza curarsi dei danni inflitti ai propri partner commerciali. Insomma, senza un serio coordinamento degli interventi di stabilizzazione economica e finanziaria, incombe la prospettiva di un aggravamento delle condizioni economiche, oltre che di una chiusura protezionistica, con conseguente rottura del mercato interno e, alla fine, della moneta comune.

Vi è anche un altro problema, collegato al primo. Mentre le banche centrali nazionali possono intervenire a sostegno dei propri mercati finanziari anche stampando moneta (quantitative easing) – come il Regno Unito ha già iniziato a fare acquistando titoli emessi da soggetti privati – in quanto godono del sostegno ultimo del Tesoro dello Stato, la Banca centrale europea può solo fare interventi tradizionali di sostegno della liquidità, ma non può intervenire in caso di insolvenza di una banca dell’Unione. Inoltre, la Banca centrale europea non può per statuto intervenire a sostegno delle finanze disastrate di uno Stato membro (no bail out). Né esistono strumenti di intervento comunitari con risorse adeguate. Dunque, l’unico strumento di intervento nel caso in cui le cose volgano al peggio restano i bilanci pubblici degli Stati membri, già sotto considerevole pressione per gli interventi di sostegno interno. Se oggi la Germania agita ancora il dito ammonitore verso i paesi più indebitati, ingiungendo di non spendere, domani potrebbe trovarsi a pregarli di spendere, per non dover sostenere da sola il peso intero dei salvataggi. In quel momento nascerebbe una politica fiscale comune dell’Unione, costretta a mettere insieme i bilanci degli Stati membri per evitare che la casa crolli.

Un’alternativa all’utilizzo dei bilanci pubblici nazionali esiste e consiste nel mobilizzare risorse attraverso i prestiti comunitari, cioè l’emissione di obbligazioni dell’Unione (Union bond). Al momento il mondo è allo stesso tempo a corto di credito e affogato di liquidità: l’apparente paradosso si scioglie comprendendo che gli investitori vogliono solo carta senza rischio, mentre i crediti all’economia sono ora massimamente rischiosi. La carta più sicura è il debito sovrano dei paesi con solide finanze pubbliche; se l’Unione mettesse il peso di tutti i suoi Stati membri a garanzia del suo debito, la sua carta sarebbe senz’altro molto attraente per gli investitori sovrani che al momento hanno solo limitate alternative agli investimenti in dollari. Dunque, oltre a disporre delle risorse necessarie per salvare le banche dei suoi paesi membri e le monete dei paesi che ruotano intorno all’euro, disporrebbe di risorse per riaprire il circuito del credito per gli investimenti, naturalmente per progetti di alto valore comune. Perché il meccanismo si consolidi non basta emettere qualche decina di miliardi di Union bond, se ne dovrebbero emettere molti, anzi moltissimi, diciamo da un trilione, o mille miliardi, di euro in su: perché solo a tale condizione i singoli investitori sarebbe rassicurati sulla possibilità di uscire facilmente – cioè sulla piena liquidità del loro investimento. La prima conseguenza dell’emissione massiccia di Union bond sarebbe la trasformazione dell’euro da moneta di conto e di scambio a vera moneta mondiale di riserva, diventando un contraltare al dollaro e introducendo così un elemento di disciplina di mercato esterna sulle politiche economiche degli Stati Uniti. Naturalmente, anche l’Unione sarebbe chiamata a nuove responsabilità nel governo concertato dei cambi e delle politiche macroeconomiche nelle grandi aree del mondo, e non potrebbe sottrarsi alla creazione di meccanismi interni tali da consentirle di partecipare con una sola voce al concerto mondiale. Inoltre, il suo mercato dei capitali dovrebbe diventare molto più aperto e ospitale per i flussi provenienti dal resto del mondo, in modo che, quando la fame di titoli pubblici lascerà il posto a una domanda di titoli privati, questi siano disponibili come sbocchi alternativi di impiego sui mercati europei senza restrizioni – perché altrimenti il denaro riprenderebbe la via del mercato americano, facendo precipitare il cambio dell’euro.

In un tale contesto è anche chiaro che l’Unione non potrebbe più comportarsi come un free rider rispetto alle regole di funzionamento del mercato dei capitali. Dovrebbe diventare un serio stakeholder nella libertà di movimento dei capitali, come sempre sono stati i paesi che emettono monete di riserva, e dovrebbe dotarsi di un solo sistema interno di regole, negoziato a livello globale. La conseguenza accessoria sarebbe che i suoi molto domestici regolatori dovrebbero venir sostituiti con gente diversa, che parli la lingua dei mercati internazionali e risieda a Bruxelles e a Francoforte, invece che nelle periferiche province di Atene, Roma o Helsinki.

La seconda conseguenza dell’emissione massiccia di Union bond sarebbe l’esigenza per i paesi membri di definire, insieme agli impieghi dei fondi raccolti, una filosofia economica e una visione del posto dell’Unione nel mondo. Non vi sarebbe più spazio per le ambiguità odierne tra integrazione e protezione: l’unica scommessa possibile sarebbe quella dell’integrazione, la sola capace di offrire sbocchi profittevoli alle enormi possibilità di investimento comune. Ad esempio, la costruzione di una vera rete integrata per la distribuzione del gas consentirebbe di superare la dimensione ancora strettamente nazionale delle reti di distribuzione, consentendo una gestione trasparente delle forniture e la fine della rete di opachi accordi bilaterali con i paesi produttori che ancora mantiene troppo alti i prezzi dell’energia. Più in generale, la questione degli sbocchi e delle politiche commerciali potrebbe essere affrontata in una prospettiva continentale di ripresa della crescita dopo la caduta in corso. Come ieri l’abbattimento del Muro di Berlino aveva dato la stura a un tumultuoso processo di investimento e integrazione dei paesi dell’Est europeo, così domani si potrebbe aprire la strada a un disegno ambizioso di integrazione del Mediterraneo verso Sud e, soprattutto, della Russia e di paesi finitimi, fin verso l’Asia. Di nuovo, ciò non sarebbe concepibile senza un impegno irreversibile dell’Unione verso una politica di apertura e di libertà dei commerci mondiali, cessando di essere il partner riluttante ai round di liberalizzazione che abbiamo visto negli ultimi quarant’anni. Sarebbe agenda setter, invece che recipiente passiva degli accordi imposti dagli altri.

Va sottolineato che l’esigenza di un progetto comune per ritornare alla crescita non è questione astratta posta da qualche irriducibile internazionalista, ma è concreto bisogno. Il problema è che – finita la grande ubriacatura della spesa a debito del consumatore americano, nonché quella degli epigoni europei in paesi come l’Irlanda, la Spagna, quelli dell’Est europeo e quelli Baltici – non è chiaro chi potrà assorbire le esportazioni europee di beni manufatti e di beni capitali, mentre la domanda interna è da due decenni depressa per gli effetti prodotti sui redditi interni dalla concorrenza dei paesi emergenti e dal mutamento tecnologico. Il problema è aggravato dal forte divario di competitività che separa la Germania dagli altri paesi europei, che dunque sono schiacciati verso il basso dall’avanzo commerciale tedesco. C’è poco da scegliere: anche se si riuscisse a convincere la Germania ad accettare un significativo apprezzamento reale del cambio, attraverso un maggior aumento relativo dei redditi interni, rispetto agli altri paesi europei, questo non basterebbe a riportare le economie europee su un sentiero di crescita sostenuta. Serve un elemento di sostegno esterno, che potrebbe appunto essere trovato in un grande progetto di integrazione economica – e naturalmente politica e di sicurezza – delle aree confinanti.

Vi è un ultimo aspetto da sollevare, che riguarda le procedure e le istituzioni del coordinamento delle politiche economiche che si è delineato. Il punto centrale, che qui possiamo solo accennare, è che un tale coordinamento richiede adeguate procedure e istituzioni comuni. Ad esempio, le emissioni di Union bond dovrebbero essere gestite da una trasformata Banca europea degli investimenti (BEI), mentre i progetti di investimento potrebbero essere affidati alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), o forse le due istituzioni dovrebbero essere fuse e diventare una vera agenzia comunitaria per gli investimenti sovrani. Lo stesso Consiglio, seppure nella versione rinforzata del Trattato di Lisbona, dovrebbe dotarsi di strutture e meto di adeguati per gestire con continuità le politiche fiscali comuni e il debito dell’Unione. Su questi aspetti il Consiglio dell’Unione potrebbe votare a maggioranza e codecidere con il Parlamento europeo; la Commissione dovrebbe avere poteri formali di iniziativa e di coordinamento dell’esecuzione delle decisioni comuni.

Insomma, l’idea che le sfide sopra descritte possano essere affrontate con decisioni fulminanti di napoleonici leader è semplicemente una sciocchezza. Il primato della politica, al contrario, deve esercitarsi proprio nella costruzione di meccanismi e procedure che diano continuità e contenuto agli esercizi di coordinamento. Al posto delle effimere intuizioni, servono dossier pesanti nelle capitali, entro le amministrazioni; servono strutture comuni al livello dell’Unione, capaci di decisioni vincolanti e di esecuzione efficace. Le risoluzioni estemporanee prese dopo la lettura dei giornali del mattino non saranno sufficienti ad affrontare i giochi ambiziosi e complessi cui saremo chiamati a partecipare.