Tra Stato e mercato: ascesa e declino dell'impresa pubblica italiana tra XIX e XX secolo

Di Pier Angelo Toninelli Lunedì 22 Dicembre 2008 19:35 Stampa

Sin dall’Unità lo Stato è stato chiamato a più riprese a porre rimedio a deficienze strutturali del paese, quali la ristrettezza del mercato interno, la scarsità di capitali, la mancanza di infrastrutture e l’ancor debole iniziativa imprenditoriale. L’intervento pubblico è apparso ancor più decisivo nelle non infrequenti circostanze in cui il capitalismo privato si è dimostrato incapace di competere su mercati concorrenziali

Dopo la prima guerra mondiale, nella maggior parte dei paesi occidentali venne meno la già declinante fiducia nelle virtù taumaturgiche del mercato, il che diede spazio a un più o meno pronunciato intervento dello Stato: la crescita dell’impresa pubblica ne rappresentò una delle principali modalità. Peraltro, l’affermazione di politiche autarchiche e stataliste in diverse aree dell’Europa centrale e meridionale, la diffusione dell’economia collettivista nell’Europa orientale, la svolta verso forme di economia mista nell’Europa occidentale e nel Nord America potevano considerarsi altrettante, seppur diverse, reazioni ai fallimenti di mercato che piagavano il capitalismo liberale.1

Negli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, a seguito delle cattive performance delle economie miste e, poi, del collasso dei regimi collettivisti, si aprì una profonda riflessione sull’efficacia del big government, che giunse a sfidare quello che dopo la crisi del 1929 era apparso ai più come un esito inevitabile dell’evoluzione del capitalismo. Nell’opinione pubblica e, persino, nell’élite progressista la nozione di impresa pubblica perse man mano ogni connotazione positiva: ne conseguì sovente il rifiuto dogmatico e il categorico rigetto dell’intera esperienza delle aziende di Stato. La spinta alle privatizzazioni era in piena sintonia con l’emergente cultura della globalizzazione che, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, forniva sostegno teorico e ideologico al processo di convergenza delle economie, di integrazione dei mercati e di liberazione dello spirito imprenditoriale. Gli indubbi progressi indotti dalla globalizzazione andarono di pari passo con la straordinaria crescita dell’economia statunitense in quelli che Joseph Stiglitz ha definito i «roaring nineties».2 Nelle accademie e sui più prestigiosi quotidiani, studiosi di fama iniziarono ad esaltare il modello economico, sociale e istituzionale americano, e ad additarlo come irrinunciabile punto di arrivo delle inevitabili trasformazioni degli stanchi epigoni continentali.

Ma, si sa, l’opinione pubblica è effimera e fluttuante. Sicuramente la tragedia dell’11 settembre ha avuto effetti traumatici: col procedere del nuovo millennio, mentre il gigante americano inizia a perder colpi di fronte all’incalzare di nuove prepotenti economie, lo scenario della globalizzazione sembra complicarsi al punto da metterne in dubbio i futuri sviluppi. È in questo clima che è maturato un nuovo ripensamento a proposito dello Stato imprenditore, rafforzato dai risultati ambivalenti delle privatizzazioni nelle economie in transizione e, soprattutto, dai preoccupanti fallimenti del mercato, indotti dall’attenuarsi della regolazione e dalla speculazione fuori controllo, di cui si ha quasi ogni giorno drammatica testimonianza. In questo ondivago atteggiarsi del sentimento pubblico va collocata anche l’esperienza dell’impresa pubblica italiana, sulla quale si concentrerà l’attenzione nelle poche pagine che seguono. La sua storia, più che centenaria, ha assunto la forma di una parabola fortemente asimmetrica, con il suo vertice negli anni Ottanta: a circa un secolo di ascesa fa seguito, dunque, un decennio di rapido declino. Tale processo non differisce molto, in sostanza, da quello di esperienze similari degli altri paesi occidentali. Queste hanno mostrato connotazioni differenti a causa di combinazioni diverse di fattori sociali, economici, politici e ideologici che hanno stimolato, dapprima, le politiche di nazionalizzazione e, successivamente, quelle di segno opposto: ad esse, fra l’altro, non furono estranei, talvolta, anche elementi casuali e imprevedibili. Differenti sono stati anche i settori dell’attività economica maggiormente interessati al fenomeno, nonché la performance economica realizzata nell’ambito del- le diverse esperienze o, infine, i tempi dell’ascesa e del declino del settore pubblico.

Il caso italiano, nondimeno, mostra anche altri aspetti di originalità. Fin dall’Unità, l’esperienza italiana sembra adeguarsi bene al modello di crescita ipotizzato tempo fa3 per i paesi arrivati secondi alla soglia dell’industrializzazione – quali la Germania e il Giappone – ove lo Stato ha agito come potenziale fattore di crescita e di industrializzazione, mediante lo sviluppo di un precoce settore pubblico. Tuttavia, sconfitta come Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale, l’Italia, a differenza loro, resistette alle pressioni dei vincitori che imponevano un forte ridimensionamento dell’impresa di Stato; non solo, questa si estese ulteriormente nei tre decenni successivi. In più, la complessità di forme e di organizzazioni raggiunta dall’impresa pubblica nel paese, anche soltanto a livello centrale, mostra una fantasia e un’immaginazione tutta italiana: imprese pubbliche, aziende autonome, enti di gestione, imprese a partecipazione statale ecc. hanno coesistito per gran parte dell’intera esperienza.

La creazione dell’IRI nel 1933 è stata considerata da buona parte della storiografia come la data di nascita ufficiale dello Stato imprenditore in Italia. Per Ernesto Cianci, ad esempio, gli ultimi anni Venti e i primi anni Trenta hanno marcato una netta discontinuità nella storia dell’intervento dello Stato nell’economia, quella del passaggio dallo Stato monopolista allo Stato imprenditore, appunto. Le industrie a proprietà e gestione pubblica avrebbero dovuto essere gestite con criteri rispettosi del profitto e delle regole del mercato: questo almeno ci si aspettava da parte della giovane e agguerrita tecnocrazia di Stato.4 L’opinione di Cianci è sostanzialmente corretta, anche se è necessaria qualche puntualizzazione: innanzitutto, ben prima degli anni Trenta lo Stato si era trovato a gestire direttamente alcune attività imprenditoriali; inoltre, qualsiasi attività industriale gestita dallo Stato o direttamente o tramite enti e agenzie ad hoc ben difficilmente avrebbe potuto svolgersi in pieno accordo col principio della mano invisibile.

Il 1933 rappresentò certo un punto di svolta nella storia economica italiana; esso avrebbe improntato la struttura finanziaria e produttiva del paese fino agli anni Novanta del secolo scorso. Tuttavia le fondamenta di questa crescita vennero gettate nei sette decenni precedenti. Per evidenziare i caratteri di fondo e le cesure più significative dell’intero percorso dell’impresa di Stato, può essere utile suddividerlo in sei stadi: 1) 1861-1912: l’età dei monopoli di Stato; 2) 1913-32: le origini dello Stato imprenditore; 3) 1933-39: l’affermazione dello Stato imprenditore; 4) 1945-62: la creazione del sistema delle partecipazioni statati; 5) dal 1962 fino a metà degli anni Settanta: la massima espansione del sistema; 6) da metà degli anni Settanta fino a tutti gli anni Ottanta: la crisi dello Stato imprenditore.

Nei cinquant’anni successivi all’unificazione del paese, l’intervento diretto dello Stato nell’economia fu tutt’altro che trascurabile: spesso, va aggiunto, anche contro le sue intenzioni. Fu questo il caso, per esempio, degli stabilimenti termali: essi appartenevano al demanio industriale e nonostante diversi tentativi di disfarsene, per la gran parte rimasero di proprietà statale. Lo stesso poteva dirsi della Società del Canale Cavour, costituita nel 1863 al fine di costruire e gestire il sistema di canali del Piemonte nordorientale. La società fallì e nel 1874 lo Stato fu costretto a riscattare anticipatamente la suddetta rete. Né, in buona sostanza, andarono molto diversamente le cose nella ben nota questione ferroviaria. Ci furono due tentativi di assegnazione ai privati dell’esercizio delle reti ferroviarie, tramite il sistema delle concessioni (1865 e 1885); da ultimo, nel 1905, sfiancato dal quasi quotidiano confronto con le compagnie private per il rispetto degli obblighi dei capitolati, nel quale l’iniziativa privata parve brillare soprattutto per incompetenza e furfanteria, lo Stato fu in pratica costretto ad accollarsi anche la gestione dell’intera rete. Altri interventi furono ispirati invece a scelte programmatiche nonché, più tardi, a criteri “nittiani”: la costituzione dei monopoli del sale e del tabacco – che assicuravano un consistente gettito fiscale – i servizi postale e telegrafico e, poi, quello telefonico, che venne dichiarato monopolio di Stato, anche se la sua gestione inizialmente venne lasciata in mano ai privati. Pure la creazione dell’INA nel 1912 avvenne in uno spirito monopolistico, per quanto poi il regime fascista lasciasse cadere l’opzione monopolistica sull’assicurazione vita.

Da questi brevi cenni è già possibile cogliere quelle che sarebbero State poi le caratteristiche di fondo dell’intervento dello Stato in campo impren- ditoriale: da un lato, il paese preferì l’opzione della proprietà statale nei servizi pubblici, i cosiddetti monopoli naturali, in cui è forte il rischio che una gestione esclusivamente privatistica generi diseconomie per il consumatore e che, storicamente, hanno sempre richiesto qualche forma di intervento dello Stato, tramite regolazione o controllo diretto; dall’altro, nel caso dell’esercizio di attività economico-imprenditoriali, lo Stato fu costretto in più casi a intervenire “contro” la sua volontà al fine di surrogare l’inadeguata iniziativa del capitalismo privato. Ciò valse anche nel caso della creazione di una moderna industria siderurgica: fu soltanto grazie ai sussidi e alle anticipazioni governative che poté essere assicurata la sopravvivenza della Terni, la prima importante industria del settore. I venti anni successivi alla fondazione dell’INA possono essere considerati come l’anteprima dell’imminente performance dello Stato imprenditore.

I drammatici eventi del periodo – guerra, inflazione, recessione – modificarono l’atteggiamento nei confronti dell’intervento statale anche nelle menti di più consolidata fede liberale. Personaggi come Luigi Einaudi, Maffeo Pantaleoni e Pasquale Jannaccone attenuarono la loro contrarietà nei riguardi della partecipazione dello Stato nelle società che operavano in settori cruciali, quali l’industria pesante, quella degli armamenti e quella alimentare.

Un settore che certamente era bisognoso di cure speciali era la finanza, che soffriva di carenza di intermediari e di cronica instabilità: se la fondazione della banca mista5 aveva in parte rimediato alla prima, non aveva certo ridotto i pericoli della seconda. In questa ottica andava collocata, alla vigilia della Grande guerra, la creazione del Consorzio sovvenzioni valori industriali come agenzia speciale, e braccio operativo, della Banca d’Italia nonché, successivamente, di tutta una serie di istituti6 a sostegno delle opere pubbliche, dei servizi pubblici, della cantieristica, dei trasporti marittimi e, infine, dell’industria.

Un ulteriore intervento diretto nell’attività produttiva – sostenuto in prima persona da Mussolini – fu la creazione nel 1926 dell’AGIP, un’agenzia pubblica incaricata dell’esplorazione, della produzione e della distribuzione dei prodotti petroliferi. Lo scopo era quello di ridurre la dipendenza energetica del paese dalle forniture estere. Fino alla guerra i risultati furono trascurabili, dato che l’at- tività della compagnia fu in pratica paralizzata da interessi economici e politici contrastanti; tuttavia, le esperienze tecniche maturate nel periodo avrebbero prodotto duraturi risultati nel dopoguerra. Le vicende che portarono alla costituzione dell’IRI sono troppo complesse per essere sintetizzate in poche righe. Ciò che qui preme sottolineare è che la creazione dell’ente rappresentò il punto di arrivo di una tendenza presente – come si è visto – fin dai primissimi anni di vita dello Stato unitario, quella della surrogazione statale all’inadeguatezza del capitalismo privato. È dunque importante ribadire7 come tale intervento non fosse programmato né, tanto meno, ispirato da ragioni ideologiche.

Quando, a seguito della drammatica congiuntura internazionale, il perverso legame tra banca e industria indotto dalla banca mista raggiunse livelli insostenibili e anche l’ultimo tentativo (la creazione dell’IMI) di dare sollievo a un mercato dei capitali bloccato non raggiunse gli esiti sperati, fu inevitabile procedere d’autorità alla rescissione del nodo gordiano. La soluzione – innovativa e originale – fu l’IRI, ovvero lo strumento con il quale lo Stato rimediava, una volta di più, ai fallimenti del mercato: esso implicava la sostituzione dello Stato alla banca mista nell’intermediazione finanziaria. Doveva essere una sostituzione temporanea ma divenne permanente, a causa della scarsa disponibilità di capitali e imprenditori privati a cui retrocedere le attività, una volta risanate. Così, lo Stato si trasformò nel più grande imprenditore del paese, arrivando a controllare alla vigilia della guerra più del 40% del capitale azionario delle società italiane, con una posizione dominante nell’industria siderurgica e degli armamenti, nella cantieristica, nella meccanica, nella banca, nella navigazione e così via. L’Italia, allora, divenne «seconda soltanto all’Unione Sovietica in quanto a dimensione delle sue attività statali».8

Anche l’organizzazione della nuova istituzione fu innovativa: essa assunse la forma di una superholding, al di sotto della quale stavano holding finanziarie (Finsider, Finmare, STET) che a loro volta controllavano diverse compagnie operative. Era un ente di diritto pubblico, interamente posseduto dallo Stato, ma con margini di autonomia giuridica e finanziaria: le compagnie operative erano invece società per azioni di diritto privato. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale il capitalismo privato italiano non sembrava in grado «di assicurare un adeguato supporto finanziario né sufficienti risorse imprenditoriali »,9 come Donato Menichella non aveva mancato di sottolineare agli esponenti della Commissione di controllo alleata già nel 1944, e come era stato ribadito dalla stessa Confindustria in seno alla Commissione economica dell’Assemblea costituente.10 Fu quasi giocoforza che lo Stato allargasse il suo controllo sull’economia e la produzione attraverso quello che in breve sarebbe divenuto un organizzato sistema di partecipazioni statali.

Oltre all’IRI, potenziato con nuove sub-holding (Finmeccanica e Finelettrica), un secondo pilastro del sistema delle partecipazioni statali sarebbe divenuto l’ENI, l’ente per l’energia costituito sul modello dell’IRI, nel quale sarebbero confluiti nel 1953 AGIP, SNAM, e SAIPEM. L’ENI fu fortemente voluto da Enrico Mattei. Questi, in qualità di commissario straordinario del CNL all’AGIP, pare fosse stato incaricato di liquidare l’agenzia petrolifera, come richiesto da un largo schieramento di forze politiche ed economiche, su pressione delle majors petrolifere che speravano in tal modo di rompere il monopolio dell’esplorazione e dell’estrazione riservato alla compagnia di Stato.11 Ma Mattei, colpito dalle capacità tecniche del management dell’impresa e dalle aspettative (poi parzialmente deluse) intorno ai giacimenti della Pianura padana, si impegnò nel rilancio dell’azienda: questa in pochi anni si trasformò in una impresa dinamica e aggressiva, in grado di reggere la concorrenza delle “sette sorelle” grazie a strategie innovative tanto negli accordi con i paesi produttori di grezzo, quanto nella politica dei prezzi e delle tariffe sul mercato interno. Al momento della scomparsa di Mattei, nel 1963, l’ENI era un gruppo fortemente integrato e coeso, che manteneva un sufficiente grado di autonomia verso il mondo esterno (partiti politici e lobby economiche): non solo, grazie alla personalità del suo fondatore, l’ente era stato in grado di imporre al sistema politico la propria visione e la propria strategia e persino di creare aree di consenso e di supporto all’interno dei partiti politici. In ambito IRI, un altro tecnico di rilievo e grande imprenditore pubblico, Oscar Sinigaglia, contribuì a portare il settore siderurgico del paese in pochi anni al sesto posto nella produzione mondiale di acciaio e a garantire una costante disponibilità di semimanufatti per l’industria automobilistica, allora in rapidissima espansione. L’originale, e forse irripetibile, combinazione di pubblico e privato che allora si realizzò – acciaio pubblico, benzina a buon mercato, una dorsale autostradale realizzata in un tempo inimmaginabile per gli standard odierni, motorizzazione di massa – diedero un contributo straordinario al miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta.12

ENI e IRI divennero così due importanti agenti della politica economica del paese, che operavano in relativa autonomia, coniugando obiettivi economici e fini sociali (come espressamente contemplato nei loro statuti), con particolare riguardo alle questioni dell’occupazione e della crescita al Sud. Il che significava, però, che il profitto non era l’unica e principale missione dei due enti e che si rendevano necessarie misure straordinarie di finanziamento – i fondi di dotazione – per controbilanciare gli oneri impropri che ne potevano derivare.13 Come è facile intuire, da ciò sarebbe venuto negli anni a seguire un progressivo aggravio per lo Stato (soprattutto quando scopi politici ed elettorali si sovrapposero a quelli sociali ed economici), che avrebbe contribuito in buona misura alla successiva esplosione del debito pubblico. Secondo diversi analisti, la degenerazione del sistema sarebbe iniziata con il nuovo ministero delle Partecipazioni statali, costituito nel 1956 con l’obbiettivo di riportare sotto il diretto controllo dello Stato e di riorganizzare gli enti di gestione – IRI, ENI, e più tardi EGAM (miniere), EACG (cinema) ed EAGAT (stabilimenti termali).14 In effetti il nuovo ministero introduceva un ulteriore e più elevato livello di controllo politico sul sistema: ciò peraltro andava incontro alle aspettative dell’opinione pubblica e dei partiti. In ogni caso ci vollero alcuni anni per trasformare le partecipazioni statali in un oliato meccanismo atto a produrre consenso politico.

Gli anni Sessanta e Settanta furono anni di continua espansione dell’apparato dell’impresa pubblica del paese: particolare enfasi veniva posta sulla sua funzione anticiclica e sullo sforzo di difendere l’occupazione, soprattutto al Sud; ciò portò ad altre iniziative pubbliche nel campo dell’acciaio e dell’automobile, non sufficientemente motivate sul piano economico. Anche l’ENI incominciò a espandersi al di fuori del suo core business, nei tes- sili e nella chimica, iniziativa che sarebbe sfociata poi nella guerra per il controllo della Montedison. Venne costituito inoltre un nuovo ente di gestione, l’EFIM, allo scopo di organizzare le industrie meccaniche, dell’alluminio e del vetro possedute dallo Stato. Senza dubbio, però, l’iniziativa più importante fu la nazionalizzazione dell’industria elettrica (1962). L’ENEL fu la prima nazionalizzazione programmata dopo il remoto passaggio delle ferrovie alla mano pubblica, motivata da ragioni differenti da quelle delle altre imprese pubbliche: fu più una decisione “politica”, supportata dai classici argomenti che i profitti di uno dei più tipici servizi pubblici non dovevano rimanere nelle mani dei privati e che era tecnicamente necessario esercitare il pieno controllo, onde incrementare l’offerta interna e, al contempo, offrire al pubblico il miglior servizio possibile.

Proprio mentre si avvicinava al suo acme, tuttavia, l’apparato delle partecipazioni statali cominciò a mostrare la sua intrinseca fragilità. Se negli anni Cinquanta, la relazione tra holding pubbliche e sistema politico era stata di carattere cooperativo piuttosto che gerarchico, con il rarefarsi delle condizioni che sottostavano alla sua efficienza il sistema gradualmente si indebolì e la confluenza di interessi e l’unità di intenti fra imprese pubbliche e sistema politico cominciarono a incrinarsi. Era la conseguenza, soprattutto, di importanti modificazioni del quadro politico: la formazione di una coalizione di centrosinistra al governo del paese significò infatti anche l’ingresso di nuovi partiti – e quindi di nuovi interessi – nell’amministrazione delle imprese pubbliche.

I tardi anni Settanta e gli anni Ottanta scandirono la crisi dell’impresa pubblica. La recessione seguita allo shock petrolifero e la crescente conflittualità sociale ebbero conseguenze drammatiche sul sistema delle imprese italiane e, nello specifico, sulle partecipazioni statali. In più, le condizioni economiche e finanziarie delle aziende pubbliche peggiorarono decisamente a seguito della caduta dell’autofinanziamento e del crescente indebitamento. Il sistema rimase così in balia delle istituzioni politiche, che in quanto uniche azioniste esercitavano il loro potere attraverso il meccanismo dei fondi di dotazione in un sistema gerarchico in cui i partiti, piuttosto che la comunità dei cittadini, agivano come principale dell’agente azien- de pubbliche (e del rispettivo management). Al tempo stesso corruzione e pratiche illegali penetravano nei gangli del sistema.15

Quando anche qualche tentativo di riformare il sistema fallì, si iniziò a tagliare i rami morti: nel 1978 venne smantellato l’EGAM, una voragine finanziaria, poco dopo l’ENI si liberava delle sue partecipazioni nel settore tessile e l’IRI vendeva l’Alfa Romeo alla FIAT; nel 1988 la Finsider di fatto fallì. Era già iniziato dunque uno strisciante processo di privatizzazione, che, intensificatosi negli anni Novanta, sarebbe poi culminato nel giugno del 2000 con la messa in liquidazione dell’IRI.

Non è certo semplice avanzare un giudizio definitivo sull’intera parabola dell’impresa pubblica in Italia. Inoltre, forse, una tale valutazione non avrebbe del tutto senso, dato che scelte maturate in determinate condizioni storico-ambientali trovano giustificazione soltanto se adeguatamente contestualizzate e non possono essere rifiutate, quindi, sulla base semplicemente dei mutamenti del clima culturale e dell’atteggiamento politico-ideologico. Nel complesso l’esperienza è stata connotata da luci e ombre: certo nell’ultima fase le seconde hanno finito col prevalere. Ma la pur critica congiuntura finale non può far dimenticare le ragioni forse più importanti che, nel passato, avevano condotto all’edificazione del sistema delle partecipazioni statali, nonché al ruolo da queste giocato in alcune fasi critiche della storia del paese. In Italia le ragioni politiche e ideologiche, al di là della propaganda contingente, sembrano essere state meno importanti, che non, ad esempio, in Inghilterra o in Francia. Piuttosto, nella fase cruciale del processo di convergenza del nostro paese verso il livello di crescita già raggiunto dai first comer, lo Stato è stato chiamato a più riprese a porre rimedio a deficienze strutturali, quali ristrettezza del mercato interno, scarsità di capitali, mancanza di infrastrutture e ancor debole iniziativa privata. L’intervento pubblico si è rivelato ancor più decisivo nelle non infrequenti circostanze in cui il capitalismo privato si è dimostrato incapace di competere su mercati concorrenziali: infatti la parte più consistente delle imprese pubbliche ha tratto origine da operazioni di salvataggio coordinate dallo Stato. Da ultimo, non va sottovalutato il contributo che gli enti pubblici seppero offrire nel dopoguerra alla creazione di moderne strutture manageriali, alla formazione del capitale umano, alla razionalizzazione delle relazioni industriali: basti pensare al ruolo di tramite nella diffusione delle pratiche gestionali e organizzative di matrice americana svolto dall’IRI, o all’attività della controllata IFAP nell’apertura e gestione di centri di addestramento e formazione per operai specializzati, tecnici e quadri direttivi, o, ancora, ai sistemi di contrattazione articolata e di precoce job evaluation introdotti alla Finsider.

È giusto chiedersi, peraltro, se non sarebbe stato meglio lasciare l’iniziativa privata al suo destino. La risposta non è semplice e implicherebbe una troppo sofisticata, forse impossibile, analisi controfattuale. Ma la sensazione di chi scrive è che, se ciò fosse successo, l’intera economia, almeno nel caso dell’IRI, avrebbe sofferto di una crisi ben più grave e duratura di quanto effettivamente sperimentato. Certamente un giudizio più negativo meritano le operazioni di salvataggio degli anni Sessanta e Settanta, che aggravarono pesantemente il bilancio dello Stato: ma a quel punto le scelte rivestivano ormai anche un carattere politico, spesso suggerite da opportunità elettorali o da pressioni lobbistiche; molte di esse, per di più, riguardavano il Sud, maggiormente afflitto dalla piaga della disoccupazione e del sottosviluppo.

[1] Cfr. P. A. Toninelli (a cura di), The Rise and Fall of State-Owned Enterprise in the Western World, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

[2] J. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia, Einaudi, Torino 2004.

[3] A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, Torino 1965.

[4] E. Cianci, La nascita dello Stato imprenditore in Italia, Mursia, Milano 1977.

[5] Spesso detta anche banca universale, cioè non specializzata, che raccoglie depositi e investe a breve, medio e lungo termine ed è perciò spesso caratterizzata da stretti rapporti con le imprese industriali, con il rischio di eccessivi immobilizzi, come appunto nell’Italia di fine anni Venti.

[6] I cosiddetti “istituti Beneduce”, il cui capitale era posseduto da organismi pubblici quali la Banca d’Italia, l’INA ecc. e che si finanziavano attraverso la vendita di obbligazioni. Cfr. S. Cassese (a cura di), L’amministrazione centrale, UTET, Torino 1984.

[7] Come del resto notava nel dopoguerra il gruppo di consulenza ministeriale dello Stanford Research Institute: «Nonostante l’ampiezza dell’intervento statale in attività tipicamente private, tale intervento non è stato il risultato di una programmazione a lungo termine o di piani deliberati di nazionalizzazione, ma è stato provocato da situazioni contingenti, la prima delle quali, in ordine di importanza, fu determinata dalla crisi economica del 1929».

[8] F. Amatori, Beyond State and Market. Italy’s Futile Search for a Third Way, in Toninelli, The Rise and Fall cit., p. 128.

[9] F. Bonelli, The Origins of Public Corporation in Italy, in “Annali di storia dell’impresa 3”, 1987, p. 207.

[10] Cfr. F. Barca, S. Trento, La parabola delle partecipazioni statali: una missione tradita, in F. Barca, Storia del capitalismo italiano, Donzelli, Roma 1997, pp. 190-2.

[11] Per una recente puntualizzazione cfr. D. Pozzi, Mattei e la “vecchia” Agip: tra ipotesi di continuità e rilancio strategico (1945-1948), in “Imprese e storia”, 27/2003.

[12] M. Balconi, La siderurgia in Italia 1945-1990. Tra controllo pubblico e incentivi di mercato, Il Mulino, Bologna 1991; G. Osti, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado, Il Mulino, Bologna 1991.

[13] P. Saraceno, Il sistema delle imprese a partecipazione statale nell’esperienza italiana, Giuffrè Editore, Milano 1975.

[14] Cfr. ad esempio M. V. Poster, S. J. Woolf, Italian Public Enterprise, G. Duckworth & Co, Londra 1967; G. Sapelli, L. Orsenigo, P. A. Toninelli, C. Corduas, Nascita e trasformazione d’impresa. Storia dell’AGIP Petroli, Il Mulino, Bologna 1993; Barca, Trento, La parabola delle partecipazioni statali cit.; Amatori, Beyond State and Market cit.

[15] Per una discussione più approfondita cfr. M. Balconi, L. Orsenigo, P. A. Toninelli, Tra gerarchie politiche e mercati: il caso delle imprese pubbliche in Italia (acciaio e petrolio), in M. Magatti (a cura di), Potere, mercati, gerarchie, Il Mulino, Bologna 1995.