Migrazioni e disuguaglianze: un intreccio complesso

Di Massimo Livi Bacci Giovedì 09 Ottobre 2008 18:16 Stampa
Dal punto di vista degli effetti sul fenomeno migratorio, la seconda globalizzazione – quella dell’ultimo mezzo se­colo – ha avuto caratteristiche molto differenti da quella di un secolo prima. Essa ha infatti operato per contene­re l’interscambio del fattore produttivo lavoro, ponendo barriere alla mobilità migratoria. La seconda globalizza­zione, inoltre, non ha contribuito ad avvicinare gli stan­dard di vita dei paesi coinvolti, e quindi non ha agito, co­me era avvenuto con la prima globalizzazione, da stru­mento di lotta alla povertà di massa.

In un fortunato saggio, John Kenneth Galbraith scrisse che le migrazioni erano state, nella storia, lo strumento più vigoroso ed efficiente a disposizione dell’umanità per uscire dalla povertà.1 Le migrazioni – a differenza delle politiche antipovertà messe in atto dai governi – non costano nulla ai governi e alla collettività, e rappresentano un gioco a somma positiva. Un guadagno per i migranti stessi, in primo luogo, che migliorano il proprio livello di vita, ma anche per il paese ospitante, che beneficia dell’apporto delle energie e del lavoro dei migranti – quasi sempre selezionati – spinti dal desiderio di migliorare le condizioni di vita proprie e dei loro familiari. E, infine, per i paesi di origine, sollevati del peso del surplus di manodopera. Questa visione ottimistica dei fenomeni migratori trova soddisfacente conferma (se consideriamo il lungo periodo) nelle grandi trasmigrazioni europee verificatesi dalla metà dell’Ottocento al secondo decennio del Novecento, quando decine di milioni di migranti si trasferirono in America e in altri continenti. Secondo i dettami dell’economia classica, l’Europa, ricca della risorsa lavoro e povera del capitale terra, migrava verso l’America, ricca di terra e povera di manodopera, con effetti positivi generali legati all’avvicinarsi delle condizioni di vita dei due continenti.

Fu un periodo storico durante il quale il processo di internazionalizzazione dell’economia mondiale si svolse secondo le tre direttrici classiche: mobilità dei capitali, mobilità della manodopera e mobilità delle merci. Mentre le disuguaglianze tra i paesi coinvolti nei processi migratori furono compresse, altrettanto probabilmente non avvenne – almeno nelle prime fasi – per le disuguaglianze tra individui all’interno dei paesi. In Nord America, gli irlandesi, gli italiani, i migranti provenienti dagli altri paesi mediterranei o dall’Europa orientale, costituirono, per lungo tempo, collettività poste ai livelli più bassi delle gerarchie economiche e sociali, alimentando – si direbbe oggi – sacche di nuove povertà e di esclusione sociale. Ma ciò riguardò – soprattutto – le prime generazioni di immigrati, poiché le disuguaglianze svanirono rapidamente col passare del tempo e con l’ingresso nella vita attiva delle seconde generazioni. Ci sono indizi che processi simili avvenissero anche in altri grandi paesi mete dell’immigrazione europea, come fu – ad esempio – per i primi contingenti di italiani in Brasile, attratti dal boom del caffé ma intrappolati in condizioni di vita subalterne. Con l’occhio al lungo periodo e alle grandi tendenze – e quindi prescindendo dalla grande variabilità dei casi specifici – potremmo dire che nell’epoca della quale parliamo le grandi migrazioni, effettivamente, furono uno strumento efficace di lotta alla povertà di massa, avvicinarono gli standard di vita dei paesi coinvolti, crearono nuove povertà che però non furono fenomeno strutturale e duraturo. Sotto il profilo economico, gli immigrati furono protagonisti e componente essenziale della crescita nei paesi di arrivo. Sotto quello sociale e istituzionale, l’immigrazione venne stimolata e generalmente bene accolta, ebbe accesso al capitale terra (ceduta gratuitamente negli Stati Uniti, in Brasile, in Argentina) e venne giuridicamente metabolizzata con l’agevole conseguimento della cittadinanza. Le discriminazioni sicuramente ci furono, ma nell’ambito di contesti sociali percorsi da profondissime fratture. Non va dimenticato, infatti, che l’immigrazione europea di massa cominciò ad affluire negli Stati Uniti o in Brasile quando ancora, in quei paesi, esisteva la schiavitù. La seconda grande globalizzazione – quella dell’ultimo mezzo secolo – ha avuto caratteristiche assai diverse da quella di cento anni prima: non solo perché ha investito i cinque continenti, per l’alta e crescente mobilità di merci, servizi, capitali, e per l’emergere di nuovi grandi protagonisti non occidentali, ma anche perché ha operato per contene- re l’interscambio del fattore produttivo lavoro ponendo barriere alla mobilità migratoria. Se ne ha una prova guardando alla graduale azione internazionale – sorretta da forti spinte politiche – volta ad abbassare le barriere agli scambi internazionali fino alla creazione di una potente istituzione internazionale come l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Non esiste – perché nessuno la vuole – un’organizzazione di simile natura volta, se non ad abbassare (né tanto meno ad annullare) le barriere alle migrazioni, almeno a regolarle, armonizzarle, coordinarle. Le politiche migratorie restano politiche nazionali e la cooperazione internazionale è volta, al massimo, alla “difesa” di aree regionali (per esempio, la UE a 27) dai flussi irregolari. Sotto questo profilo, potremmo dire che la seconda globalizzazione, al contrario della prima, non è stata un efficiente meccanismo di lotta alla povertà. Quanto qui si dice, può sembrare paradossale, in un mondo che si percepisce sul punto di essere travolto dai movimenti migratori e in un paese, come l’Italia, oggi ai primi posti (tra le economie avanzate) come destinazione dei flussi internazionali. Eppure – sempre guardando al lungo periodo e osservando i fenomeni su scala mondiale (perché tale è la scala dei processi di internazionalizzazione) – le cose stanno così. E ciò nonostante il fatto che i due fattori classici che “muovono” le migrazioni si siano rafforzati: è aumentato infatti il differenziale di reddito tra paesi ricchi e paesi poveri e quindi si è (in teoria) caricata la molla della convenienza economica; è aumentato anche il divario demografico tra mondo povero e mondo ricco (per quanto attiene alle fasce giovani in cerca di lavoro) accrescendosi così il numero degli aspiranti alla migrazione. Nonostante queste forti condizioni di spinta – e nonostante i costi diretti della migrazione si siano fortemente compressi – i flussi migratori mondiali non sono cresciuti.

Queste affermazioni vanno sostenute con qualche sintetica prova numerica. Si considerino le disuguaglianze economiche: nel 1960, il reddito pro capite dei paesi ricchi (espresso in dollari al valore del 1990, a parità di potere d’acquisto) era di 5.000-6.000 dollari più alto che in Asia, Africa o America Latina, ma all’inizio del terzo millennio il divario risulta triplicato.2 Sono anche fortemente aumentati i divari all’interno dei tre continenti, poiché l’attuale processo di globalizzazione sta produ- cendo profonde fratture tra paesi che agganciano il treno della crescita e paesi che ne restano esclusi, creando potenziali incentivi alle migrazioni “interne” al Sud del mondo. Si consideri ora il divario demografico: nonostante la netta diminuzione della natalità negli ultimi decenni, la popolazione in età attiva (e particolarmente quella in fascia giovane) cresce rapidamente nel mondo povero, mentre declina (se non alimentata dall’immigrazione) in quello ricco. Tra il 2005 e il 2025 la popolazione tra i 20 e i 60 anni aumenterà del 40% nel Sud del mondo e declinerà di oltre il 10% nel Nord; l’aumento sarà addirittura del 60-70% nell’Africa subsahariana, mentre il declino sarà del 30% o più in grandi paesi come il Giappone, la Germania, l’Italia o la Spagna. Al formarsi e al progressivo ampliarsi del divario demografico ed economico non è corrisposto un travolgente aumento delle migrazioni mondiali. Le Nazioni Unite calcolano periodicamente lo stock migratorio, cioè il numero di persone che vivono in un paese ma sono native di un altro paese e hanno quindi compiuto almeno un percorso migratorio nella loro vita (dal paese di nascita a quello di effettiva dimora). Nel mondo, questo stock è passato da 73 milioni nel 1960 a 164 milioni nel 2005: un aumento considerevole, ma all’incirca pari a quello della popolazione mondiale, cosicché, se espresso per ogni 100 abitanti, il numero dei migranti è rimasto costante a 2,5.3 Questa stazionarietà, però, è la combinazione di un forte aumento nel mondo ricco (da 4 a 9 per 100) e di una diminuzione in quello povero (da 2,1 a 1,3 per 100) nel (quasi) mezzo secolo considerato. La seconda globalizzazione non ha portato con sé quel travolgente aumento delle migrazioni che sarebbe stato logico attendersi, anche se i flussi verso il mondo ricco sono aumentati significativamente, soprattutto a partire dalla fine degli anni Ottanta. Un aumento dovuto al frantumarsi del blocco sovietico, ma anche alla depressione demografica creatasi in molti paesi sviluppati. Si può dire, in generale, che le politiche immigratorie dei paesi avanzati si sono fatte più rigide e selettive, che la delocalizzazione produttiva ha permesso di mantenere buoni ritmi di crescita pur in assenza di una forte offerta di lavoro, che l’orientamento verso attività ad alto contenuto tecnologico ha depresso i settori produttivi tradizionali a forte intensità di lavoro. Nonostante l’azione di queste forze, oltre 90 milioni di persone con una storia di migrazione internazionale alle spalle (lo stock migratorio) vivono nei paesi ricchi d’Europa e dell’America del Nord; ci sono anche le condizioni perché sia lo stock, sia i flussi migratori, si rafforzino ulteriormente. È in questo contesto che occorre rispondere all’interrogativo se le migrazioni siano fonte di disuguaglianza e di nuove povertà.

La risposta va circoscritta, riferendoci al solo contesto dei paesi di immigrazione. Perché, molto all’ingrosso, è valida anche per oggi la conclusione di Galbraith, ricordata all’inizio, che le migrazioni sono un potente strumento per uscire dalla povertà. Secondo ogni criterio e misura, le collettività immigrate in America o in Europa – anche per quella componente che si trovasse al di sotto delle soglie di povertà definite dai criteri propri dei paesi che le ospitano – hanno livelli di vita ben superiori a quelli dei paesi di origine. Se dunque si facessero valutazioni che prescindessero dai confini nazionali e ci si basasse su misure di povertà “assoluta” (cioè grado di deprivazione dell’essenziale) e non “relativa” (livello di vita nei confronti di uno standard medio di riferimento) potremmo ben dire che le migrazioni contemporanee riducono il numero dei poveri. Ovvero, rispetto al paese di origine, gli immigrati hanno più salute, migliore nutrizione, maggiore accesso ai servizi essenziali, consumi più alti e via elencando.

Ma dal punto di vista dei paesi d’immigrazione il discorso è diverso: in che misura questa cambia il profilo della distribuzione della ricchezza, del reddito e del benessere? Quali “nuove povertà” si associano all’immigrazione? L’immigrazione rende un paese più disuguale? Come sarebbe l’Italia di oggi, con 56 milioni di abitanti invece di 60 ma senza lo stock di 4 milioni di immigrati? Quali le “nuove” povertà legate all’immigrazione e quali le ulteriori “vecchie” povertà che l’assenza di migrazione (e il minore sviluppo) avrebbero creato? Come si vede, un insieme di incognite assai intricato e difficile da sbrogliare, anche perché gli strumenti analitici sono assai spuntati, non foss’altro per la carenza di dati attendibili. L’immigrazione è ancora un fenomeno mal conosciuto, le indagini sui redditi e sui consumi – che sono la base per le analisi delle disuguaglianze e della povertà – sono basati su campioni nei quali gli immigrati non sono adeguatamente rappresentati. Nonostante le difficoltà, alcune considerazioni possono essere fatte. Anzitutto una componente dell’universo migratorio che è sicuramente a rischio di povertà e di esclusione sociale – anzi è per sua natura stessa “esclusa” – è costituita dagli irregolari. Negli Stati Uniti – che ebbero la loro ultima sanatoria nel 1986 – gli irregolari ammontano a 12-13 milioni, una buona metà dei quali vive in quel paese da più di un decennio. Le politiche locali tendono sempre più a restringere le maglie entro le quali questi irregolari possono operare, privandoli di alcune elementari prerogative (per esempio, assistenza medica, istruzione, patente di guida), rendendo loro più difficile lavoro e vita quotidiana, e aumentandone la fragilità e il rischio di povertà. L’Europa (UE a 27), con una popolazione pari ad una volta e mezzo quella degli Stati Uniti, ha un numero di irregolari pari (forse) alla metà (anche perché in molti paesi – tra i quali Italia e Spagna – le sanatorie sono state frequenti). Ma anche in Europa, salari, condizioni abitative, indicatori di salute (emergenza di patologie scomparse, come la tubercolosi), condizioni di lavoro e incidenti connessi, indicatori di devianza configurano situazioni di particolare rischio per questo particolare sottoinsieme dei migranti. L’Italia, che degli irregolari europei ha una quota maggiore del suo peso demografico, non sfugge a questa situazione – anche se un’alta quota degli irregolari (le donne che lavorano in famiglia) è relativamente protetta dai rischi di povertà.

I rischi sopra tratteggiati per gli irregolari valgono anche – seppure in minor misura – per i migranti “legittimi”. Per questi i rischi di esclusione tendono a diminuire con l’allungarsi del soggiorno, man mano che si impara la lingua, man mano che il differenziale salariale rispetto ai nativi si restringe, man mano che avviene il radicamento. Può ritenersi che le politiche migratorie che puntano ad utilizzare lavoro migrante ad alta rotazione (modello del lavoratore-ospite destinato al rientro alla scadenza del contratto) creino – per ciascuno di essi – uno status che è più di esclusione sociale (l’immigrato è solo, senza familiari, non è stimolato ad apprendere la lingua, ha meno occasioni di socializzazione) che di povertà economica (l’immigrato ha un lavoro e un reddito). All’altro estremo, le politiche che puntano al radicamento degli immigrati, che favoriscono i ricongiungimenti familiari e che investono sull’integrazione minimizzano l’esclusione sociale, ma non proteggono dai rischi di povertà che dipendono dalle vicende familiari, dal ciclo economico, dal mercato del lavoro.

Nel lungo periodo è poi cruciale la sorte delle generazioni di immigrati successive alla prima. È il loro grado di successo e di integrazione che testimonia del successo o dell’insuccesso dell’immigrazione. Nell’esperienza americana, con le seconde e le terze generazioni si è prodotta una convergenza con gli standard di vita delle generazioni autoctone da lunga data. Per gli asiatici, i livelli della seconda generazione sono più elevati – per molti aspetti – di quelli dei concittadini americani da più generazioni; per gli ispanici i livelli sono invece più bassi. L’esperienza europea è diversa e le seconde generazioni di immigrati da paesi non europei appaiono in ritardo rispetto ai coetanei autoctoni. Nel caso italiano – oramai (2007) un neonato su nove è figlio di una coppia di stranieri e la proporzione è in ascesa – c’è un sensibile ritardo scolastico nelle seconde generazioni (più abbandoni, meno promossi, minore rendimento). Se gli adolescenti di origine straniera sono portatori di gravi ritardi nella formazione e nelle competenze, questi ne condizioneranno, successivamente, il lavoro, il benessere e la mobilità sociale. La politica può far molto: per esempio può attuare quella proposta, rimasta allo stato di progetto, di legare la nazionalità al luogo di nascita piuttosto che alla nazionalità dei genitori (passando dallo jus sanguinis allo jus soli). Ciò implicherebbe, per gran parte dei nuovi adolescenti, un mutamento di status importante (da straniero a cittadino) che pur non spostando granché nelle condizioni sociali ed economiche è un primo passo importante per evitare che i discendenti di immigrati vengano mantenuti in una condizione di subalternità giuridica e che le nuove generazioni si avviino all’età adulta separati da forti barriere. Un passo importante, anche se non decisivo, per evitare che povertà ed esclusione dei migranti divengano un fenomeno strutturale.

[1] J. K. Galbraith, The Nature of Mass Poverty, Harvard University Press, Cambridge 1979.

[2] A. Maddison, The World Economy. Historical Statistics, OCSE, Parigi 2003.

[3] Dai dati è stato escluso il territorio dell’URSS: in seguito al suo smembramento, infatti, sono divenuti migranti internazionali (secondo la metodologia delle Nazioni Unite) persone che, antecedentemente, avevano solo cambiato residenza all’interno dell’URSS. Un russo residente in Ucraina, che nel 1985 non era un elemento dello stock migratorio internazionale, lo diventò dieci anni dopo, quando Russia e Ucraina divennero Stati indipendenti. ONU, Trends in Total Migrant Stock. The 2005 Revision, New York 2006.