Il sistema sanitario americano e le promesse della politica

Di Howard Doyle Giovedì 09 Ottobre 2008 18:03 Stampa
Il dibattito sulla riforma del sistema sanitario si sta nuova­mente surriscaldando, alimentato dal riconosciuto falli­mento di un sistema cresciuto in modo spontaneo, più per un caso della storia che per un disegno coerente atto a ri­spondere ai bisogni della popolazione statunitense. L’opi­nione pubblica chiede di agire e i due candidati propon­gono approcci nettamente differenti per risolvere questa crisi cronica. Ci si trova forse, come pensano molti, a un crocevia storico in cui potrebbe essere realizzata finalmen­te un’autentica riforma? Non c’è da scommetterci.

Come una cometa, familiare ed effimera, il dibattito sulla riforma del sistema sanitario sta di nuovo attraversando gli Stati Uniti, in tempo per le elezioni presidenziali di quest’anno. Queste visite si ripropongono fin dagli albori del Ventesimo secolo, quando l’Associazione americana per la legislazione sul lavoro lanciò per la prima volta una campagna per l’istituzione dell’assicurazione sanitaria nel quadro di un più ampio programma di assistenza sociale.

Quel tentativo venne fortemente osteggiato dall’Associazione medica americana (che lo percepiva come una minaccia all’autonomia dei medici) e dalla Federazione americana del lavoro (preoccupata che un sistema assicurativo a livello federale avrebbe indebolito il sindacato). L’entrata in guerra degli Stati Uniti, con il conseguente sviluppo dei sentimenti antitedeschi, fu il colpo di grazia e decretò politicamente la fine dell’assicurazione sociale, una creazione di Bismark.

I cicli ricorrenti della storia americana riportano in auge questo problema ogni dieci, quindici anni. Fu argomento di dibattito durante la Grande depressione, ma Franklin Roosevelt ritenne di non avere l’appoggio politico sufficiente per sostenere sia un progetto pensionistico sia un’assicurazione sanitaria. Truman si appellò al Congresso per un piano nazionale di assicurazione sanitaria, ma la guerra fredda non era certo il periodo migliore per propugnare la creazione di una medicina “socializzata”; invece il sistema assicurativo legato al posto di lavoro si è sviluppato fino a diventare quello oggi conosciuto.

Medicare (l’assicurazione sanitaria per coloro i quali hanno superato i sessantacinque anni) e Medicaid (quella per gli indigenti) sono nate nel contesto della cosiddetta Great Society di Lyndon Johnson. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, però, la discussione non si concentrò sull’allargamento dei servizi, ma sul contenimento delle spese fuori controllo, e condusse all’espansione del Managed Care e all’adozione di un approccio orientato al mercato. Il secolo si è chiuso come era iniziato, con un tentativo di riforma fallito, grazie alla sconfitta del piano oltremodo ambizioso e contorto dell’amministrazione Clinton per riorganizzare quella sorta di macchina di Rube Goldberg1 che è il sistema sanitario americano. Si è oggi in un nuovo secolo, ma gli Stati Uniti sono pur sempre impegnati in una vecchia discussione. Secondo la maggior parte degli osservatori, il sistema sanitario americano è in grave sfacelo. La spesa pro capite per la sanità negli Stati Uniti è la più alta al mondo, eppure il paese resta indietro in alcuni dei parametri più importanti. L’aspettativa di vita alla nascita è di 78 anni, e colloca gli Stati Uniti al trentunesimo posto nella classifica mondiale. Gli italiani vivono più a lungo, pur spendendo il 60% a testa in meno, e così pure i francesi, che arrivano alla metà della spesa pro capite americana. I tassi di mortalità infantile, al 7 per mille, e di mortalità in gravidanza, di 11 donne ogni 100.000, sono i più alti del mondo industrializzato. Vi è poi il tema della “mortalità riducibile”, ossia di quei decessi che potrebbero non aver luogo se fosse disponibile una terapia tempestiva ed efficace. Nei diciannove paesi industrializzati membri dell’OCSE osservati in uno studio di Ellen Nolte e C. Martin McKee,2 che include anche gli Stati Uniti, il 23% dei decessi tra gli individui di sesso maschile al di sotto dei 75 anni è ritenuto prevenibile, così come il 32% dei decessi tra le donne. Tuttavia, mentre per l’insieme di questo gruppo di nazioni la mortalità prevenibile è scesa del 16% nel periodo che va dal 1997-98 al 2002-03, negli USA è scesa solo del 4%. Se gli USA fossero in grado di raggiungere i ri- sultati dei paesi in cima alla classifica dell’OCSE, si avrebbero negli Stati Uniti 101.000 morti in meno all’anno.

È un quadro davvero molto deprimente, ma non è questo che sta orientando l’interesse dell’opinione pubblica rispetto alla riforma del sistema sanitario. E la gente è interessata sul serio. In un sondaggio realizzato nel gennaio 2007, l’84% degli intervistati dichiarò di considerare per se stessi il sistema sanitario “molto importante” o “estremamente importante”; l’81% diede la stessa risposta sulla guerra in Iraq. E quando si dice che si è interessati, si intende dire che si vuol vedere un cambiamento: il 36% dell’elettorato rispose che il sistema avrebbe dovuto essere “radicalmente cambiato”, il che rappresenta circa tre volte il numero di quanti preferirebbero lasciarlo com’è. Il dato è impressionante, se consideriamo che il 70% degli intervistati considerava il sistema sanitario adeguato alle proprie necessità, un sentire a volte difficile da conciliare con il fatto che 47 milioni di statunitensi non hanno un’assicurazione sanitaria, mentre altri 100 milioni avrebbero, secondo le stime, un’assicurazione insufficiente.

La ragione sembra stare nel fatto che l’insicurezza economica viene sempre più espressa attraverso inquietudini legate al sistema sanitario. “L’accesso a una sanità alla portata di tutti” rappresenta oggi una preoccupazione molto più pressante di quella sui risparmi per la pensione o del prezzo dei carburanti; un fatto abbastanza comprensibile in un paese dove la metà delle dichiarazione di fallimento individuali sono in parte causate da spese mediche, e dove il 75% di questi fallimenti riguarda persone in possesso di un’assicurazione sanitaria. A ciò si aggiunga il fatto che, a questo punto, la maggioranza (55%) degli americani pensa che il governo dovrebbe svolgere un ruolo più attivo nel cercare di soddisfare i bisogni della popolazione – un’ironica, sebbene prevedibile, eredità di Bush – e si capisce bene perché molti si sentano ottimisti sulla possibilità di una riforma significativa. Ma è ciò che offrono i candidati presidenziali?

Obama propone la creazione di un programma nazionale di assicurazione sanitaria che copra i non assicurati. Esso garantirebbe l’idoneità anche in assenza di malattie preesistenti, fornirebbe un pacchetto completo di servizi (simile a quello offer- to ai dipendenti federali) e godrebbe di sovvenzioni per chi ha un basso reddito. Ai datori di lavoro, tranne quelli delle piccole imprese, verrebbe richiesto di provvedere alla copertura sanitaria o, in alternativa, di versare a tale scopo al governo una percentuale dell’ammontare delle retribuzioni. La parte più controversa del piano prevede la creazione una Borsa nazionale dell’assicurazione sanitaria, un mercato regolamentato dove si troverebbero a competere i programmi pubblici o privati di assistenza sanitaria.

Il programma avrebbe il mandato di garantire la copertura ai bambini, ma gli adulti non sarebbero obbligati ad acquistare un’assicurazione. Da un punto di vista politico questa soluzione è molto più appetibile, perché gli americani possono anche essere meno tiepidi nei confronti del governo, ma continuano a non amare che qualcuno dica loro cosa devono fare. Ciò significa, comunque, che Obama sta proponendo l’accessibilità universale, non la copertura universale, e la differenza è ben più che semantica. Se l’acquisto di un’assicurazione diventa opzionale, ci sarà un segmento della popolazione che stabilirà che non ne vale la pena: vengono subito in mente gli uomini giovani e sani. Questo rappresenta un problema, perché un sistema assicurativo si basa sulla condivisione dei rischi. Nel caso specifico di un’assicurazione sanitaria, tale rischio condiviso sta nell’assunto che alcuni dei suoi possessori siano sani, controbilanciando così le spese di coloro che hanno bisogno di riceverne i servizi (“sinistri sanitari”, nel gergo assicurativo). Se i sani si rifiutano di contribuire, aumentano i costi per quelli che rimangono. Inoltre, gli individui non assicurati non possono beneficiare dell’assistenza preventiva: chi soffre di ipertensione non diagnosticata continua a inondare di sangue il cervello, e si sente bene fino al momento in cui gli si spegne la luce. Obama sostiene che la maggior parte delle persone deciderà di farsi un’assicurazione se questa sarà meno cara, ma si tratta solo di un pio desiderio. L’anno scorso, dopo aver deciso che non c’era più tempo da perdere, il Massachusetts ha scelto di sviluppare uno schema a copertura universale.

Obama tace su come si dovrà far fronte ai risultati positivi da lui prospettati. Chi dovrà occuparsi dei milioni di nuovi assicurati? La Società medica del Massachusetts riporta che, nel 2007, solo il 42% dei pazienti è stato in grado di ottenere un appuntamento con il proprio medico di base nel giro di una settimana dal giorno della richiesta. Per quanti non avevano ancora un medico di famiglia, il tempo medio di attesa è stato di 52 giorni. La metà dei medici di base addirittura non ha accettato nuovi pazienti. Il Massachusetts potrebbe essere un caso atipico, ma, ciò nonostante, la tendenza nazionale negli Stati Uniti è tale che sempre meno studenti di medicina scelgono come specializzazione la medicina di base. Le ragioni dietro al fenomeno sono complesse e comprendono il modo in cui i medici sono retribuiti. Qualunque serio programma deve tenere in conto il fatto ovvio che un’assicurazione sanitaria diventa simbolica, se manca il personale in grado di fornire il servizio.

Tra gli aspetti che espongono il piano di Obama alle critiche c’è il fatto che esso viene illustrato in un documento di quindici pagine, completato da 65 rimandi. Quello di John McCain, invece, è composto da una serie di punti sul suo sito web, che per maggior parte potrebbero essere meglio definiti obiettivi desiderati. Il piano è introdotto da questa affermazione: «la chiave per la riforma del sistema sanitario è ridare il controllo agli stessi pazienti ». Quest’argomento, il controllo individuale, suona bene alle orecchie degli americani, e troverà un uditorio sensibile. E come propone McCain di ottenere tutto questo? Facendo slittare la responsabilità finanziaria dell’assicurazione sanitaria sul singolo individuo.

Secondo il suo progetto, coloro che possiedono una copertura legata alla propria occupazione potranno scegliere di mantenerla, oppure potranno acquistare un’assicurazione sul mercato; il costo dell’acquisto di un’assicurazione sanitaria personalizzata verrà rimborsato attraverso un credito fiscale: 5.000 dollari nel caso del nucleo familiare o 2.500 nel caso di un singolo contribuente. Chiunque acquisti un’assicurazione sul mercato sarà considerato idoneo al rimborso fiscale. Le compagnie assicurative competerebbero per questo nuovo business, con la conseguente discesa dei prezzi, e le fila dei non assicurati si assottiglierebbero, visto che sempre più gente potrà permettersi di acquistare l’assicurazione (compresi quelli che non ricevono forme di copertura sanitaria dai propri datori di lavoro). Si tratta di una sciocchezza sbalorditiva. Il costo medio per la copertura di un nucleo familiare in un piano sanitario legato al posto di lavoro supera attualmente i 12.000 dollari; il credito fiscale proposto sarebbe dunque largamente insufficiente a coprire le spese. Inoltre, coloro i quali sceglierebbero di mantenere l’assicurazione sanitaria legata al proprio posto di lavoro sarebbero penalizzati, perché McCain applicherebbe la tassazione sui redditi ai vantaggi sanitari forniti dai datori di lavoro. Sia detto per inciso che a Washington l’idea di tassare i benefit sanitari è molto più popolare di quanto non si voglia ammettere, dato che l’esenzione si traduce in una perdita di introiti fiscali pari a 160 milioni di dollari. Inoltre, coloro che aspettano che siano le forze del mercato a far scendere i costi delle assicurazioni sanitarie fino a renderle alla portata di tutti, non hanno fatto attenzione a quello che ha già prodotto la magia del mercato sui costi del sistema sanitario. Come ha evidenziato Paul Krugman, economista di Princeton, gli Stati Uniti hanno «il sistema più privatizzato, con la maggiore competizione di mercato, ma anche il sistema sanitario con i costi di gran lunga più elevati al mondo». Se follia significa reiterare la stessa azione continuamente, ogni volta aspettandosi un risultato diverso, allora questo progetto è davvero un po’ psicotico.

E lo è anche quello di Obama, per certi versi. Quando tocca loro spiegare come intendono sostenere economicamente i rispettivi progetti, i due candidati si assomigliano in modo sospetto. Entrambi vogliono ridurre i costi, tra le altre cose, combinando maggiore efficienza, riduzione delle frodi, competizione di mercato e maggiore ricorso alle tecnologie informatiche. Queste proposte condividono il pregio di essere convenientemente vaghe, indolori e, soprattutto, riciclabili; si sono trasformate in veri mantra.

Ma quanto detto fa davvero qualche differenza? Dato il modo in cui funziona il sistema politico americano, quante sono le probabilità che uno o l’altro di questi progetti venga mai realizzato? Per quanto riguarda il progetto di McCain, sono praticamente inesistenti. Se vincesse le elezioni, McCain si troverà quasi certamente a dover governare con la Camera e il Senato in mani democratiche, almeno per i primi due anni. Anche ipotizzando che a un certo punto, durante l’amministrazione McCain, i repubblicani siano in grado di riconquistare entrambe le camere, le probabilità di una privatizzazione su larga scala del sistema sono insignificanti. Checché ne dicano i sondaggi odierni, agli americani non piacciono i cambiamenti radicali, o almeno non a casa loro, né essi credono in questo messianismo estremista di mercato, come poté constatare George Bush quando tentò di introdurre elementi di privatizzazione nella previdenza sociale all’inizio del suo secondo mandato (quando ancora il suo tasso di gradimento poteva essere osservato senza una lente di ingrandimento). Per quanto riguarda Obama, l’esperienza di Clinton dei primi anni Novanta sta a ricordare che le forze che modellano il dibattito sul sistema sanitario negli Stati Uniti, e soprattutto la potente industria delle assicurazioni, sono in grado di sconfiggere persino un presidente che abbia apparentemente il Congresso dalla sua parte.

In ogni modo, e indipendentemente da chi vincerà a novembre, nel corso della prossima amministrazione ci sarà una qualche sorta di riforma del sistema sanitario; il sistema è semplicemente troppo a pezzi per lasciarlo così com’è. Si può scommettere sul fatto che il sistema di copertura legato all’occupazione rimarrà sostanzialmente intatto, e questo nonostante non siano solo gli ideologi dell’estrema destra a volersene liberare; nella comunità degli affari sono molti coloro a cui piacerebbe essere sollevati dalla responsabilità di dover provvedere alla copertura sanitaria. È diventato di moda sostenere che gli uomini d’affari americani siano svantaggiati sul mercato mondiale a causa dell’esplosione dei costi sanitari. In questo c’è un elemento di verità, ma il sistema americano è finanziato da parecchie fonti, a cominciare dai lavoratori, attraverso salari più bassi; dai consumatori, attraverso prezzi più alti; e dallo Stato, attraverso incentivi fiscali. Il resto è cronaca. Per quanto sia malconcio, il sistema attuale fornisce una copertura a 170 milioni di americani, e non si vuole certo metterlo in pericolo.

La principale incognita riguarda quanto si sia realmente disposti a fare per fornire la copertura ai non assicurati o ai sottoassicurati, e qui il risultato delle elezioni presidenziali farà una grande differenza. Una vittoria di Obama si tradurrebbe con ogni probabilità in un avanzamento in direzione dell’accessibilità universale (la copertura universale non fa parte invece del gioco), con il relativo calo del numero dei non assicurati. Una vittoria di McCain, dall’altro lato, renderebbe molto difficile aumentare l’accessibilità (per non parlare dell’universalità), a meno di non scavalcare il Congresso in un parossismo di leadership. I particolari del progetto definitivo, comunque, saranno stabiliti dai risultati di un dibattito che è solo agli inizi e che coinvolgerà il settore assicurativo, che finora ha mantenuto un profilo relativamente basso. Ma questo atteggiamento cambierà e le compagnie assicurative tenteranno di bloccare ogni iniziativa che prefiguri un’effettiva competizione con un sistema pubblico di assicurazione sanitaria. Aspettiamoci pure un fuoco di sbarramento a livello propagandistico, che punterebbe a comunicare come questo sarebbe il primo passo verso un single-payer system, come quello che hanno quei poveracci dei canadesi.

Al momento della stesura di queste righe, il senatore Ted Kennedy terminava la sua commovente apparizione alla Convention nazionale democratica, parlando con grande energia del suo sogno, da lui sostenuto tutta la vita, di un paese in cui «ogni americano – che sia del Nord, del Sud, dell’Est, dell’Ovest, che sia giovane o vecchio – abbia un sistema sanitario decente e di qualità come diritto fondamentale e non come privilegio». Davvero un’immagine potente, quella dell’“ultimo leone” che passa il testimone, ora che un cancro al cervello sta ponendo fine alla sua vita. Ma è stato anche un momento toccante, poiché ci si rende conto che, come paese, gli Stati Uniti non sono ancora in grado di fare quanto sarebbe necessario per trasformare questo sogno in realtà. Non sono ancora pronti a fornire a ciascuno una copertura sanitaria. Per combattere le compagnie assicurative e creare un sistema molto più efficiente, finanziato da un singolo soggetto. Per lottare contro le industrie farmaceutiche e dare a questo singolo finanziatore l’autorità per negoziare prezzi più bassi per i medicinali. Per affrontare il tema della professione medica e trasformare il sistema di rimborsi basato sulla prestazione in un sistema che metta al centro i risultati e remuneri i medici di base perché conservino i propri pazienti in buona salute. Per sovvenzionare la formazione medica favorendo quegli studenti che sceglierebbero la medicina di base come specializzazione, se non fosse per il carico schiacciante dei prestiti da rifondere. Per spiegare all’opinione pubblica americana che la morte non è opzionale e che è necessario accettare l’esistenza di limiti a quanto si può fare, in modo che le risorse possano essere allocate in modo efficiente.

No, questa è solo l’ennesima ripetizione di un processo storico iniziato un secolo fa. Non aspettatevi nulla di trascendentale.