L'esempio di Praga

Di Vladimir Špidla Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Il nuovo governo di coalizione insediatosi a Praga dopo le elezioni dello scorso giugno – il primo che dopo molti anni possa contare su una maggioranza parlamentare – ha impostato il proprio programma su quella che noi consideriamo la priorità fondamentale della Repubblica Ceca: l’ingresso nell’Unione europea. Il Partito socialdemocratico guida la coalizione, dopo il netto successo registrato alle elezioni, e governa sulla base di un accordo di legislatura insieme ai democratico-cristiani (con cui condivide gli orientamenti sociali) e ai liberali dell’Unione delle libertà (con cui condivide l’attenzione alla società civile e al ruolo dell’educazione nello sviluppo sociale ed economico).

Il nuovo governo di coalizione insediatosi a Praga dopo le elezioni dello scorso giugno – il primo che dopo molti anni possa contare su una maggioranza parlamentare – ha impostato il proprio programma su quella che noi consideriamo la priorità fondamentale della Repubblica Ceca: l’ingresso nell’Unione europea. Il Partito socialdemocratico guida la coalizione, dopo il netto successo registrato alle elezioni, e governa sulla base di un accordo di legislatura insieme ai democratico-cristiani (con cui condivide gli orientamenti sociali) e ai liberali dell’Unione delle libertà (con cui condivide l’attenzione alla società civile e al ruolo dell’educazione nello sviluppo sociale ed economico). È un risultato di cui la socialdemocrazia ceca può essere particolarmente orgogliosa, avendo saputo smentire nel corso dell’ultima campagna elettorale la fiducia dei nostri avversari nella passività della società civile di fronte ad una contrapposizione ideologica del tutto artificiale. Perché i cittadini della Repubblica Ceca hanno dimostrato di avere una sufficiente capacità critica, tale da far loro discernere tra la rettitudine e gli interessi particolari di chi si candidava a governare il paese.

Il partito socialdemocratico è, storicamente, la più antica forza politica del paese. Ben consapevole della propria identità, esso rappresenta il movimento più innovatore e progressista dell’intero arco politico. E tuttavia, pur non avendo alcun legame con l’eredità comunista, nel corso degli anni Novanta il partito è sempre stato raffigurato dagli avversari come un ostacolo ai processi di transizione economica e sociale del paese. Il suo profilo orgogliosamente di sinistra è stato sbeffeggiato dalla destra come un tratto del tutto arcaico quanto non addirittura criptocomunista. Mentre le avventate politiche volute dalla destra nella prima metà del decennio – con la rinuncia a qualsiasi ruolo dello Stato nella guida dei processi di transizione – portavano inesorabilmente alla duplice crisi economica e politica del nuovo ordinamento democratico, i nostri avversari si sono sempre rifiutati di considerare la socialdemocrazia come una reale alternativa politica. Tra i ceti più alti della società non era appropriato avere idee di sinistra, e molti commentatori definivano l’eventualità di un governo socialdemocratico come un progetto quasi da fantascienza. E tuttavia, in quegli stessi anni, si andò diffondendo nella società la convinzione che quanto stava accadendo nel paese non corrispondeva a quella generale diffusione della prosperità di cui si vantava il governo di destra: la forbice sociale si allargava, nella comunità civile si diffondevano i meccanismi di favore per pochi privilegiati, la credibilità generale della politica si indeboliva lasciando ampio spazio alla corruzione e al controllo in stile mafioso dell’economia. E nell’opinione pubblica andò rafforzandosi la convinzione che una reale alternativa potesse essere rappresentata dalla socialdemocrazia, che nello stesso periodo individuava nei paesi dell’Unione europea la sua principale fonte di ispirazione politica e programmatica.

L’egemonia politica della destra conservatrice andò inesorabilmente incrinandosi: le elezioni del 1996 videro balzare il partito socialdemocratico dal 6% allo straordinario risultato del 26%, facendone la seconda forza politica del paese. Alle elezioni anticipate del 1998 quel traguardo fu ampiamente superato: il partito raggiungeva il 33% e conquistava la maggioranza relativa dei seggi parlamentari. A questo punto la destra puntò le proprie carte sulla possibilità che la guida del governo screditasse una volta per tutte la socialdemocrazia. E per questo l’Alleanza civica democratica di Václav Klaus diede il proprio via libera alla formazione di un governo di minoranza esclusivamente socialdemocratico. In quel periodo la Repubblica Ceca stava affrontando una seria crisi economica: il prodotto interno lordo era negativo, l’inflazione si manteneva elevata e la credibilità del paese sui mercati esteri era sempre più debole. Per la destra il passaggio delle leve di governo al nostro partito voleva essere un modo elegante per disfarsi della responsabilità di guidare il paese in un momento di grave difficoltà, contando sulla possibilità che immediatamente dopo quelle stesse leve tornassero stabilmente nelle proprie mani.

L’operazione non è riuscita: la socialdemocrazia ceca ha dimostrato di saper guidare il paese, ottenendo risultati positivi in campo sia economico che sociale. E tuttavia non sono stati pochi i rischi che abbiamo dovuto affrontare nell’interesse dei cittadini: come ammise pubblicamente l’allora presidente del partito e capo del governo, Miloš Zeman, quel suo dicastero di minoranza poteva essere tranquillamente considerato un «governo suicida». Sarebbe stato forse più comodo sedere tranquillamente sui nostri scranni parlamentari attendendo il completo disfacimento della destra. Ma il nostro paese si sarebbe allontanato forse per sempre dall’Europa e la transizione sociale ed economica ne avrebbe ricavato danni intollerabili. Quei quattro anni di governo socialdemocratico hanno invece rappresentato sia una prova di vitalità delle nostre convinzioni politiche che la conferma della credibilità del nostro partito come principale forza del paese. L’incremento degli investimenti stranieri è stato un positivo test di verifica della competenza del governo e la coerenza nella lotta alla corruzione, nonostante l’atteggiamento ostile dei media, è stata per i cittadini una dimostrazione dell’importanza che la socialdemocrazia attribuisce alla moralità pubblica. Uno dei rischi di maggior rilievo che quel governo si è trovato ad affrontare è stato il radicale intervento nel settore bancario: sia attraverso le privatizzazioni che attraverso rischiose operazioni miranti a limitare il cosiddetto tunnelling, ovvero il trasferimento delle parti sane di un’impresa ad una società di comodo gestita di solito dagli stessi manager. Il governo socialdemocratico si è trovato in questo modo a dover turare le falle create dai governi precedenti.

Le elezioni del 2002 hanno visto contrapporsi con molta durezza la visione socialdemocratica di una società aperta e di un moderno welfare, da ancorare saldamente all’Unione europea, e l’alternativa conservatrice di un ritorno alle politiche dei primi anni Novanta e di una battuta arresto nell’avvicinamento all’Unione europea. La posizione del partito socialdemocratico era complicata dall’assenza di un accordo pre-elettorale con qualsivoglia alleato: alla nostra destra avevamo il partito conservatore di Klaus e l’Unione delle libertà (la quale, pur essendo favorevole all’ingresso nell’Unione europea, auspicava una forte limitazione dello Stato sociale); alla sinistra il partito comunista (sostenuto da quelle fasce sociali condannate all’esclusione dai processi di transizione economica, ed in parte nostro concorrente nell’ambito del vasto elettorato che nel 1998 ci aveva dato fiducia); al centro dello schieramento politico eravamo contrastati dalla cosiddetta «Coalizione a quattro»: un raggruppamento trasversale che non è mai riuscito ad acquisire grande vitalità. È importante sottolineare che, a differenza di altri paesi dell’Europa centrorientale, nel confronto politico ceco è mancato qualsiasi significativo soggetto di carattere nazional-populista: il che, senza alcun dubbio, ha reso più facile il nostro compito rispetto soprattutto ai partiti socialdemocratici di Polonia e Ungheria. Ma il fattore che rischiava di danneggiare maggiormente il nostro partito era senza dubbio l’aperta ostilità dei mass media, tradizionalmente schierati con i nostri avversari per tutta la durata del nostro governo di minoranza. Tuttavia il rischio di una manipolazione mediatica è stato evitato per la grande maturità mostrata dall’opinione pubblica, sulla quale hanno pesato molto negativamente le divisioni interne all’opposizione e la scarsa chiarezza delle loro posizioni in tema di politiche sociali. E, anche per i segnali che provenivano dall’opinione pubblica, immediatamente prima delle elezioni il paese ha assistito ad un massiccio spostamento del favore dei media in direzione del partito socialdemocratico, e questo ha certamente giocato a nostro favore.

Durante la campagna elettorale uno dei principali temi agitati dai conservatori e dai comunisti è stato quello della cosiddetta «difesa degli interessi nazionali». Cosiddetta, perché in realtà si trattava di una posizione di estrema chiusura verso tutto ciò che proveniva dall’esterno dei nostri confini. E in particolare verso il processo di adesione all’ Unione europea. Il partito socialdemocratico ha sempre rivendicato la capacità di difendere con rigore gli interessi nazionali della Repubblica ceca: non come slogan politico, ma come concreta capacità di inserire il paese in quei circuiti di integrazione regionale il cui ruolo è sempre più indispensabile di fronte ai processi di globalizzazione. In un’economia e in una cultura come quelle Ceche, intimamente segnate dall’apertura verso l’esterno, non può esservi alcuno spazio per lo sciovinismo provinciale e per l’opposizione nei confronti del mondo occidentale.

Il partito socialdemocratico ha una sufficiente consapevolezza delle proprie convinzioni da poter reggere il confronto con una tale visione del mondo. Per questo abbiamo impostato la nostra campagna elettorale sulla difesa di un welfare efficiente come valore di civiltà, necessario sia per considerazioni di etica solidale sia perché sul lungo periodo le risorse sociali possano essere allocate in maniera ottimale. Crediamo infatti che un welfare ben funzionante sia la condizione essenziale per un effettivo sviluppo dell’economia europea, laddove la sua essenza non solo favorirebbe l’accumulazione di ricchezze a favore di strati ristretti della popolazione ma indebolirebbe anche quel potenziale di conoscenza sociale che oggi è alla base di uno sviluppo economico competitivo e di lungo periodo. Lo Stato sociale è una condizione basilare della democrazia. Una divaricazione troppo ampia della forbice sociale comporterebbe prima il discredito della politica e poi il collasso della democrazia. Nella nostra visione economica lo sviluppo è orientato al miglioramento della qualità della vita: e su questa linea corre la differenza fondamentale tra noi e i conservatori.

L’altro caposaldo della nostra campagna elettorale è stato il tema europeo, sul quale siamo stati molto chiari nella nostra comunicazione pubblica: consideriamo l’Unione una creazione di uomini in carne e ossa, non una panacea miracolosa in grado di trasformare tutto l’esistente in una dimensione ideale. Tutto il contrario della caricatura fattane sia dai comunisti che dai conservatori, secondo i quali si tratterebbe di una struttura estranea alla nostra cultura, poco trasparente e orientata a colonizzare in maniera strisciante ogni aspetto della nostra società. Abbiamo declinato il tema europeo in relazione allo stato del nostro paese, senza focalizzarlo esclusivamente sul profilo dell’Unione europea e senza idealizzare i negoziati in corso con Bruxelles: crediamo che per la Repubblica ceca l’ingresso nell’Unione sia un passaggio necessario e positivo, soprattutto in relazione ai processi di trasformazione che stanno investendo il nostro paese. Solo in questo modo i cittadini hanno potuto comprendere il senso reale di questo passaggio.

Tra i motivi in grado di spiegare il nostro recente successo elettorale vanno certamente ricordati i risultati ottenuti dal governo di minoranza che abbiamo guidato dal 1998: siamo soprattutto riusciti ad uscire dalla crisi economica e ad avviare un ciclo di crescita, facendo crescere gli investimenti stranieri, mantenendo la pace sociale e portando ad un graduale miglioramento delle condizioni economiche della classe media e del vasto settore dell’impiego pubblico. Quel governo, anche al costo di numerose sostituzioni di ministri, è riuscito a mantenersi vivo e vitale: è probabile che l’opinione pubblica lo considerasse effettivamente un «governo suicida», ma era altrettanto chiaro che esso agiva negli interessi del paese. Così come deve essere ricordato, tra i fattori del nostro successo, il ricambio al vertice del partito: le dimissioni di Zeman non hanno segnato solo un formale avvicendamento di leader ma un vero e proprio cambiamento di stile politico. Con l’uscita di scena di Zeman si è concluso il periodo costitutivo del partito, contrassegnato da una serie di duri confronti politici e dalla sua trasformazione da soggetto di scarso peso (come eravamo nel 1992) a forza decisiva e imprescindibile della scena politica nazionale. Questa trasformazione ha coinciso con l’apertura di una nuova tappa nel processo di modernizzazione del paese, scandito dalle fasi del suo avvicinamento all’Unione europea. Intorno alla nuova leadership del partito si è andata raccogliendo una nuova generazione di dirigenti politici, prevalentemente giovani ed entrati in politica dopo avere svolto altre attività nel corso degli anni trascorsi dal 1989. Per il partito socialdemocratico si è trattato di un processo di trasformazione che ne ha differenziato radicalmente il profilo rispetto ai conservatori, vero e proprio «partito di un solo capo» egemonizzato da Klaus, e anche rispetto ai liberali dell’Unione delle libertà, i cui dirigenti hanno preso direttamente parte alle decisioni dei governi di destra dei primi anni Novanta. Non va poi dimenticato che a sostegno del partito socialdemocratico nella sua campagna elettorale ha giocato anche il fatto di poter mostrare un solido aggancio con il socialismo europeo, dimostrato dai continui contatti con i partiti stranieri e dalle iniziative elettorali comuni svolte in particolare con i socialdemocratici austriaci, polacchi e slovacchi, dall’incontro del presidium del PSE svoltosi a Praga, dalle visite dei parlamentari europei del PSE. Tutto questo ha mostrato all’opinione pubblica che il nostro partito era quello che, tra tutti i partiti cechi, poteva contare sulla più estesa rete di relazioni internazionali e che ciò avrebbe certamente contribuito anche all’impegno per l’ingresso nell’Unione europea.

I risultati delle elezioni di giugno hanno sostanzialmente proseguito il ciclo avviato nel 1998, confermando la fiducia dell’opinione pubblica nel nostro operato. E tuttavia la distribuzione delle forze politiche ci impone di impegnarci nella conquista di un ampio sostegno al nostro modello di welfare. Se il partito socialdemocratico ha conquistato il 30% dei voti, non dobbiamo dimenticare che i comunisti hanno avuto il 18% dei voti. Si tratta di un consistente pacchetto di consensi, di fatto in grado di bloccare la formazione di quel più solido potenziale a sinistra che sarà indispensabile per la nostra azione di governo negli anni a venire. Interrogandoci su come intaccare quel pacchetto dobbiamo, di fatto, interrogarci su come svuotare il consenso di possibili raggruppamenti populisti. Perché il fatto che attualmente tali raggruppamenti non esistano o abbiano una scarsissima importanza può essere un evento solo temporaneo (così come è avvenuto in passato per l’Europa occidentale). Basti pensare che già oggi il cosiddetto «partito del non voto» ha raggiunto e superato il 40% degli aventi diritto. Per questo è indispensabile che il nostro governo affronti in modo efficace i temi della disoccupazione (risolvendo in particolare gli aspetti di esclusione sociale che vi sono connessi) e della sicurezza. I cittadini si attendono un cambiamento di qualità dell’atmosfera politica e sociale. Nel caso che ciò non avvenisse, si diffonderà la disillusione e il malcontento con l’effetto di moltiplicare il consenso per i soggetti estremisti e populisti. Quest’anno sono stati i comunisti a ottenere molti suffragi, mentre la destra estrema non è riuscita ancora a costruirsi un solido retroterra politico. Ma non basta a escludere che ciò possa accadere in futuro: dipenderà dalla qualità della politica. L’estremismo di destra avrà la sua occasione anche nella Repubblica Ceca, ma solo quando la politica non riuscirà più a svolgere la sua funzione di base: garantire e difendere i livelli minimi di sicurezza e giustizia.

La natura della società ceca può dirsi contrassegnata da una peculiare combinazione di individualismo e spirito d’uguaglianza. Anche per questo la leadership politica si trova di fronte a responsabilità particolari, soprattutto nel saper formulare e comunicare una forte visione d’insieme. E per questo non basta la politica-spettacolo. Perché il fatto che nel nostro paese la politica sia meno ostentata e più civile che in altri paesi significa essenzialmente che per noi è meno facile nasconderci dietro simboli rassicuranti. Dobbiamo invece affrontare più spesso quelle che sono vere e proprie prove di vitalità politica. È in questo spirito che la socialdemocrazia ceca – consapevole di poggiare sui valori dell’eguaglianza, della libertà e della dignità dell’uomo – affronterà gli impegni che l’attendono al governo. Lavorando per rafforzare il buon funzionamento del welfare e per aumentare il benessere dei nostri cittadini, nella insostituibile prospettiva dell’aggancio all’Unione europea: un soggetto che noi giudichiamo essenzialmente come una potenza civilizzatrice, in grado di dare sicurezza – nel senso più ampio della parola – e di riempire la libertà di contenuti reali. Per questo e per la sua peculiare cultura civile la Repubblica Ceca sarà in grado di dare un contributo di qualità alla nuova Unione europea.