Una riforma per la giustizia: puntare sull'efficienza

Di Gian Carlo Caselli Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Non è facile – di questi tempi – pensare un intervento in tema di riforme per la giustizia. Forse ha ragione Carlo Federico Grosso, il quale va ripetendo che oggi meno si cambia meglio è, perché qualunque cambiamento rischia di essere solo peggiorativo. Sia come sia, è certo che dalla crisi della giustizia non si esce con «aggiustamenti» o piccoli interventi. Bisogna pensare e intervenire «in grande», abbattendo anche antichi nostri tabù. Provo a fare alcuni esempi, senza «levigarli» più di tanto

 

Non è facile – di questi tempi – pensare un intervento in tema di riforme per la giustizia. Forse ha ragione Carlo Federico Grosso, il quale va ripetendo che oggi meno si cambia meglio è, perché qualunque cambiamento rischia di essere solo peggiorativo. Sia come sia, è certo che dalla crisi della giustizia non si esce con «aggiustamenti» o piccoli interventi. Bisogna pensare e intervenire «in grande», abbattendo anche antichi nostri tabù. Provo a fare alcuni esempi, senza «levigarli» più di tanto:

1) In materia penale, secondo me, è in crisi lo strumento giuridico in quanto tale. Abbiamo tre o quattromila fattispecie penali (in gran parte nella legislazione complementare), ma in carcere, in esecuzione pena, si va solo se recidivi o, nell’80% dei casi, per meno di 10 reati (detenzione e spaccio di stupefacenti, furti, rapine, ricettazioni in primis e poi, distanziati, associazioni per delinquere, omicidi e armi). Nello stesso tempo, per questi reati (per i primi soprattutto) i tassi di carcerazione aumentano a dismisura collocandoci ormai nella fascia alta dell’Europa. Per il resto la macchina gira a vuoto (non inganni Tangentopoli, pur, ovviamente, importantissima...). Se è così, il problema è ripensare il diritto penale e il rapporto tra Stato sociale e Stato penale. Io credo che non si esca dalla crisi senza affrontare il nodo del proibizionismo in materia di stupefacenti, senza rendere i furti (salvo il 624 bis: furto in abitazione e furto con strappo) perseguibili a querela, senza individuare tutele diverse per gran parte delle contravvenzioni di «prevenzione», senza inserire clausole di irrilevanza del fatto (anche sopravvenute, per esempio a seguito di risarcimento del danno) ecc.… Magari ricorrendo a congrue sperimentazioni prima di varare le riforme in via definitiva.

2) La domanda di giustizia civile è in continua crescita ed è bene che continui a crescere se non si vogliono indebolire ulteriormente i diritti. Ma la magistratura ordinaria non sarà mai in grado di farvi fronte in maniera accettabile. La via è solo una: un potenziamento della magistratura onoraria (veramente onoraria...), selezionando le materie di competenza dell’una e dell’altra magistratura (e il discorso vale in misura significativa anche per il penale: per tutte le ipotesi che non pre vedono il carcere...).

3) Una delle cause di malfunzionamento del sistema sta nello status e nella deontologia dei soggetti del processo: gli avvocati sono troppi; i loro standard professionali (e ciò vale anche per i magistrati, seppur in minor misura) non sempre sono adeguati. L’esperienza di chi opera in Cassazione, sezioni penali, porta a questa riflessione: i 50.000 ricorsi annui (assolutamente ingestibili da una Cassazione già pletorica) potrebbero ridursi a 10.000 e forse meno se ci fosse una norma – simile a quella dell’ordinamento nordamericano – che consideri un illecito deontologico per il difensore citare a sostegno della propria tesi una giurisprudenza minoritaria senza dire che è tale. E ciò vale anche per i giudici: liberi ovviamente di motivare nel modo che loro sembri meglio corrispondente alle risultanze in fatto e in diritto del caso concretamente trattato, ma con l’onere di dimostrare di conoscere la giurisprudenza di legittimità che disattendono.

4) Il giudice, nel quotidiano assolvimento dei suoi compiti, è costretto a fare troppe cose: bisogna portarlo a decidere e a fare solo quello. Quando si parla di «ufficio del giudice» si dovrebbe uscire dal generico e dire che cosa si vuole davvero. Una struttura solo organizzativa? Oppure anche di ricerca, di collaborazione diretta, di redazione della parte della sentenza in fatto e simili (con connessi problemi di selezione e preparazione del personale ecc.)?

5) La «geografia» degli uffici, sia di procura che di tribunale è fondamentale. Occorre trovare un modello standard di ufficio (in termini di sopravvenienza di affari e di numero di magistrati) e poi applicarlo coerentemente: abolendo uffici troppo piccoli e smembrando uffici troppo grandi. Inutile dire che, per mantenere presidi adeguati sul territorio, possono anche spostarsi i giudici senza necessariamente far spostare i cittadini. E in questa ottica va profondamente ripensata la dirigenza amministrativa.

Potrei continuare ma mi fermo, perché i filoni che ho sin qui enunciato non mi sembra possano ave re reale praticabilità, in difetto di un grande progetto che si opponga ai tentativi di «controriforma» che sono in atto. Anzi, se non si progetta «in grande», si rischia di offrire alibi per interventi gravemente peggiorativi: dalla discrezionalità dell’azione penale a un’organizzazione burocratica e gerarchica dei magistrati che (imperniandosi su di una Corte di Cassazione chiamata a nuove funzioni, con sostanziale espropriazione del CSM e contestuale stretto collegamento col Governo) di fatto ne ridurrebbe l’indipendenza e via seguitando. Meglio limitarsi a dire che questi interventi di «controriforma» non ridurranno di un giorno la durata vergognosamente interminabile dei processi civili e penali e non aumenteranno di un millimetro l’efficienza del sistema giustizia, attualmente al disotto dei livelli che dovrebbero caratterizzare un paese civile. La crisi della giustizia, infatti, non si supera con interventi sullo status dei giudici e meno che mai – è semplicemente paradossale che si debba perder tempo a ricordare questa verità elementare! – con interventi che appesantiscono il processo (penso ai progetti Anedda, Pittelli ecc.). Meglio limitarsi a dire che, volendo impegnarsi qui ed ora sui problemi del quotidiano, per impedire la paralisi e ridare credibilità alla giurisdizione occorre soprattutto incidere sull’organizzazione.

In questa direzione si muove un documento che «Magistratura democratica» ha elaborato qualche mese fa per una discussione aperta al contributo di tutti, attenta – senza pretese di completezza – a ciò che si può e si deve fare subito per ridare un’efficienza accettabile all’organizzazione della giustizia, nel solco delle riforme (giudice di pace; modifiche urgenti del processo civile introdotte nel 1995; giudice unico) che complessivamente hanno funzionato.1 Esso si articola in dieci schede, che trattano di: formazione dei magistrati; statistiche e indicatori; valutazioni di professionalità e distinzione delle funzioni; direzione degli uffici; informatizzazione e nuove tecnologie; compiti del CSM, dei Consigli giudiziari e del Ministero. Riproduciamo pressoché integralmente, ritenendola particolarmente ricca di idee e proposte utili per il «contingente», la scheda relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari.

 

L’organizzazione degli uffici giudiziari.

L’approccio alla «questione organizzativa» richiede alcune premesse. Primo. La giustizia non è un’azienda, per la ragione decisiva che il bene prodotto dagli uffici giudiziari (la giustizia, appunto) non è monetizzabile ed è sottratto alle regole del mercato. Una più adeguata organizzazione del lavoro è, peraltro, condizione necessaria per la stessa credibilità della giustizia e dei magistrati che la attuano. Gli interventi organizzativi di cui parliamo incidono non sul merito delle decisioni, ma sulla qualità e sui tempi del lavoro giudiziario e sul rapporto tra il servizio e i suoi utenti. Secondo. La crescita di funzionalità del servizio giustizia non si esaurisce – né si gioca prevalentemente – sul piano della quantità (più magistrati, più personale, più investimenti) che è quello abitualmente invocato. Nessun aumento di organico, né di personale amministrativo né di magistrati, può portare frutti seri e duraturi se viene calato su una realtà organizzativa inadeguata e inefficiente. La scienza dell’organizzazione e le più modeste esperienze di ciascuno concordano nel dimostrare che l’aumento delle persone all’interno di un’organizzazione rischia di accrescere complessità e disfunzioni se non viene inserito in un progetto organico ed in un disegno efficiente. Il problema allora (oltre che di – pur necessari – aumenti quantitativi) è di distribuzione delle risorse sul territorio, di qualità delle stesse e di esistenza di un progetto organizzativo in cui inserirle. Terzo. Mentre tradizionalmente il «fattore tempo» è stato considerato del tutto secondario nell’esercizio della giurisdizione, il rischio ora è che – in una lettura inadeguata e parziale del concetto di «ragionevole durata» di cui all’art.111 Costituzione – esso si ponga come metro unico e indifferenziato di giudizio dell’intero sistema giustizia. I tempi del processo sono invece una realtà complessa, che deve tener conto della coesistenza di valori e princìpi costituzionali incomprimibili, dal diritto di difesa delle parti al rispetto del contraddittorio. Vi sono tempi tecnici del processo che dipendono dalla organizzazione dell’ufficio; altri – quali decadenze, preclusioni, termini previsti dalla legge o assegnati dal giudice alle parti – la cui gestione è, solo in parte, nelle mani del giudice; altri ancora che consentono alle parti di decidere come «giocare» la partita e che sono nella disponibilità dei difensori; e vi sono infine tempi di attraversamento che riguardano il passaggio del processo (dello stesso fascicolo) da una fase o da un grado di giudizio all’altro e che, come tali, attualmente non sono presidiati da nessuno. Intervenire su questo fronte impone quindi l’individuazione della diversa natura dei tempi per poter incidere su di essi in modo differenziato e tenendo conto delle diverse finalità delle regole e delle responsabilità di ciascuno. Quarto. Affrontare con determinazione la «questione organizzativa» non significa cedere ad un efficientismo senza valori. La prospettiva della ragionevole durata del processo, se amministrata «ragionevolmente», può rompere la contrapposizione fra garanzie ed efficienza: un tempo ragionevole è, infatti, elemento essenziale di garanzia sia per il cittadino che per la collettività e di efficienza del servizio nel suo complesso.

L’organizzazione è in larga parte legata a scelte di soggetti esterni che incidono sull’entità, sui flussi e sulla dislocazione delle risorse. Ciò impone di affrontare i nodi della dislocazione e delle dimensioni degli uffici giudiziari, delle risorse finanziarie disponibili, dei moduli organizzativi adottati e adottabili. Il principale vincolo è costituito dalle risorse finanziarie. Dalla metà degli anni Novanta si è messo in moto un trend positivo, anche se ancora insufficiente, di crescita degli stanziamenti ma, al di là dei necessari incrementi, il primo impegno deve essere nell’utilizzare al meglio le risorse esistenti. Il timore che questa tendenza subisca un arresto è, in base a molti univoci segnali, assai forte.

Pesante è il vincolo che deriva dall’irrazionale distribuzione degli uffici sul territorio nazionale. I cambiamenti seguiti all’approvazione della legge sulle preture circondariali e sul giudice unico, che hanno comportato la soppressione di un buon numero di sedi, hanno lasciato tuttavia sostanzialmente intatta una geografia giudiziaria anacronistica, risalente, in pre valenza, alla nascita dello Stato unitario. Il problema non è tecnico ma politico (ci sono ormai studi ed elaborazioni condotti dal CSM e da un gruppo di studio istituito dal Ministero con la collaborazione del CENSIS che hanno indicato i tribunali da accorpare: rispettivamente 36 e 47 degli attuali 164). La sfida è la realizzazione di uffici di dimensioni ragionevoli, in grado, da un lato, di evitare un eccesso di frammentazione e, dall’altro, il gigantismo (e la conseguente ingestibilità) dei grandi tribunali metropolitani. Molte occasioni sono già state perdute, sia in sede di realizzazione del giudice unico, che ha visto accantonato ogni tentativo di revisione delle circoscrizioni, sia nella legge sui tribunali metropolitani, che ha dato un risultato alquanto modesto: un’efficace revisione delle circoscrizioni (con congrua riduzione del numero) e un dimensionamento ottimale degli uffici non sono ulteriormente rinviabili.

L’art. 111 della Costituzione ha individuato una norma di azione per gli uffici e per ogni magistrato: realizzare un giusto processo in tempi ragionevoli. L’assegnazione di un obiettivo al lavoro individuale e all’ufficio è un fatto tanto nuovo per la magistratura, quanto è normale e scontato per i tecnici dell’organizzazione. Una razionale utilizzazione delle risorse deve essere infatti indirizzata al raggiungimento di un obiettivo e si snoda attraverso diversi momenti: lo studio della realtà esterna e interna dell’organizzazione, l’elaborazione di un progetto che preveda strumenti e tempi, un monitoraggio sullo stato d’attuazione del progetto (con eventuale aggiustamento in corso d’opera), la verifica dei risultati. A queste regole elementari di buona organizzazione cerca finalmente di dare applicazione la circolare del CSM sulle tabelle. In essa è, infatti, prevista tra l’altro: a) l’elaborazione di programmi per la definizione dei procedimenti, a partire da quelli più vecchi, che tenga conto delle risorse disponibili e della quantità e qualità dei flussi di lavoro degli anni precedenti; b) l’indicazione dei tempi di definizione dei processi all’interno di ogni settore del servizio e di ogni sezione, il numero delle udienze e la produttività di ogni magistrato; c) l’indicazione del tempo presumibilmente necessario per ottenere nell’ambito di ogni procedimento il primo provvedimento (sommario, cautelare o interinale) idoneo a dare tutela alla situazione giuridica dedotta; d) eventuali modificazioni dei progetti durante il biennio e una verifica finale del raggiungimento degli obiettivi. Si tratta di indicazioni puntuali, concrete e al tempo stesso fortemente innovative. Il rischio è che, anche per deficit di cultura organizzativa diffusa, non ne sia colta appieno l’importanza e che le indicazioni siano destinate a rimanere sulla carta.

L’attività del magistrato si articola sempre più in mestieri diversi che richiedono anche cognizioni extragiuridiche. Ciò determina una crescente differenziazione tra uffici e pone in maniera forte la questione della specializzazione, già attuata in numerosi settori e oggetto di ulteriori proposte anche in sede legislativa. La suddivisione dell’attività giudiziaria per settori (civile/penale/lavoro) e all’interno di questi per aree omogenee favorisce, infatti, l’acquisizione delle conoscenze giuridiche ed extragiuridiche che consentono una rapida risoluzione delle questioni di diritto ed una più semplice definizione delle questioni di fatto, un’agevole individuazione delle questioni controverse e una migliore gestione dell’attività istruttoria. In tal modo la specializzazione diviene fattore di efficienza e snellimento del sistema. Contemporaneamente peraltro, facendo leva sui rischi connessi con la protratta permanenza nello stesso ufficio (immobilismo organizzativo e impoverimento della giurisprudenza), si moltiplicano le scelte legislative e del CSM (talora eterogenee) tese a realizzare la temporaneità delle funzioni.

Il punto di equilibrio tra tali esigenze sta nel valorizzare attitudini, capacità, conoscenze ed esperienze dei singoli (per conseguire, sul piano soggettivo, un lavoro più gratificante e, sul piano oggettivo, una maggior qualità e quantità di lavoro svolto) e nel favorire, al contempo, la circolazione e l’espansione delle competenze attraverso una rotazione nelle funzioni temporalmente ragionevole, che preveda tempi minimi di permanenza (per assicurare un adeguato sviluppo della specializzazione) e tempi massimi congrui (per limitare la, pur inevitabile, dispersione di competenze). Ciò comporta un’opzione di massima per previsioni tabellari definite in base a indicazioni del CSM, piuttosto che per riforme di ordinamento giudiziario. Un intervento duttile come quello tabellare infatti, se gestito in modo adeguato, consente di raggiungere insieme più obiettivi: realizzare le necessarie specializzazione per gruppi di materie, garantire la flessibilità del sistema e l’utilizzo ottimale delle risorse umane, favorire la circolazione delle idee e il rinnovamento della giurisprudenza, realizzare un opportuno equilibrio tra stabilità e rinnovamento. Inutile aggiungere che i tempi minimi e i tetti massimi di permanenza devono essere ragionevoli (mentre del tutto incongruo – e foriero di una magistratura priva di ogni reale specializzazione e in perenne mobilità – è il progetto avanzato da Forza Italia che prevede per tutte le funzioni giudiziarie un periodo massimo di tre anni con proroga di altri due).

Le esigenze sin qui prospettate dimostrano la necessità di ridefinire i percorsi professionali (valorizzando, anche in sede di trasferimenti, le attitudini dimostrate e le professionalità acquisite) e di realizzare una formazione professionale più articolata.

 

Bibliografia

1 Il documento si può leggere in www.magistraturademocratica.it , nella sezione «archivio», alla voce «Efficienza del servizio – Eguaglianza dei cittadini