Dimensione etica e nuovi diritti nella cultura riformista

Di Barbara Pollastrini e Gianni Cuperlo Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

Di etica e politica si è tornati a parlare con passione. È l’agenda del tempo a spingere verso una considerazione diversa delle due dimensioni. Le ragioni sono profonde e riguardano micro e macro conflitti culturali, etnici, religiosi a partire dalla tensione per l’espansione della democrazia e l’universalità dei diritti umani. Ma che si allargano ad ambiti diversi: dall’uso della forza nel diritto internazionale al criterio di reversibilità nelle strategie energetiche e ambientali. O delle regole nell’economia e nell’impresa, fino ai capitoli centrali della modernità, l’autonomia dell’individuo e l’attualità fondante della libertà delle donne, la relazione complessa tra scienza e coscienza, e quella non meno problematica tra utilizzo delle tecnologie e tutela della privacy. La graduatoria è forse arbitraria, ma utile a sottolineare la frequenza con cui partiti, parlamenti e governi vengono investiti da questioni «eticamente sensibili».

Di etica e politica si è tornati a parlare con passione. È l’agenda del tempo a spingere verso una considerazione diversa delle due dimensioni. Le ragioni sono profonde e riguardano micro e macro conflitti culturali, etnici, religiosi a partire dalla tensione per l’espansione della democrazia e l’universalità dei diritti umani. Ma che si allargano ad ambiti diversi: dall’uso della forza nel diritto internazionale al criterio di reversibilità nelle strategie energetiche e ambientali. O delle regole nell’economia e nell’impresa, fino ai capitoli centrali della modernità, l’autonomia dell’individuo e l’attualità fondante della libertà delle donne, la relazione complessa tra scienza e coscienza, e quella non meno problematica tra utilizzo delle tecnologie e tutela della privacy. La graduatoria è forse arbitraria, ma utile a sottolineare la frequenza con cui partiti, parlamenti e governi vengono investiti da questioni «eticamente sensibili».

C’è anche qualcosa in più che restituisce vitalità al tema ed è la comparsa di élite e moltitudini che si identificano nella politica attraverso fondamentalismi religiosi contrari a ogni forma di mediazione culturale e protesi, come scrive Roberto Toscano, verso la concezione classica di polemos, una «violenza senza limiti, intrinsecamente non assoggettabile ad alcuna norma», anche perché predisposta al martirio. Quindi una «violenza-distruzione totale, violenza-sterminio nei confronti del totalmente Altro». Per tante ragioni, il momento discriminante di questa «guerra» rimane l’11 settembre 2001. Lo è al punto da farci riconoscere in quella data la rottura di un’epoca e l’avvio di una stagione segnata, almeno per una fase, dalla concezione sciagurata di una soluzione «militare» per un conflitto che ha radici molto complesse e per questo necessita di una strategia politico-diplomatica e di una «visione» del mondo.

Su di un piano completamente diverso nelle forme e nelle motivazioni, e in anticipo sul radicalizzarsi della lotta al terrore fondamentalista, è giusto riconoscere come «domande di senso» abbiano investito con caratteri specifici la stessa modernità occidentale. Vale a dire società secolarizzate, ma non per questo «risolte» nelle proprie aspettative. Ansie, inquietudini profonde, paure e insicurezze – personali e sociali, di comunità o di etnia – hanno interrogato gli animi spesso indebolendone le difese, innanzitutto sotto il profilo culturale. Fenomeni peraltro diseguali e all’origine di sbocchi diversi. L’uso politico di una rigenerata religiosità come nell’esperienza americana dei teocon, ma anche rigurgiti di nazionalismo sui quali hanno avuto buon gioco le destre europee di impronta radicale e neo-fascista. A tenere unite evoluzioni tanto differenti è stata l’idea di una difesa dell’identità occidentale. E con essa, almeno da parte di alcuni, l’uso politico-ideologico delle radici cristiane di quella civiltà. Con la conseguenza di alimentare una relazione tra politica e valori fondata sul bisogno non più rinviabile di una nuova ideologia in grado di fronteggiare, sul terreno ideale prima che politico o militare, l’aggressione nei confronti dell’Occidente. La destra, particolarmente in alcune realtà, ha fondato su queste basi il suo primato recente. Denunciando la guerra «contro di noi da parte di un nemico maligno», la necessità di offrire un significato «morale» alla difesa dei «nostri valori», e offrendosi come strumento per gestire un inedito «conflitto di civiltà». È probabile che l’intero processo abbia sfruttato alcune condizioni preesistenti. Pensiamo ai tratti caratteristici della religiosità diffusa in un paese come gli Stati Uniti. Oppure a quella domanda di irrazionalismo che ben prima dell’attacco alle Torri gemelle aveva decretato il successo sul mercato dell’immaginario delle saghe di Tolkien e Matrix o di una visione intollerante della religiosità come nella «Passione» di Gibson. Aspetti comunque che non mutano la sostanza del problema.

Più vicino a noi, questa spinta a fare dell’etica una chiave interpretativa della politica ha privilegiato una sponda meno ambiziosa, quella di un uso strumentale dei riferimenti religiosi con il solo obiettivo di acquisire una dote supplementare di voti, prevalentemente di area cattolica.

In questa cornice la sinistra riformista – seppure a fasi alterne – ha cercato di offrire una propria lettura della relazione tra etica e politica. Per onestà, bisogna riconoscere che non sempre ci è riuscita. Il che ha lasciato aperta e consegnato a noi una delicata questione di metodo e di merito. Di metodo nel senso che tocca alla politica – e a ogni singola cultura politica – individuare la procedura per affrontare temi che non sempre trovano risposta nell’esperienza, a partire dalle nuove forme dell’inclusione e della convivenza su scala globale. E su un piano diverso un corpo di problemi che interroga la politica in forme originali come nel caso della bioetica, solo per citare l’esempio più diffuso. Ne conseguono interrogativi complessi: fin dove spingere la disciplina e quando arrestare l’azione formatrice? Su quali materie la politica ha potestà e legittimazione per decidere e su quali non può che arrendersi dinanzi alla propria inidoneità? Dalle risposte a queste domande dipende non solo l’autorevolezza della politica, ma il significato reale di quel termine, laicità, tornato con forza al centro del confronto. Letta così, infatti, l’espressione prima di indicare un «valore» recupera la sua valenza di «metodo». Una modalità irrinunciabile della politica chiamata ancora una volta, come in altri passaggi, a cercare la sintesi tra etica dei principi e della responsabilità. Ricordarlo non è superfluo dal momento che troppo spesso si cede a una lettura parziale dell’essere laici, riducendo quel tratto alla mera contrapposizione verso un punto di vista dogmatico o confessionale. Così facendo si sottrae alla laicità il suo significato più attuale, che è la tessitura ostinata e paziente del dialogo tra ragioni divergenti. Non nella logica di una mediazione al ribasso, ma di una soluzione superiore e il più possibile condivisa. Naturalmente nel rispetto di una sfera pubblica autonoma e mai disposta a cedere ad altri – si tratti di filosofie, culture, religioni – l’appalto di una verità «prevalente». È probabile che sulla difficoltà a conservare questa nozione di laicità abbia influito la crisi delle vecchie culture politiche. Questo almeno se limitiamo il giudizio all’evoluzione della sinistra italiana dopo il 1989. Ora, mentre sui caratteri della diaspora socialista andrebbe fatto un ragionamento a parte, la nascita del PDS, senza nulla togliere al coraggio e all’utilità di quella scelta, è coincisa con una timidezza culturale della sua classe dirigente. Dovendo riassumere, si può dire che abbandonati i vecchi ormeggi si è privilegiata una centralità dei programmi – una concretezza riformatrice – che ha esaltato la funzione del «governo», rinunciando nei fatti a una ricerca sull’identità della sinistra proiettata oltre il «secolo breve». Una impostazione simile ha finito spesso col ridurre la sfera dei valori a testimonianza, caricando sulla dimensione etica un di più di retorica e svuotandola di sostanza e coerenza politica. Era in parte la conseguenza della volontà di liberarsi dell’antico spirito identitario, per altro da tempo più evocativo che concreto. Nel senso che la battuta di un dirigente dell’epoca – «non siamo più comunisti da anni» – poteva contenere un fondo di verità, ma sottovalutava la portata simbolica dell’appartenenza. In parte rifletteva la difficoltà a sostituire quell’impianto con qualcosa di altrettanto robusto sul piano ideale e culturale, di altrettanto seduttivo e capace di stimolare un forte sentimento morale. Cosicché l’esito, per certi versi inevitabile, è stato una sinistra via via più «istituzionale» che trovava nelle categorie dell’efficienza, del risanamento, del pragmatismo, una bussola tanto efficace quanto rassicurante. Forse subendo l’offensiva culturale sulla fine delle ideologie si è dato scarso peso al bisogno di attrezzare una cornice culturale e di valori, qualcosa di certamente più «leggero» ma comunque in grado di chiarire la natura di una sinistra altrimenti incollata al prefisso «post». Perché un conto è non volere un partito «pedagogico», altro è rinunciare alla funzione di formazione civile che della politica migliore fa parte a pieno titolo. La realtà è che il superamento della vecchia collocazione esigeva un sovrappiù di ricerca, proprio nella direzione dei valori che dovevano caratterizzare un’epoca così diversa dalla precedente. Diciamo pure che l’ansia comprensibile di sopravvivenza ha fatto scivolare in secondo piano il bisogno di un pensiero innovativo sul mondo. E però era proprio quella – il nuovo mondo globale – la dimensione dove ricollocare il patrimonio del riformismo, anche in Italia. Non un generico «nuovismo», o come andava allora di moda la suggestione dell’«andare oltre», ma una meta di sicuro più concreta e anche più ambiziosa. Invece, per motivi diversi e responsabilità anche oggettive (molto si potrebbe scrivere sulle vere e proprie emergenze del sistema politico, in particolare dal 1992 in avanti), questa scommessa ha finito con l’arenarsi sulle strategie, anche coraggiose, di riforma e innovazione del welfare, ma lasciando sullo sfondo la novità più grande: una globalizzazione che si manifestava fino da allora con una nuova domanda di uguaglianza destinata a irrompere sui mercati e sulle società globali. Miliardi di esseri umani, a partire dalle donne, che si avvicinano per la prima volta a una condizione di dignità, restituendo prospettiva storica, reale, all’utopia sull’universalità dei diritti umani e di libertà. Insomma molto si è fatto, e sarebbe davvero ingeneroso prima di tutto verso una classe dirigente di qualità tacere i risultati del lavoro compiuto negli anni difficili che abbiamo alle spalle. Ma molto altro resta da fare, in primo luogo sotto il profilo del coraggio delle idee. La stessa apertura proficua che ha portato nel PDS nuovi affluenti culturali dando vita ai Democratici di Sinistra non è riuscita a colmare quel ritardo, al punto che alcuni di quegli snodi si ripresentano oggi, più o meno immutati, nella costruzione del Partito Democratico. Il che per altro non deve stupire se è vero che dopo la stagione di governo del centrosinistra negli anni Novanta – quando Bill Clinton sedeva alla Casa Bianca e tredici paesi su quindici dell’Unione europea erano guidati da coalizioni progressiste – sono le sedi stesse della sinistra mondiale a interrogarsi sui valori di una globalizzazione democratica.

La questione dunque si può riassumere in questo modo. Da un lato è cresciuta la pressione dell’agenda, i temi dei quali la politica è chiamata a occuparsi. Dall’altro si accentua il ritardo di culture politiche inadeguate a sbrogliare matasse sempre più intricate. Non è un problema da poco. Né purtroppo pare essere l’unico dal momento che, se guardiamo al confronto sul futuro dell’Ulivo, è proprio su alcuni terreni indicati che affiorano le difficoltà maggiori a comporre valori, obiettivi, strategie. Ma qui entriamo più direttamente nella seconda dimensione del problema, quella che abbiamo definito di metodo.

È vero che non moltissimi dentro i DS e nella Margherita mettono in discussione il traguardo del nuovo partito. Ciò non vuol dire che tutti i sostenitori del progetto siano animati da motivazioni identiche. Il risultato è che, a fronte di un accordo largo sull’inadeguatezza delle forze attuali, continua a restare fragile il profilo del nuovo soggetto. E le differenze in questo caso non riguardano la riforma degli ammortizzatori sociali (sia detto a titolo d’esempio), ma i nodi più intricati del valore della persona, di cosa significa e come si promuove una società dei diritti, di quale senso acquista la libertà dell’individuo e come la si deve tutelare o espandere. Questioni che, seppure in forme diverse, attengono alla capacità della politica di reinventare la cittadinanza e la democrazia in società che saranno pure «liquide», secondo la formula suggestiva di Bauman, ma dove la domanda di diritti è comunque destinata a crescere.

Da questo punto di vista, c’è chi sostiene come la vera discriminante nelle società avanzate non sia più l’economia, ma appunto il vasto terreno dell’inclusione nella cittadinanza e l’espansione della democrazia in tutte le sue articolazioni. Non è una provocazione, ma un’ipotesi che poggia su fondamenta per nulla precarie. La premessa è semplice: poiché lo spazio d’intervento sulle risorse pubbliche tende a ridursi sotto il peso di vincoli e compatibilità, spesso sovranazionali, la sfida si sposta sulle cosiddette riforme civili e democratiche, a loro volta volano di riforme economiche e sociali. Gli stessi automatismi dell’economia spingono in questo senso dal momento che il fattore umano – capacità e talenti – diventa sempre più la risorsa fondamentale della crescita. La conseguenza è che il «nuovo» – anche nell’azione di governo – consiste nell’estendere «i diritti e le libertà degli individui, investendo sulla persona, la sua indipendenza economica e culturale, l’enorme varietà di stili di vita, aspirazioni individuali e forme dell’inclusione e della convivenza». Sono tesi parziali. Ma seppure depurate di qualche forzatura, rimane la chiave di fondo. L’idea che l’innovazione transita oggi più che in passato dall’estensione dei diritti e dell’autonomia dell’individuo. Novità rilevante. Anzi, forse lo strappo maggiore rispetto alle culture politiche del secolo passato. Del resto, non si misura anche su questo piano lo scarto tra etica e politica che siamo soliti confinare in ambiti più circoscritti? Cioè su come decliniamo il valore delle libertà e dell’uguaglianza, sapendo che il tema divide le culture tradizionali, anche nel nostro campo? Perché dietro un’impostazione di questo genere non ci sono questioni di «nicchia», ma una visione del progresso, dell’economia, soprattutto della persona, e dunque un’idea della modernità e della funzione che nuove politiche pubbliche dovrebbero assumere. La centralità della persona, in particolare, è il segno di una discontinuità. In parte perché storicamente la sinistra non ha fondato su questo la propria identità. Al pari della non violenza, anche il riconoscimento del valore esclusivo e irriducibile del singolo è un’acquisizione tardiva nel nostro vocabolario. Diciamo pure un frutto maturato grazie a sensibilità estranee alla nostra tradizione, dal pensiero femminile ai movimenti per i diritti civili. Frontiere preziose in un paese – mai scordarcelo – caratterizzato su questi fronti da ritardi e conservatorismi imbarazzanti. E però mettere al centro la persona ha significati che vanno oltre la rivendicazione di nuovi e più ampi diritti. Dietro quella scelta c’è anche – verrebbe da dire, soprattutto – una cultura dei doveri, un principio di responsabilità che chiude idealmente, in un circolo virtuoso, il legame tra etica e politica. Nel senso che solo così – con questa connessione tra libertà, diritti e responsabilità – si pongono le basi di una vera rinascita civile. Il punto, ancora una volta, è fissare il quadro delle regole in modo che ciascuno possa partecipare, muovendo da condizioni di pari opportunità, al gioco della mobilità. Ha ragione chi rivendica, da questo punto di vista, l’attualità della nostra Costituzione. Attualità che si traduce nel riconoscere tra i principi ispiratori della Carta i diritti e doveri dei cittadini. Il punto è che oggi l’onere della prova spetta per larga parte alla politica e alla sua coerenza. Dal momento che compito suo, non di altri, è rifiutare una logica di «comando» sulla società scegliendo invece di rappresentare – nell’economia, nei saperi, nelle professioni, nelle forme di convivenza – la sponda per quanti operano bene e nel rispetto delle regole. L’analisi potrà apparire scontata ma non lo è. Perché molti temi potrebbero trovare in una impostazione di questo genere prima di tutto una chiave e un metodo di comportamento da parte del potere politico, a partire dall’attualissima relazione che lo Stato e il governo debbono stabilire col mondo economico e dell’impresa. In termini più specifici, anche questioni finora al centro di conflitti più teorici che reali potrebbero trovare sbocco, come nel caso di una regolamentazione «saggia e umana» sulle coppie di fatto o sul testamento biologico. Semplicemente perché la politica sceglierebbe di «investire» sugli uomini e sulle donne, cercando non solo le soluzioni più rispettose, ma quelle in grado di favorire la serenità e il benessere di una comunità. Una politica – sia detto senza retorica – meno distante dalla vita delle persone e più capace di coltivare sentimenti positivi com’è, quasi per definizione, una domanda di amore e affettività.

Tutto ciò, infine, chiama in causa direttamente ruolo, qualità e responsabilità della classe dirigente. È un tema rilevante poiché esiste una dimensione etica «della» politica, ma anche «nella» politica, che riguarda direttamente le persone e che si traduce nella coerenza del loro comportamento, azione, stile. Non è solo la tradizionale questione morale, a partire dalla conformità dell’etica pubblica con quella privata. È qualcosa che attiene alla democrazia dei partiti e delle coalizioni, e al riconoscimento di meriti e talenti. In questo senso la selezione delle classi dirigenti in termini di qualità, deontologia, generi e generazioni – nella politica come nell’economia o altrove – è parte dell’etica pubblica e ha a che fare con le leggi che sovrintendono allo sviluppo della partecipazione e a un funzionamento corretto delle istituzioni. Il che spiega l’impatto che l’opportunità può assumere nella riflessione sul futuro dell’Ulivo e del Partito Democratico. Traguardo, quest’ultimo, che rappresenta davvero un’opportunità storica non più rinviabile, ma che ha bisogno, soprattutto nella fase d’avvio, di misurarsi con questioni di tale natura.

Quel che accade, dunque, su terreni diversi è che una sfera etica con sempre maggiore frequenza condiziona l’agenda politica. Definisce priorità d’azione dei governi e dei partiti. Interpella coscienze. Divide, come detto, non solo il campo progressista dalla destra, ma genera qualche distinzione nello stesso campo riformista. Con la necessità per la politica di rispondere delle proprie decisioni a un’opinione pubblica sempre più consapevole del peso di scelte fondamentali per la qualità della propria vita.

Come si vede, la questione attraversa la nostra agenda con «invasioni» anche in territori fino a ieri coinvolti meno direttamente. Ma ciò, lungi dall’essere una ragione per congelare il tema dovrebbe stimolare la politica – e il centrosinistra in primo luogo – a interrogarsi con sincerità sul significato da dare alle parole. Nel senso di ritenere per lo meno difficile seguire lo schema di chi auspica che sui temi «eticamente sensibili» la politica – e il nuovo Partito Democratico – defletta dalla ricerca di posizioni unitarie e soluzioni condivise. Questa via non pare convincente. Non solo perché annullerebbe la ricerca su questioni prioritarie nel nostro tempo, ma perché sarebbe difficile capire quali siano oggi i limiti dell’eticamente sensibile. Insomma, dove passi, nell’epoca globale, il confine tra etica e politica.