La responsabilità verso il mondo comune

Di Vittoria Franco Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

Quell’entità politica ormai evocata da molto tempo e da molti, che tutti chiamano Partito Democratico, io preferisco chiamarla Partito Democratico dell’Ulivo. Mi sembra un nome più corretto e più rispettoso della storia recente. Sì, perché esiste già una biografia di qualcosa che deve ancora nascere. Non sembri un paradosso. È normale per i processi della storia, che sono quasi sempre la conseguenza di cesure e continuità. Quel nome che propongo vuole indicare proprio una continuità con quanto è accaduto finora: liste unitarie, gruppi unici dell’Ulivo nelle due camere, lavoro comune che suggella l’incontro fra diverse culture del riformismo italiano. Il filo comune non significa che non si debbano produrre discontinuità necessarie per far nascere il nuovo. Anzi, queste sono necessarie, pena il fallimento del progetto. Forse però esse sono anche fra le ragioni delle forti resistenze che rallentano il processo. E il rallentamento porta con sé dei rischi. Il rischio più grave che vedo è quel restare nell’incompiutezza che logora l’intero progetto, che comporta la perdita del vantaggio della novità e infonde sfiducia invece che entusiasmo.

Quell’entità politica ormai evocata da molto tempo e da molti, che tutti chiamano Partito Democratico, io preferisco chiamarla Partito Democratico dell’Ulivo. Mi sembra un nome più corretto e più rispettoso della storia recente. Sì, perché esiste già una biografia di qualcosa che deve ancora nascere. Non sembri un paradosso. È normale per i processi della storia, che sono quasi sempre la conseguenza di cesure e continuità. Quel nome che propongo vuole indicare proprio una continuità con quanto è accaduto finora: liste unitarie, gruppi unici dell’Ulivo nelle due camere, lavoro comune che suggella l’incontro fra diverse culture del riformismo italiano. Il filo comune non significa che non si debbano produrre discontinuità necessarie per far nascere il nuovo. Anzi, queste sono necessarie, pena il fallimento del progetto. Forse però esse sono anche fra le ragioni delle forti resistenze che rallentano il processo. E il rallentamento porta con sé dei rischi. Il rischio più grave che vedo è quel restare nell’incompiutezza che logora l’intero progetto, che comporta la perdita del vantaggio della novità e infonde sfiducia invece che entusiasmo. E invece, è proprio l’entusiasmo che ha prodotto sia quella straordinaria partecipazione alle primarie per scegliere il candidato premier, sia il valore aggiunto alla lista dell’Ulivo della camera rispetto al risultato delle liste separate del senato alle ultime elezioni di primavera 2006. È evidente che non si può arretrare rispetto a questi risultati raggiunti e alle aspettative create nei cittadini e negli elettori, che credono in un progetto politico di innovazione e in una forza politica moderna, dinamica, aperta, non ideologica, ma con una chiara connotazione ideale, capace di parlare ai giovani, a quei giovani che vivono in un mondo molto diverso dal passato e che a questo nuovo mondo ci chiedono di essere educati. Pensiamo solo al fatto che cominciano a entrare nella maggiore età i ragazzi che sono nati durante l’anno della dissoluzione della vecchia Europa della guerra fredda, il 1989! Da allora si è avviato un movimento sismico che ha cambiato radicalmente la geografia politica del nostro paese, ma che non è ancora arrivato al termine. E d’altronde, tre lustri – nonostante la densità degli eventi – sono davvero pochi nei processi storici.

I tempi sono dunque maturi per produrre un’ulteriore innovazione e non resterebbe che arrivare al dunque della definizione del percorso finale e della fisionomia del nuovo soggetto. Ma sono evidenti le resistenze, a tratti tanto energiche quanto frenanti. A che cosa sono dovute? Certamente a scaramucce di potere, a paure di perdere l’egemonia in qualche ambito sociale, economico o culturale. Ma la resistenza più forte, e anche quella più seria e difficile da affrontare e superare, è l’attaccamento all’identità, la gelosa fedeltà alla tradizione di appartenenza. Quest’ultima costituisce un freno forse ancora più della prima. Identità è sicuramente una parola che dà sicurezza, che placa lo stress da cambiamento veloce che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni di storia politica italiana ed europea. Ma se riflettiamo bene, quasi nessuna delle forze politiche in campo può oggi rivendicare un’identità forte. Si tratta di soggetti politici in fieri, per i quali un’identità troppo definita costituirebbe un ostacolo. È così anche per la sinistra e per le forze di centro. L’identità è spesso più pretesa che reale. E d’altronde, non può che essere così, considerata la storia che ha portato alla nascita dei due partiti che hanno avviato il processo di costituzione del Partito Democratico: i DS e la Margherita. Sono entrambi il risultato dell’incontro di storie e culture politiche diverse, che sono arrivate a convergere a tappe successive. E – dato da non trascurare – spesso i soggetti di provenienza sono esattamente gli stessi. Nei due partiti sono confluite le stesse tradizioni, anche se ciascuno di essi si caratterizza per una prevalente. Nella Margherita si ritrovano, e non sono poche, personalità che provengono dalla tradizione comunista, nei DS gruppi che provengono dalla Democrazia Cristiana, oltre che dalla cultura repubblicana e socialista, presenti anche nella Margherita. Abbiamo avuto, dunque, e continuiamo ad avere, un problema comune: quello di «costruire una nuova tradizione». Questa è stata la sfida vera dei processi politici degli ultimi quindici anni, anche se mai esplicitata del tutto e mai affrontata alla radice. Anche nei DS le maggiori energie sono state spesso spese per «gestire» le numerose scadenze elettorali o per tenere sotto controllo le possibili divisioni agli appuntamenti congressuali, più che per condurre una riflessione seria sui processi culturali in corso. Fatto è che quella sfida non è stata vinta, almeno non del tutto, forse proprio perché non può essere opera di un solo soggetto. Le storie si sono intrecciate a tal punto che districarle per rintracciare distintamente i diversi fili di appartenenze e tradizioni è impossibile. Non può essere allora proprio questo intreccio inestricabile il punto di partenza per costruire una comune nuova tradizione, che non rinneghi quelle passate che singoli e gruppi si portano dentro, ma che crei varchi per fertili osmosi? Non è il caso di parlare qui, come in altre occasioni abbiamo fatto e facciamo, di contaminazioni o di meticciato culturale, perché le culture plurali sono già tutte dentro a ciascuno dei due partiti – vorrei dire dentro a ciascuno di noi – ormai: almeno dentro a chi ha partecipato ai momenti di riaggregazione di diverse culture. Abbiamo tutti fatto – e dovremo continuare a farlo se vogliamo costruire una nuova tradizione – esperienza ed esercizio di quell’attività culturale talvolta preziosa che consiste nel superare conservando. Trovo, ad esempio, eccessivamente perentoria l’affermazione di Anthony Giddens: «il socialismo è morto esattamente nel 1989». È un’affermazione senza fondamento. Il socialismo non è un unicum identificabile con certezza in un qualche soggetto. Sicuramente non possiamo dire che sia scomparsa una tradizione socialista che, insieme con quella liberale, ha contribuito a costruire una parte consistente della storia del Novecento. Anche per questo, fra l’altro, costituirebbe un elemento di debolezza del nuovo progetto escludere la componente socialista dal misurarsi con la creazione di una nuova tradizione. Una tradizione, nella quale i valori di libertà e giustizia, insieme con il principio delle eguali opportunità, il valore del rispetto della dignità umana e dei diritti individuali, il riconoscimento della diversità culturale e religiosa, la memoria, si incontrino per trovare nuove forme di espressione politica e nelle relazioni sociali, non è fuori dalla realtà: si tratta solo di «riconoscerla» come tradizione comune e coltivarla con un progetto politico di lungo respiro, senza ineluttabilmente soccombere sotto il peso dell’appartenenza storica.

Tutto pacifico dunque sul versante dei valori e della cultura? No. Siamo consapevoli che esistono differenze serie sul versante della bioetica, dell’etica riproduttiva e della vita, del rapporto famiglia-diritti individuali. Sono differenze dovute alle diverse storie e culture di riferimento: cultura laica sostenuta da credenti e non credenti, o fede religiosa intesa come generatrice di valori assoluti non negoziabili, validi anche nella sfera politica. Il confronto fra queste due correnti di pensiero politico ha costituito il filo di un vero e proprio discorso pubblico che si è alimentato di argomentazioni, oltre che di polemiche, durante le discussioni che hanno accompagnato l’iter della legge sulla fecondazione assistita, e poi il referendum abrogativo, e che si ripropongono ogni volta che si presenta un problema di bioetica, com’è accaduto di recente col dibattito che si è svolto in parlamento sulla questione della ricerca sulle cellule staminali di origine embrionale nel Settimo programma quadro europeo. Sono discussioni utili, direi anche politicamente formative, giacché costringono allo sforzo necessario di ascoltare le ragioni altrui.

La storia degli eventi recenti dimostra che il discorso pubblico può favorire l’incontro di posizioni che hanno punti di partenza anche molto diversi. Il voto unanime di tutto il centrosinistra alla mozione sulle cellule staminali discussa in senato nel luglio scorso costituisce una vittoria del discorso pubblico, del dialogo, dell’autonomia della politica. Il «bene pubblico» di cui si era persa traccia in fasi precedenti era, infatti, proprio la salvaguardia del principio costituzionale dell’autonomia della politica, di quel principio di distinzione fra morale e diritto, fra convinzioni personali e legge, che solo deve presiedere al lavoro del legislatore. Capisco la fatica e il sacrificio di chi, credente e profondamente e sinceramente convinto che i valori in cui crede siano assoluti e non negoziabili, si trova a cercare necessariamente punti di mediazione e di «cedimenti» a punti di vista e a convincimenti diversi. Il sacrificio è forse meno gravoso se si arriva, proprio nell’esercizio imprescindibile dell’autonomia legislativa, a distinguere fra piano etico e piano politico nella ricerca della mediazione. La mediazione non può e non deve essere trovata sul piano etico, ma è necessario produrre uno slittamento su quello politico. Essa non può significare rinuncia alle proprie convinzioni morali e religiose, ma ricerca comune nella prospettiva del rispetto del pluralismo e della laicità dello Stato. Le scoperte della genetica che hanno sconvolto in tempi brevi e rapidi la conoscenza scientifica hanno enormi implicazioni etiche e politiche. La politica è costretta a produrre leggi, norme, diritti e doveri nuovi rispetto al passato anche recente su temi che afferiscono alla coscienza morale individuale, ma che non possono essere affidate solo ad essa. Il necessario aggiornamento continuo delle categorie politiche e delle norme produce un intreccio sempre più stretto fra etica e politica, fra discorso pubblico e coscienza privata. Negli ultimi anni si è discusso come non mai, e non solo in Italia, di laicità. È segno che viviamo in una condizione nuova e che il termine va confermato in alcuni suoi significati, ma anche riempito di nuove dimensioni. Esso non rivendica solo la difesa di una concezione del rapporto fra Stato e Chiesa come due istituzioni che operano in sfere separate, ma si presenta sempre più come una modalità della convivenza plurale, del vivere insieme fra diversi nel rispetto delle differenze religiose, etiche, filosofiche.

Perché questa dimensione plurale del «con-vivere» sia rispettata, occorre che lo Stato non assuma un solo punto di vista etico o religioso, ma metta tutti in condizioni di praticare in libertà e responsabilmente il proprio credo e la propria concezione del bene. L’aspetto della responsabilità non va trascurato, perché essa ha implicito dentro di sé la relazione, l’attenzione alle posizioni altrui, il rispetto del limite alla propria libertà che è rappresentato dall’altro. All’autonomia della politica si collega l’etica della responsabilità, il farsi carico delle conseguenze sull’altro della decisione e dell’agire. Ecco allora che chi è chiamato a ricoprire il ruolo di legislatore – proprio perché produrre leggi anche su problemi di grande rilevanza etica è diventato ineludibile – deve esercitare responsabilmente il suo ruolo senza pretendere di sottoscrivere uno solo dei codici morali presenti nella società, ma consentendo la coesistenza di diversi codici morali e stili di vita, e senza trincerarsi dietro il principio della libertà di coscienza o rivendicare unilateralmente l’orgoglio della propria etica. Chi lo fa rende impossibile il dialogo, il confronto, la mediazione, perché impedisce lo slittamento dal piano etico a quello politico e, dunque, anche la possibilità di esercizio dell’autonomia della politica e il rispetto dei valori costituzionali. Noi disponiamo di una Carta costituzionale con un enorme valore etico, espressione alta di intreccio fra politica e i grandi valori che hanno accompagnato l’elaborazione del costituzionalismo moderno fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: dignità della persona umana, libertà individuale, diritti, eguaglianza, pluralismo, laicità. Nostro compito è oggi anche quello di rimettere sui binari democraticamente corretti la tradizione del costituzionalismo, messa platealmente in discussione dal movimento teocon, effimero ma insidioso, perché tende a far diventare la politica residuale e subalterna ai valori religiosi. Proprio nel solco del costituzionalismo oggi ci viene richiesto un aggiornamento – peraltro già compiuto da molti paesi europei – sul rapporto fra etica e politica, intesa come produzione di norme, fra bioetica e diritto. La libertà di coscienza rimane un valore intangibile, ma essa va collocata in un percorso di responsabilità e di ricerca comune, proprio perché si tratta di riconoscere nuovi diritti e doveri e di stabilire limiti e possibilità. Per raggiungere questo livello di esercizio della responsabilità politica, occorre adottare il punto di vista della ragionevolezza. Ragionevolezza nel senso in cui John Rawls usa questo termine quando cerca di costruire la procedura del consenso per intersezione, la pratica che consente di abbandonare il terreno della equivalenza fra teorie morali vere e concezione corretta della giustizia politica. In sostanza, il ragionevole è diverso dal vero e consente di far convivere molteplici teorie della verità morale. Se la verità è una categoria della morale, la ragionevolezza è una categoria della politica che rende possibile contemperare i diversi interessi e punti di vista e realizzare la mediazione. Questa diventa impraticabile nell’ottica della verità che aspira a passare direttamente dall’ethos al nomos. Le soluzioni ragionevoli possono invece essere diverse e su di esse ci si può incontrare, accettando ciascuno le ragioni dell’altro. Alla domanda se sui temi a forte rilevanza etica si debba decidere a maggioranza la risposta è: no! Il principio di maggioranza nelle democrazie parlamentari è ovviamente irrinunciabile, ma nei casi in discussione si richiede uno sforzo in più per arrivare alla massima condivisione, con un lavoro di responsabilità reciproca nel nome del principio del pluralismo etico e riconoscendo i fatti nuovi della storia. Com’è possibile, ad esempio, in materia di riproduzione o di politiche familiari escludere del tutto il punto di vista della nuova soggettività femminile che si è formata nei decenni scorsi, oppure trascurare i diversi stili di vita e il peso maggiore che si attribuisce alla personalità individuale e ai diritti civili?

È stato giusto non inserire nella Costituzione europea il riferimento a radici cristiane o, per altro verso, illuministe. I valori fondativi sono contenuti nei riconoscimenti di diritti e doveri da essa previsti e nei principi da cui essi scaturiscono. E costituirebbe un segnale di non volontà a procedere se qualcuno proponesse che quel riferimento alla tradizione cristiana compaia in qualche manifesto del nuovo partito. Esso si configurerebbe non solo come una forma inaccettabile di integralismo, ma anche di violazione di quei principi costituzionali.

Le differenze nelle concezioni etiche fra di noi non vanno negate, dunque, ma affrontate. L’esperienza consolidata del cattolicesimo democratico, quella di apertura al dialogo della Democrazia Cristiana in alcune fasi storiche, che hanno prodotto grandi riforme sui diritti civili, e la più recente fatica della mediazione in tema di bioetica dimostrano che ci si può riuscire. E comunque, non è questa «la» differenza che può bloccare un processo importante per l’Italia, per realizzare un progetto che può fare invece la differenza nella scena politica nazionale ed europea. Bisogna farlo pensando al futuro più che a ciò che nel passato ci ha tenuti divisi, senza farsi tentare dal gioco di chi ha vinto e chi ha perso nella storia. Bisogna farlo per «amore del mondo», come direbbe Hannah Arendt, per responsabilità verso il mondo comune.