Religione e politica: l'esperienza storica del PCI

Di Giuseppe Vacca Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

La creazione del Partito Democratico è un’impresa densa di sfide che non è retorico definire di portata storica. La prima è quella di unire in un’unica formazione politica le correnti del riformismo, un fatto inedito nella storia d’Italia. La seconda origina dal modo in cui si concluse il lungo dopoguerra, dissolvendo, in Italia, fatto unico in Europa, l’intero sistema dei partiti. La terza discende dalla incongruenza del sistema politico che ne è seguito, il quale costituisce forse il principale ostacolo alle riforme che sarebbero necessarie per fare del paese un attore più incisivo (e più rispettabile) dell’integrazione europea. Tant’è che la costruzione del Partito Democratico si configura come un momento decisivo della ricostruzione del sistema politico; e questo, per l’asimmetria e l’ineludibile interdipendenza dei due processi, rende ancora più arduo il compito dei suoi promotori. La quarta sfida consiste nella necessità di inserire la creazione del nuovo partito in un processo di rassodamento dell’intelligenza italiana, indebolita da una trentennale deriva del sistema informativo, dell’industria culturale, dell’organizzazione dell’università e della ricerca.

 

La creazione del Partito Democratico è un’impresa densa di sfide che non è retorico definire di portata storica. La prima è quella di unire in un’unica formazione politica le correnti del riformismo, un fatto inedito nella storia d’Italia. La seconda origina dal modo in cui si concluse il lungo dopoguerra, dissolvendo, in Italia, fatto unico in Europa, l’intero sistema dei partiti. La terza discende dalla incongruenza del sistema politico che ne è seguito, il quale costituisce forse il principale ostacolo alle riforme che sarebbero necessarie per fare del paese un attore più incisivo (e più rispettabile) dell’integrazione europea. Tant’è che la costruzione del Partito Democratico si configura come un momento decisivo della ricostruzione del sistema politico; e questo, per l’asimmetria e l’ineludibile interdipendenza dei due processi, rende ancora più arduo il compito dei suoi promotori. La quarta sfida consiste nella necessità di inserire la creazione del nuovo partito in un processo di rassodamento dell’intelligenza italiana, indebolita da una trentennale deriva del sistema informativo, dell’industria culturale, dell’organizzazione dell’università e della ricerca. La quinta sfida, infine, è nel carattere del tutto particolare delle forze che lo promuovono: correnti del riformismo socialista e del riformismo cattolico, derivanti principalmente dai due maggiori partiti della prima Repubblica, la DC e il PCI, che non solo s’erano combattuti per più di quattro decenni, ma rappresentavano anche due formazioni atipiche, in Europa, ciascuna nel proprio campo.

Questo sommario elenco delle sfide che attendono la formazione del nuovo partito non vuole ingigantirne le difficoltà e tanto meno scoraggiare l’impresa. Si potrebbe farlo seguire da un elenco altrettanto significativo delle condizioni favorevoli che la rendono possibile e necessaria. Ma è bene essere consapevoli della sua portata, perché qui è il suo fascino e la ragione che può suscitare le energie e modulare la «prudenza» indispensabili per la sua riuscita. Mi è stata chiesta una riflessione di carattere storico sui percorsi che possono sostenere il nuovo progetto. Mi limiterò a un solo tema, reso cogente dalla eterogeneità ideale originaria dei riformismi che oggi si vogliono unire in un partito: la matrice socialista dell’uno, quella cattolica dell’altro. Mi pare l’aspetto più delicato e saliente del problema, e vorrei affrontarlo con l’attenzione che meritano la lezione del passato e la novità dell’evento. Il tema evoca tre questioni cruciali per la formazione di un partito politico in Italia, fra loro strettamente intrecciate: la «questione religiosa», la «questione cattolica» e la «questione vaticana». Per la limitatezza delle mie conoscenze mi soffermerò sul modo in cui esse furono affrontate dal PCI nei passaggi più delicati della storia della Repubblica.

 

Questione religiosa, questione cattolica e questione vaticana

Nella relazione al V Congresso, nel quale furono disegnati gli indirizzi strategici e i caratteri originari del «partito nuovo» (29 dicembre 1945), Togliatti assumeva i Patti lateranensi e il Concordato come soluzione definitiva della «questione romana». Questa posizione non sarebbe stata possibile senza la svolta radicale avvenuta nel corso della seconda guerra mondiale, che aveva indotto il Vaticano a conciliare Chiesa cattolica e democrazia, e, d’altro canto, il riscontro essenziale della collaborazione fra la DC, il PCI e il PSI prima nella Resistenza e poi nei governi di unità antifascista. Ma non è su quest’ordine di problemi che vorrei richiamare l’attenzione, quanto piuttosto sulle cruciali questioni di principio che in quella posizione si scioglievano. Non è inutile ricordare il modo in cui Togliatti le evocava, le distingueva e le coniugava. Egli considerava basilare, per il futuro dell’Italia, «una giusta definizione dei rapporti tra lo Stato democratico e la Chiesa» perché da essi sarebbero dipesi la laicità dello Stato e l’unità morale del popolo italiano. È degno di attenzione ch’egli considerasse la libertà religiosa come il fondamento d’una democrazia liberale. Il modo in cui questa sarebbe stata regolata dalla Costituzione avrebbe definito i confini fra la Chiesa e lo Stato. Ma in un paese in cui ha sede il Vaticano essi non potevano essere regolati altrimenti che in modo bilaterale e pattizio (fra i due Stati e fra lo Stato e la Chiesa italiani). E da ciò dipendevano, infine, la pace religiosa e l’unità morale della nazione, composta da credenti e non credenti. Quanto ai primi, i dati salienti erano due: il fatto che in Italia le masse cattoliche fossero la stragrande maggioranza e che, per le ragioni accennate, erano e avrebbero continuato ad essere influenzate in modo diretto dal Vaticano:

«Poiché l’organizzazione della Chiesa continuerà ad avere il proprio centro nel nostro paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo dunque regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso. La nostra posizione è anche a questo proposito conseguentemente democratica. Rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Consideriamo queste libertà come libertà democratiche fondamentali, che devono essere restaurate e difese contro qualunque attentato da qualunque parte venga. Oltre a questo esistono però altre questioni che interessano la Chiesa e sono state regolate col patto del Laterano. Per noi la soluzione data alla questione romana è qualche cosa di definitivo, che ha chiuso e liquidato per sempre un problema. Al patto del Laterano è però indissolubilmente legato il Concordato. Questo è per noi uno strumento di carattere internazionale oltre che nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto se non per intesa bilaterale, salvo violazioni che portino l’una parte o l’altra a denunciarlo».1

Proiezione diretta di questa impostazione era la natura «programmatica» del «partito nuovo». La democrazia europea era ed è «democrazia di partiti». I partiti sono «la democrazia che si organizza», affermava Togliatti nei dibattiti della Costituente, «la democrazia che si afferma». Questo tratto saliente della democrazia postfascista ne faceva i protagonisti di quella che più tardi Paolo Barile avrebbe chiamato «la Costituzione vivente». Il modo in cui la «laicità» veniva regolata era essenziale, dunque, non solo nella vita dello Stato, ma anche in quella dei partiti. L’articolo 2 dello Statuto approvato nel V Congresso del PCI (gennaio 1946) così recitava al riguardo: «Possono iscriversi al Partito comunista italiano i cittadini che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età e che – indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche – accettino il programma politico del partito e si impegnino ad operare per realizzarlo».

Sulla base dei principi accennati il PCI giunse a votare l’articolo 7 della Costituzione, che recepisce sia i Patti lateranensi, sia il Concordato. La loro costituzionalizzazione non era indispensabile, ma poiché il Vaticano lo chiedeva in modo pubblico e pressante, Togliatti ritenne di dover accedere alla sua richiesta perché questo avrebbe giovato a rendere più solide le basi della democrazia repubblicana e, prima del voto, fece conoscere l’orientamento del PCI in modo riservato solo al Vaticano.2 La lunga dichiarazione con cui il 27 marzo del 1947 egli motivò all’Assemblea costituente il voto favorevole del PCI all’articolo 7 è stata ripubblicata di recente da Giulio Andreotti su «Trenta Giorni» come un testo esemplare della costruzione della Repubblica e forse è abbastanza conosciuta. Ma non è superfluo soffermarsi su alcune motivazioni di quel voto perché rendevano esplicite le considerazioni di ordine storico e i principii su cui la posizione del PCI si basava. Le prime si riassumono nella percezione del mutamento dei rapporti fra la Chiesa cattolica e la democrazia a cui abbiamo già accennato: maturato nel corso della «guerra antifascista», esso aveva creato le condizioni per dare basi democratiche e di massa alla pace religiosa, cambiando il segno della Conciliazione del 1929. Togliatti ravvisava in ciò l’inizio di un mutamento graduale, contraddittorio e stentato, ma irreversibile dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti della modernità. Nella guerra di liberazione, egli osservava, «avemmo profonda l’impressione che la pace religiosa ci fosse. Vedemmo infatti nelle nostre unità partigiane operai cattolici affratellati con militanti comunisti e socialisti; vedemmo nelle unità comandate dai migliori tra i nostri capi partigiani, i cappellani militari, sacerdoti, frati, accettare la stessa nostra disciplina di lotta. Tutto questo ci permetteva di ritenere che la pace religiosa fosse stata raggiunta. Per questo chiudemmo quella pagina, né avevamo alcuna intenzione di riaprirla». Ora, egli argomentava, accogliere le richieste del Vaticano sull’articolo 7 non era quindi una concessione e tanto meno un cedimento perché nel corso della guerra di liberazione e della «guerra antifascista» non era mutata solo la posizione della Chiesa, ma anche quella della classe operaia, che per il ruolo svolto nella lotta al fascismo e per la sua visione della nazione, della libertà e della democrazia si sentiva e operava come nuova classe dirigente. Di fronte alle richieste della Chiesa di non creare una frattura nel popolo italiano, il PCI, che rappresentava una parte significativa delle classi lavoratrici, intendeva far valere anche un loro interesse, non meno profondo e cogente di quello affermato dalla Chiesa, a che fosse «mantenuta e rafforzata l’unità morale e politica della Nazione, sulla base di una esigenza di rinnovamento sociale e politico profondo». Attraverso il riconoscimento d’una richiesta giustificata dell’altra parte Togliatti riteneva, infine, che si ponessero le basi per una soluzione soddisfacente della «questione religiosa» anche nella prospettiva d’una trasformazione socialista. Infatti, piegando ai suoi scopi la nuova realtà dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa ortodossa creatasi in Russia durante la «grande guerra patriottica», egli concludeva che, votando l’articolo 7, il PCI intendeva dimostrare «che non vi è contrasto fra un regime socialista e la coscienza religiosa di un popolo; [e che] non vi è nemmeno contrasto fra un regime socialista e la libertà religiosa della Chiesa, e in particolare di quella cattolica». «Questa è la posizione di principio più profonda – diceva a suggello della dichiarazione di voto – che non solo giustifica, ma spiega la posizione che noi prendiamo in questo voto. Vogliamo rendere sempre più evidente al popolo italiano questa verità».

 

Guerra e pace nell’era atomica

Il sopravvento della guerra fredda e le persecuzioni religiose scatenate nelle democrazie popolari portarono nel 1949 alla scomunica dei cattolici che militavano nel PCI e nel PSI, votavano per essi o ne leggevano la stampa. Ma quei partiti ressero bene la prova, e la soluzione data in Costituzione alle tre «questioni» non venne seriamente colpita o messa in discussione. Se un grande merito ebbe la DC di De Gasperi nel difendere la laicità del nuovo Stato4 e nel resistere alle pressioni della destra americana per la messa al bando del PCI,5 credo che un merito almeno pari vada riconosciuto ai partiti operai, che evitarono la trappola d’una «guerra di religione» facendo della Costituzione il loro programma e la loro bandiera. Ma quello su cui vorrei attirare l’attenzione è la lungimiranza della visione storica che aveva ispirato la posizione di Togliatti fra il 1944 e il 1947. È qui la radice, io credo, d’una condotta che non solo evitò l’abisso d’una «guerra di religione», ma mantenne ferma la convinzione che la «struttura del mondo» originata dalla guerra poteva rendere caduca la guerra fredda, e che la mondializzazione delle vicende umane in cui anche la Chiesa cattolica era immersa ne avrebbe rilanciato l’universalismo. Questo apriva un ampio campo d’iniziativa rivolta alle masse cattoliche, attraverso cui sarebbe stato possibile influenzare anche la collocazione internazionale del Vaticano. Tratto distintivo della percezione togliattiana del mondo del dopoguerra fu sicuramente la consapevolezza tempestiva ch’egli ebbe, caso raro fra gli uomini politici del suo tempo, della novità tremenda, ma anche delle nuove prospettive create dalla bomba atomica.6

Traducendo sul piano storico-politico quella novità Togliatti colse lucidamente che essa mutava la correlazione fra la politica e la guerra, e da questo derivò un’impostazione della «lotta per la pace» destinata a mutare, nel tempo, gli orientamenti del movimento comunista, ancorato dalle origini all’idea della inevitabilità della guerra. Di questo complesso svolgimento, di cui le posizioni del 1944-47 costituirono il nucleo dinamico, prenderemo in considerazione alcuni momenti che più direttamente attengono alla tre «questioni» che abbiamo scelto di trattare.

Nella contraddittoria transizione dal clima della guerra fredda alla distensione si collocano due eventi particolarmente significativi: la creazione della bomba all’idrogeno, a cui anche l’Unione Sovietica era giunta nel 1953, e il tentativo di fondare una Comunità Europea di Difesa. Com’è noto, il suo fallimento inferse un colpo incalcolabile all’integrazione europea che con la creazione della CECA aveva mosso i primi passi. L’Unione Sovietica avversava fermamente il progetto perché temeva il riarmo tedesco e considerava la CED inevitabilmente subordinata alla politica americana del containment e del roll back. Il PCI condivideva questa visione e, non percependo le dinamiche più profonde che percorrevano il campo euroatlantico, contrastò con forza il trattato. Dopo la morte di Stalin nel gruppo dirigente sovietico era stata avviata una contrastata ricerca di nuovi schemi di politica estera per superare le rigidità dello scontro fra «i due campi» cominciato con la creazione del Cominform. Ai primi del 1954 Molotov lanciava la proposta di trasformare il Patto Atlantico in un patto per la sicurezza collettiva e il controllo reciproco degli armamenti. Sul piano dei principi la principale novità stava nel resuscitare la «convivenza pacifica».7 Ma quello su cui va qui attirata l’attenzione è l’enfasi che Togliatti poneva sulla sua giustificazione storica e le conclusioni a cui giungeva. Dinanzi al rischio di una «catastrofe totale» che avrebbe travolto l’intera «civiltà umana» si prospettava la necessità di esplorare «con uno spirito radicalmente nuovo» la possibilità di dar vita ad «uno schieramento di forze molto diverse le une dalle altre per la loro natura, per il loro carattere sociale e politico, che sarebbe, di fatto, un movimento per la conservazione della civiltà umana, per la conservazione dell’umanità stessa». Il compito trascendeva i confini e i contrasti esistenti fra le classi e i gruppi sociali, e adombrava la possibilità di un riconoscimento comune dell’interesse supremo di tutta l’umanità al mantenimento della pace:

«Il compito che sta oggi davanti a tutti coloro i quali nutrono sentimenti di umanità, apprezzano la vita umana e la civiltà che gli uomini hanno creato, a tutti coloro che sanno che questa è la sola cosa che ha valore nel mondo e che deve ad ogni costo essere salvata, il compito è di riuscire a creare questo larghissimo schieramento di uomini per la conservazione della nostra civiltà, e dargli un peso decisivo nella situazione di ogni paese e nella situazione internazionale, fino a farlo diventare una forza irresistibile».

Il primo interlocutore dell’iniziativa del PCI erano «le masse cattoliche» sia per la sensibilità che sul tema della pace le accomunava alle masse comuniste e socialiste, sia per l’influenza che un loro schieramento comune avrebbe potuto esercitare sui vertici della gerarchia ecclesiastica, spingendoli a distaccare la Chiesa dalla logica della guerra fredda. Questo sarebbe stato di impulso ad un movimento che andava ben al di là dei confini nazionali: «tra le masse su cui si fonda il mondo cattolico organizzato e le masse comuniste e socialiste – affermava Togliatti – vi sono oggi molti più punti di contatto che non tra i quadri che le dirigono e soprattutto fra le sommità dei due mondi. Perciò vi è una estesa possibilità di comprensione, di avvicinamento, di accordo e questa è la strada sulla quale noi dobbiamo muoverci, questa è particolarmente la strada sulla quale dobbiamo lavorare noi comunisti italiani, che ci troviamo al centro del mondo cattolico e a cui quindi la storia, le cose stesse, affidano un compito particolare».

«La situazione è nuova. Il tema è nuovo. Nuove siano le indicazioni e le soluzioni che vengono presentate», egli incalzava, e sul terreno della politica interna proponeva di subordinare i conflitti di classe alle convergenze possibili fra i partiti di massa sul tema della pace:

«Noi avanziamo quella dottrina che è stata giustamente presentata come dottrina della possibilità di convivenza e di pacifico sviluppo, e indichiamo quali sono le conseguenze che devono essere ricavate oggi da un’applicazione di questa dottrina nel campo dei rapporti interni di un solo Stato. Tendiamo cioè alla comprensione reciproca, tale soprattutto che permetta di scorgere che esiste oggi un compito di salvezza della civiltà, nel quale il mondo comunista e il mondo cattolico possono avere gli stessi obiettivi e collaborare per raggiungerli».8

Forse non è superfluo ricordare il commento sarcastico di Secchia a quel discorso, con il quale Togliatti, egli diceva, dopo averci fatto «ingoiare» «la nazione» (il riferimento era alla Resistenza), ora voleva farci «ingoiare» «l’umanità». Ma, per tornare agli sviluppi concettuali dell’impostazione data alle tre questioni fra il 1944 e il 1947, va segnalata la revisione della concezione marxista del «fatto religioso», a cui il PCI approdò nei primi anni Sessanta approfondendo la riflessione sulla politica e la guerra iniziata nel 1945. Nelle Tesi approvate dal X Congresso (dicembre 1962) esso ne riconobbe l’irriducibilità, l’autonomia e la positività. «Si tratta di comprendere – affermavano infatti quelle Tesi – come l’aspirazione a una società socialista non solo possa farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare uno stimolo in una sofferta coscienza religiosa posta dinanzi ai drammatici problemi del mondo contemporaneo». Certo, questa tesi venne approvata quando il Concilio Vaticano II era in pieno svolgimento; la crisi originata dalla installazione dei missili sovietici a Cuba era stata appena superata e cominciava un rilancio della distensione; sotto la presidenza Kennedy gli Stati Uniti si impegnavano a ridurre le distanze fra i paesi sviluppati e quelli sottosviluppati, e «l’età dell’oro» dell’economia mondiale era in piena fioritura. Insomma, erano gli anni di Papa Giovanni, di Kennedy e di Krusciov che simboleggiavano le speranze di pace e di progresso dell’umanità. Ma erano anche gli anni della guerra del Vietnam, della rottura fra l’URSS e la Cina, e della crisi della destalinizzazione. Togliatti viveva con crescente apprensione la crisi del mondo comunista e il suo revisionismo non si limitava alle «questioni» di cui ci occupiamo in questa sede.9

 

Il mobile confine della modernità

Per tornare ad esse, il filo del discorso ci rimanda al nucleo dinamico della visione togliattiana del mondo del secondo dopoguerra che ci sembra di poter sintetizzare nella percezione di un irreversibile sviluppo della soggettività dei popoli. Essi si rivelavano sempre più capaci di incidere sugli equilibri internazionali e di condizionare gli orientamenti delle istituzioni più consolidate. Fra questi spiccavano i mutamenti della Chiesa conciliare. Ci pare che sia stato questo modo di analizzare i processi storici a stimolare le innovazioni più significative contenute nel discorso di Bergamo del 20 marzo 1963. Esso venne pronunciato un mese prima della pubblicazione dell’enciclica «Pacem in terris», di cui probabilmente Togliatti conosceva non solo la preparazione, ma anche i contenuti. Certo non fu casuale che egli scegliesse la città natale di Papa Roncalli per pronunciarlo, né che lo pronunciasse così a ridosso dell’enciclica. Anche questa era densa di revisioni della dottrina sociale della Chiesa, fra le quali la più significativa (in rapporto ai temi affrontati da Togliatti) è certamente la distinzione fra l’errore (il marxismo) e gli erranti (i movimenti politici che, pur ispirandosi ad esso, promuovono processi di emancipazione e liberazione umana) che cancellava i presupposti della scomunica del 1949 e apriva la strada alla collaborazione fra credenti e non credenti per comuni obiettivi di difesa della pace e di valorizzazione della persona umana. Il discorso di Togliatti è passato alla storia con il titolo significativo «Il destino dell’uomo», con cui venne pubblicato per la prima volta su «Rinascita» il 30 marzo 1963.

Sul piano politico la novità più significativa era nella impostazione del dialogo fra comunisti e cattolici come un tema della politica mondiale, non più solo o eminentemente italiano. Nei due anni precedenti, Togliatti era stato un tramite operoso della svolta nei rapporti fra Mosca e il Vaticano, simboleggiata dal telegramma di auguri di Krusciov al Papa in occasione del suo ottantesimo compleanno (25 novembre 1961) e dalla visita della figlia Nina e del genero Adzubej, direttore della «Izvestija», in Vaticano avvenuta pochi giorni prima.10 Tuttavia non abbiamo elementi per dire in che misura Togliatti fosse o potesse ritenersi autorizzato a parlare a nome del «mondo comunista». D’altro canto, l’impostazione del problema come intesa fra due complessi di «forze reali» rappresentati rispettivamente dal «mondo comunista» e dal «mondo cattolico» appare un aspetto caduco del discorso, legato ad una «struttura del mondo» che già allora era in crisi e che ormai non c’è più.

Né può essere considerato un suo punto di forza il fatto che Togliatti legava la proposta alle prospettive mondiali del socialismo. Ma su questo avremo modo di tornare più avanti. Quello che importa ora sottolineare sono invece le novità con cui leggeva l’evoluzione della Chiesa cattolica, la revisione ancor più radicale del marxismo in tema di religione, e la nuova concezione della politica che proponeva innanzi tutto alla propria parte, ma anche agli altri attori della scena mondiale. Revisione del pensiero politico moderno sul problema della guerra, revisione teorica radicale del fenomeno religioso, percezione della novità assoluta della struttura del mondo postbellico facevano blocco, anticipando i lineamenti di quel «nuovo modo di pensare» che poco più di venti anni dopo avrebbe annunciato i punti salienti dell’agenda mondiale del XXI secolo.

Aggiornando un pensiero già avanzato nell’immediato dopoguerra, Togliatti individuava nella condizione atomica e nell’interdipendenza politica sviluppatasi nel mondo bipolare non solo la necessità, ma anche  la possibilità nuova di fare della pace il bene supremo per tutte le correnti politiche, ideali e religiose dell’umanità: la priorità assoluta della politica mondiale rispetto a qualunque altro interesse di parte, nazionale, di classe o di campo. Rispetto alla dottrina sovietica della «coesistenza pacifica», che la concepiva come proiezione della lotta di classe sul piano internazionale, la revisione, come vedremo, era totale. Il fondamento storico di essa era duplice: da un lato lo sviluppo delle tecnologie militari metteva fine all’equazione fra la politica e la guerra che aveva attraversato tutta la storia dell’umanità; dall’altro, la capacità di distruzione reciproca fra i due blocchi originava l’impossibilità, sia per l’uno che per l’altro, di ricorrere alla guerra come mezzo per imporre il proprio predominio o per risolvere le controversie internazionali. Per la prima volta nella storia, affermava Togliatti, l’umanità poteva «suicidarsi» e questo mutava definitivamente la correlazione fra la politica e la guerra. Non solo il teorema di Clausewitz (la concezione della guerra come «prosecuzione della politica con altri mezzi») non era più valido (non aveva più un fondamento storico «realistico»), ma mutava radicalmente la natura stessa della politica, non più riducibile alla coppia amico-nemico. Ciò poneva a tutte le correnti del pensiero contemporaneo, a tutti gli individui e a tutti i gruppi sociali, ai popoli, alle religioni, alle nazioni e agli Stati la necessità di ripensare le basi del loro agire e di assumere come nuovo paradigma «la coscienza della comune natura umana»:

«L’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto. E una dimensione nuova acquista, di conseguenza, tutta la problematica dei rapporti tra gli uomini, le loro organizzazioni e gli Stati, in cui queste trovano il culmine. La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata. Diventa il possibile suicidio di tutti, di tutti gli esseri umani e di tutta la loro civiltà. E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare se stesso. Ma riconoscere questa necessità non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».11

Sostituire al teorema di Clausewitz il nuovo paradigma voleva dire trascorrere dalla inevitabilità alla evitabilità della guerra come bussola dell’agire politico e concepirla come un obiettivo possibile. Si poneva quindi il compito di superare la guerra fredda e smantellarne le strutture: «Gli attuali blocchi militari sono da considerare […] cosa contingente, sorta in determinate circostanze e condizioni e che può e deve essere modificata e tolta di mezzo, attraverso un’azione ampia e convinta di uomini, di forze politiche e sociali, di popoli e anche di governi». La chiave interpretativa della storia mondiale non poteva più essere, quindi, la «teoria dell’imperialismo»; essa era sostituita dal «principio d’interdipendenza» come criterio analitico e fondamento dell’agire strategico. L’interlocutore prescelto per questo progetto era la Chiesa cattolica che, con il Concilio Vaticano II, aveva messo fine all’«età di Costantino» («l’identificazione […] tra mondo occidentale e mondo cattolico»). Infatti, pensare l’unità del mondo e costruire l’unità del genere umano secondo il paradigma dell’interdipendenza significava realizzare una piena solidarietà non solo fra i credenti delle diverse religioni, ma anche fra credenti e non credenti, di cui in ultima istanza si componevano le moltitudini umane. E in questo compito la «potenza» motrice in campo religioso poteva e di fatto già si avviava ad essere la Chiesa conciliare. Partendo dalla situazione data, il punto d’avvio del processo era individuato nell’«incontro» fra comunisti e cattolici. L’impostazione realistica di esso suggeriva di non partire da un confronto di ideologie, ma di «considerare il mondo comunista e il mondo cattolico come un complesso di forze reali – Stati, governi, organizzazioni, coscienze individuali, movimenti di varia natura». Come abbiamo già accennato, in questa impostazione vi erano due limiti seri: l’ipostasi di una suddivisione transeunte dei due «complessi di forze» e la sottovalutazione della storicità asimmetrica delle istituzioni – la Chiesa cattolica e l’URSS – che ne costituivano i centri. Ma l’obiettivo che Togliatti poneva andava oltre la contingenza storica poiché la proposta che egli avanzava alle due parti era quella di «studiare se e in qual modo, di fronte alla rivoluzione del tempo presente e alle prospettive di avvenire, [fossero] possibili una comprensione reciproca, un reciproco riconoscimento di valori e quindi una intesa e anche un accordo per raggiungere fini che siano comuni in quanto siano necessari, indispensabili, per tutta l’umanità» (corsivo di g.v.). La necessità di un «reciproco riconoscimento di valori» trascendeva la realtà degli attori a cui immediatamente il discorso si rivolgeva e si proiettava nell’immenso campo delle relazioni fra credenti e non credenti.

L’impostazione del discorso di Bergamo si basava su due presupposti che dobbiamo brevemente analizzare: il primo, era la revisione storica e filosofica sottesa alle tesi sulla «coscienza religiosa» votate dal Congresso del PCI pochi mesi prima; il secondo riguardava la religione civile che Togliatti evocava come fondamento filosofico del socialismo. Il «reciproco riconoscimento di valori» fra comunisti e cattolici era ora possibile perché i primi avevano superato la visione «illuministica» della religione come forma di coscienza transeunte, destinata ad essere superata o travolta dagli sviluppi della modernità:

«Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, noi non accettiamo più la concezione, ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali. Questa concezione, derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’Ottocento, non ha retto alla prova della storia. Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa. Anche da queste constatazioni noi ricaviamo la necessità della reciproca, profonda comprensione e quindi della collaborazione».

Dal canto loro anche i comunisti erano portatori di valori religiosi, derivanti non da una rivelazione ma da una visione storica dello sviluppo dell’umanità in cui l’unità del genere e la valorizzazione della persona umana erano iscritte come traguardo possibile e come imperativo morale. Dopo aver ricordato le sconfitte che la Chiesa aveva subito per non aver compreso «lo spirito dei tempi» (dal «Sillabo» del 1864 alla scomunica del 1949), Togliatti diceva:

«Alle volte ci sentiamo dire, in tono di accusa, che siamo anche noi una religione, anzi persino una Chiesa. Ciò è vero nel senso che abbiamo una fede, cioè la certezza che la trasformazione socialista della società, per cui combattiamo, non è soltanto una necessità, ma un compito che impegna, con la certezza del successo, la parte migliore dell’umanità».

Il punto su cui va fermata l’attenzione è lo spostamento del finalismo socialista all’esterno del movimento storico in cui esso consisteva. Infatti, dichiarare certo il successo della trasformazione socialista perché impegnava «la parte migliore dell’umanità» e concepire questa certezza come una «fede» vuol dire fare del socialismo – in quanto movimento storico – un mezzo e non più un fine. Lo spostamento teorico aveva grandi implicazioni di ordine politico che non possiamo analizzare in questa sede. L’analisi andrebbe estesa ad altre «revisioni» dell’«ultimo Togliatti» e innanzi tutto a quel passaggio fondamentale del Rapporto al X Congresso in cui egli aveva riconosciuto di non poter prevedere se e quando la trasformazione della società per cui il PCI lottava avrebbe assunto quei caratteri «qualitativamente» nuovi a cui si potesse dare il nome di socialismo.12

Ma, per limitarci ai temi di questo scritto, forse è opportuno notare come la concezione del socialismo che qui emerge con più nettezza che in altri momenti del pensiero di Togliatti non è quella leninista, ma piuttosto quella classica di Marx, più propria alla tradizione italiana (Labriola, Mondolfo, Gramsci). Il socialismo di cui egli considera certo il successo è il movimento storico internazionale che, scaturito dal seno della modernità capitalistica, era destinato a risolverne le antinomie. Il capitalismo ha unificato il mondo in modo contraddittorio (città e campagna, sviluppo e sottosviluppo, dominanti e dominati ecc.). In questo suo procedere vi è la forma peculiare della sua storicità e dal suo antagonismo costitutivo origina il movimento che può proporsi di unificare il genere umano solidalmente. Sarebbe interessante prendere in esame il modo in cui Togliatti individuava le componenti attuali di tale movimento. Ma, per tornare al discorso di Bergamo, egli aveva chiaramente in mente il superamento del dilemma originario della modernità e si proponeva di individuarne i soggetti: in parte essi erano già dati (i due «complessi di forze reali» che ne costituivano la base di partenza), ma soprattutto erano da generare, da moltiplicare e da connettere. Il motore del processo è da un lato il reciproco riconoscimento della comune natura umana esposta a rischi inediti e mortali, dall’altro una unificazione del genere già molto avanzata, tanto da poter costituire la base di un movimento politico mondiale. I suoi fini si declinano nei termini universalistici più ampi: l’unificazione solidale del genere e la piena realizzazione della persona umana. I suoi attori sono naturaliter plurali e nel processo si influenzano a vicenda, mutano e si ridefiniscono. Gli antagonismi di partenza non sono irenicamente ignorati ma, sulla base di una interpretazione perspicua della loro origine, possono essere indirizzari alla integrazione del mondo e all’unificazione del genere. Mi pare evidente che siamo di fronte ad una declinazione innovativa e peculiare del marxismo: la concezione materialistica della storia non si riduce alla teoria della lotta di classe e si apre a nuovi sviluppi, derivanti dai mutamenti della struttura del mondo e della condizione umana.

Mi pare che questo modo di vedere le cose derivasse, come ho detto, dalla «tradizione» italiana del marxismo, aggiornandola. In essa il socialismo era definito come il movimento storico caratterizzato dalla fusione fra il marxismo e il movimento operaio, del quale il soggetto reale era quest’ultimo, e rimaneva un soggetto unitario anche dopo le rotture prima fra i socialisti e gli anarchici, e poi fra comunisti e socialisti. Sorto dal seno della modernità, il movimento operaio si ergeva di fronte ad essa come il soggetto risolutore del suo dilemma, che avrebbe potuto trasformare l’unità antagonistica del genere umano, asimmetrica, ingiusta, precaria ed esposta a prospettive catastrofiche, in una unificazione reale, aperta al futuro e solidale.

Nel discorso di Bergamo la «certezza» dell’esito socialista dei dilemmi della modernità, basata sulla concezione materialistica della storia, si risolveva nella affermazione che, per costruire la sua libertà, l’uomo deve diventare «padrone» non solo della natura, come anche il Papa aveva di recente riaffermato citando la «Genesi», ma «anche della società e del suo sviluppo, sottraendoli al dominio degli egoismi, degli arbitrii, delle violenze, dello sfruttamento» poiché soltanto in questo modo «si può giungere, crediamo, a quel pieno sviluppo della persona umana che è la mèta di tutta la storia degli uomini». L’orizzonte del socialismo oltrepassava quindi l’esperienza della lotta di classe, non si esauriva nei modelli di società finora realizzati in suo nome, e la «fede» che guidava i suoi militanti era concepita come «una completa religione dell’uomo».13

Era prevedibile che il punto di arrivo di questa riflessione fosse il riconoscimento della matrice cristiana dei valori del socialismo europeo; e nella lunga marcia di avvicinamento ad esso il PCI vi giunse negli «anni di Berlinguer».14 Com’è noto, gli anni Settanta si caratterizzavano per una ricerca convergente di Moro, Berlinguer e De Martino, di uno sbocco alla crisi italiana. Non è tema su cui occorra ritornare in questa sede, ma, per concludere questa sommaria riflessione, occorre ricordare l’intensificarsi del confronto e del dialogo fra comunisti e cattolici nel triennio della solidarietà nazionale. Rispondendo a Monsignor Luigi Bettazzi, il vescovo di Ivrea che subito dopo le elezioni del 20 giugno 1976 aveva rivolto domande stringenti a Berlinguer circa la concezione della società a cui il PCI guardava, nell’ottobre 1977 il segretario del PCI poté rispondere agevolmente:

«Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società ‘cristiana’ o uno Stato ‘cristiano’: e non già perché siamo anticristiani ma solo perché sarebbero anch’essi una società o uno Stato ‘ideologici’, integralisti».15

 

E ora?

L’enfasi sulla laicità della politica e dello Stato era motivata più dalla necessità di marcare le distanze dal «socialismo reale» che dalla situazione italiana. In questa, infatti, la laicità della politica e dello Stato sono definite dalla Costituzione e il PCI non solo aveva contribuito ad elaborarla, ma vi si era sempre richiamato sia nelle lotte contro il clericalismo, molto vive negli anni Cinquanta, sia come suo «programma fondamentale». Ma con gli anni Settanta l’esperienza storica del PCI in rapporto alle tre «questioni» qui affrontate può dirsi compiuta. Per trarne qualche insegnamento conviene quindi fissare brevemente le novità della situazione odierna. Per quanto riguarda la laicità dello Stato, l’articolo 7 della Costituzione aveva introdotto una grave incongruenza, poiché il Concordato del 1929 riconosceva alla religione cattolica la prerogativa di «religione dello Stato». Essa è stata rimossa dal nuovo Concordato del 1984, secondo il quale «si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come la sola religione dello Stato italiano» (Protocollo addizionale all’art. 1). In tal modo la condizione di tutte le religioni è stata equiparata quanto meno in via di principio, e la regolazione costituzionale della laicità dello Stato appare più completa. Altro è il problema della sua applicazione concreta che muta nei tempi, nella mentalità e negli atteggiamenti degli attori, e nei contenuti. Ma, per stabilire il punto di riferimento attuale della laicità dello Stato mi pare indubbio che tanto sul piano ideale, quanto sul piano regolativo, esso sia per tutti la Costituzione repubblicana.

Mi pare molto più complesso il problema della laicità della politica, cioè del modo concreto di definire il sistema di valori con cui un partito politico risolve, nel suo agire, i problemi nuovi che sorgono dagli sviluppi delle scienze e delle tecnologie che consentono la manipolazione della vita, dall’espandersi della convivenza multietnica e multireligiosa, dagli sviluppi della sovranazionalità, dai nuovi vincoli degli Stati nazionali, dagli ulteriori mutamenti dei caratteri della guerra nel mondo post-bipolare. In Italia essi incrociano le tre «questioni» di cui ci occupiamo in questo articolo e hanno una rilevanza decisiva per la definizione della carta dei valori del Partito Democratico. Si incontra qui l’aspetto più delicato e sensibile della creazione del nuovo partito perché essa dipende dalla possibilità di unificare – caso inedito in Europa – i due nuclei più significativi del riformismo socialista e del riformismo cattolico. Il contesto è radicalmente diverso da quello della prima Repubblica, a cui ho fatto riferimento nella ricostruzione storica precedente. L’esperienza della DC è conclusa e non si intravedono né le ragioni, né le condizioni e neppure le forze interessate a riproporre il tema dell’unità politica dei cattolici. Il riformismo cattolico è quindi destinato ad unirsi ad altri riformismi. Per il riformismo socialista quest’incontro ha un grande valore: innanzi tutto esso non è mai stato e non sarebbe oggi né maggioritario, né autosufficiente; in secondo luogo, in Italia come altrove in Europa esso è nel travaglio di una nuova ricerca volta a ripensare le proprie fondamenta. Dopo il Novecento, nel mondo sempre più multipolare e interdipendente, quali sono, oggi, «le ragioni del socialismo»? Nel percorso di alcune grandi socialdemocrazie, per esempio l’SPD, la ricerca è orientata da tempo a ripensare la propria storia risalendo alle origini. E l’origine del socialismo europeo non è solo nella nascita del capitalismo moderno, negli sviluppi della società industriale e nelle vicende per lungo tempo tragiche degli Stati nazionali. Agli inizi vi è stata dappertutto una complessa dialettica fra religione e politica che fece del socialismo una fede, una religione civile, certo, ma, appunto, una religio, che ha costituito la sostanza etica di un movimento storico plurisecolare, nel quale generazioni diverse di uomini e di donne hanno potuto affrontare le difficoltà più estreme, fino al sacrificio della libertà e della vita, per affermare i loro ideali. Nella situazione italiana l’incontro con il riformismo cattolico, che per definizione ruota intorno a una complessa coniugazione di religione e politica, costituisce al tempo stesso una sfida e un pungolo per ripensare le «ragioni del socialismo» non solo in termini di ricerca programmatica, ma innanzitutto in chiave di «riforma intellettuale e morale»: oserei dire di riforma religiosa. Dalla lezione del passato ho trascelto l’esperienza storica del PCI perché mi pare che la sua ricerca sui valori abbia avuto quel respiro, o quanto meno quella ambizione. Lascio al lettore il compito di estrarne il succo. Mi pare che oggi, come allora, il problema si ponga in Italia come capacità di coniugare «questione cattolica», «questione vaticana» e «questione religiosa». Fra i tanti aspetti della situazione che sono invece mutati sottolineerei che, per la creazione del Partito Democratico, la sfida non è più quella di un «reciproco riconoscimento di valori», ma quella della elaborazione di una «tavola di valori» comuni e condivisi da cattolici e socialisti, credenti e non credenti. Ciò che di esemplare mi pare ci sia nella ricerca del PCI che ho ripercorso è la capacità di svilupparla in modo tale da ricavarne indirizzi politici fecondi per affrontare le grandi sfide del nostro tempo: un tempo che per tanti aspetti non è più quello, ma i cui mutamenti non si poterebbero rettamente interpretare senza una onesta ricognizione storica del passato.

 

Bibliografia

1 P. Togliatti, Rapporto al V Congresso del Partito comunista italiano, in L. Gruppi (a cura di), Opere, Editori Riuniti, Roma 1984, vol. V, pp. 210-211.

2 L’episodio è ricostruito sulla base di documenti dell’archivio di «Civiltà Cattolica», da G. Sale, De Gasperi gli Usa e il Vaticano. All’inizio della guerra fredda, Jaca Book, Milano 2005, pp. 145-147.

3 Togliatti, Sull’articolo 7 della Costituzione, in Id., Discorsi Parlamentari, Edizione della Camera dei Deputati, Roma 1984, vol. I, pp. 88-91.

4 Fra le opere più recenti cfr. P. Scoppola, La democrazia dei cristiani, intervista a cura di G. Tognon, Laterza, Roma-Bari 2005; R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. Dc e Pci nella storia della repubblica, Carocci, Roma 2006.

5 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli Usa e la Dc negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, Roma 2001.

6 Nel n. 7-8 di «Rinascita» del 1945 (luglio-agosto) Togliatti pubblicò un breve scritto, non a caso anonimo, su questo tema, intitolato Abbiamo vinto.

7 G. Procacci, La coesistenza pacifica. Appunti per la storia di un concetto, in L. Sestan (a cura di), La politica estera della perestrojka. L’Urss di fronte al mondo da Breznev a Gorbacev, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 46-47.

8 Togliatti, Per un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana, intervento alla riunione del Comitato centrale del PCI del 2 aprile 1954, ora in Id., Opere, cit., vol. VI, pp. 833-841.

9 G. Vacca, Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991, il capitolo finale, intitolato L’Ultimo Togliatti.

10 R. Guarnieri, Don Giuseppe De Luca. Tra cronaca e storia, Edizioni Paoline, Roma 1991, pp. 35-41.

11 Togliatti, Il destino dell’uomo, in Opere, cit., vol. VI, p. 699.

12 Com’è noto, nel 1944-45 Togliatti impostò la politica del «partito nuovo» come una strategia di trasformazione democratica e socialista. Fra democrazia e socialismo veniva stabilito un rapporto di determinazione reciproca, per cui gli elementi di socialismo introdotti gradualmente nell’ordinamento economico e politico dalle lotte delle classi lavoratrici determinavano i caratteri dello Stato democratico; a loro volta, essi si configuravano come affermazione di nuovi diritti di cittadinanza e creazione di una democrazia che in tal modo allargava i suoi confini fino a consentire alle classi lavoratrici di divenire classi dirigenti. Posto dinanzi al problema di specificare la peculiarità di tale concezione, che nell’immediato dopoguerra egli aveva definito «democrazia progressiva», nella relazione al X Congresso del PCI Togliatti non ignorò la difficoltà che essa presentava per la definizione del socialismo e le dette la seguente risposta: «È evidente che nell’accettare questa prospettiva, che è quella di una avanzata verso il socialismo nella democrazia e nella pace, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile dire quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità. Ciò che prevediamo è, in paesi di capitalismo sviluppato e di radicata organizzazione democratica, una lotta, che può estendersi per un lungo periodo di tempo e nella quale le classi lavoratrici combattono per diventare le classi dirigenti e quindi aprirsi la strada al rinnovamento di tutta la struttura sociale». Togliatti, Nella democrazia e nella pace verso il socialismo, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 228.

13 Togliatti, Opere, cit., vol. VI, pp. 697-707.

14 Sui limiti, l’incompiutezza e le ambivalenze di tale percorso cfr. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006.

15 In «Rinascita», 14 ottobre 1977, p. 5.