Unione politica ed europeizzazione della politica

Di Giorgio Napolitano Mercoledì 03 Ottobre 2012 14:20 Stampa

Pubblichiamo di seguito l’intervento svolto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ambito del Festival della Politica, che si è tenuto a Mestre dal 5 all’8 settembre 2012.

Nella versione che mi pare di poter dare del tema propostomi, partirò dall’Europa. Naturalmente verrò poi al quadro italiano. Ma è nel complesso dell’Europa quale oggi ci si presenta, che la politica è in affanno, che la politica – direi – naviga a vista: perché le vecchie mappe risultano, sempre di più, inservibili, e le nuove restano ancora lontane dal giungere a un disegno compiuto.

Il punto cruciale è che in un continente interconnesso come non mai – dall’economia al diritto – la politica è rimasta nazionale. Ed è questo un fattore fondamentale di crisi della costruzione europea, e nello stesso tempo di crisi della politica. Le nuove mappe della politica non possono non abbracciare l’Europa nel suo insieme: e s’intende, l’Europa nel suo rapporto con il mondo di questo inizio del Ventunesimo secolo.

La crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 negli Stati Uniti e di lì propagatasi in tutte le direzioni, ha oggi, come sappiamo, e già da tempo il suo epicentro nell’Europa della moneta unica. È qualcosa che domina la politica e la vita quotidiana; e quando vediamo crescere il numero dei giovani senza lavoro e senza prospettive, quando vediamo crescere il tasso di disoccupazione giovanile – e in Italia nettamente oltre la già elevata media europea – possiamo cogliere in questo fenomeno lo specchio inquietante di tutti i dilemmi che ci assillano, di tutti i rischi che insidiano le nostre società e che incombono sul progetto europeo.

Nel guardare a quel che è accaduto e quindi al da farsi, ritengo si debba partire da una considerazione fondamentale. Le vicende convulse che per effetto della crisi si stanno da un biennio succedendo nell’eurozona spingono con inaudita forza oggettiva in una direzione ineludibile: quella di un’integrazione sempre più stretta e comprensiva tra gli Stati unitisi prima nella Comunità e poi nell’Unione. Sono infatti insorti e divenuti evidenti limiti e contraddizioni superabili solo attraverso un pieno e coerente compimento politico del progetto europeo nato sessanta anni orsono. Questa direzione di marcia, questo balzo in avanti incontra ostacoli e resistenze molto forti: ma sta crescendo la coscienza di come sarebbe catastrofica per l’Europa la scelta opposta, un tornare indietro, un regredire dal cammino compiuto nel corso di un sessantennio. E in effetti, l’Unione politica – il concetto e la prospettiva dell’Unione politica – non è più tabù. Vi si fa riferimento in modo spesso troppo vago, se ne danno accezioni diverse, resta da specificare e discutere il percorso da seguire, nelle sue modalità e nelle sue tappe. Ma il tema è sul tavolo, se non concretamente all’ordine del giorno. Non mi addentrerò oggi qui in questa problematica, e nemmeno tenterò di ricapitolare le decisioni prese negli ultimi due anni dalle istituzioni europee per far fronte alla crisi finanziaria e ai rischi fattisi via via più acuti per l’eurozona, sotto il peso del pericolante debito sovrano di alcuni Stati membri esposti alla pressione dei mercati finanziari. Quel che voglio dire, in estrema sintesi, è che sono esplosi i problemi lasciati nello sfondo e non affrontati dopo la nascita dell’euro, come era necessario in coerenza con quella storica decisione e allo scopo di garantirne le fondamenta e gli sviluppi. Il trasferimento alle istituzioni comunitarie delle sovranità nazionali in quel settore cruciale, e alla neo-istituita Banca centrale europea della gestione effettiva della politica monetaria, avrebbe dovuto essere rapidamente coronato da passi decisi sulla via della definizione e della rigorosa osservanza di regole e discipline condivise in materia di politiche di bilancio; e sulla via di un efficace governo dell’economia, per garantire avvicinamento e convergenza – anziché squilibri crescenti – tra i processi di sviluppo dei paesi della zona euro. Ma ciò comportava il superamento di riluttanze e rigidità manifestatesi ad esempio nel confronto svoltosi, tra il 2002 e il 2003, in seno alla Con-venzione incaricata di elaborare un progetto di Trattato costituzionale. Riluttanze e rigidità sul tema delle competenze da riservare ancora agli Stati nazionali, escludendone allora ogni ulteriore spostamento al livello europeo.

Quelle chiusure, ribadite nel Trattato di Lisbona sottoscritto il 13 dicembre 2007, hanno fatto sì che l’Unione europea si trovasse poco dopo impreparata a fare i conti con l’impatto della crisi finanziaria globale e con le ricadute di quest’ultima sulla crescita e sulla coesione dell’Europa a 17 – l’eurozona – e a 27 – la totalità degli Stati membri – pagando il prezzo di insufficienze e ritardi assai gravi.

Vi si è reagito via via nel corso degli ultimi due anni con decisioni che – pur tra esitazioni e limiti, e quindi in modo non risolutivo e non persuasivo – hanno teso a stabilire al livello europeo, con un brusco cambiamento di rotta, impegni e vincoli su materie rimaste, ancora col Trattato di Lisbona, riservate alle competenze e alle scelte degli Stati nazionali. Lo si è fatto per via intergovernativa, attraverso accordi tra i governi, in sostanza tra i capi di Stato e di governo membri del Consiglio europeo ovvero tra i loro rappresentanti in organismi come l’Ecofin e l’Eurogruppo. E ai governi è toccato acquisire il consenso dei rispettivi Parlamenti a quegli accordi – fortemente voluti e condizionati nei loro contenuti da alcuni leader, soprattutto i due più assertivi, che precostituivano e sostenevano da posizioni di maggior forza le soluzioni da adottare.

Si è trattato di cambiamenti spesso rilevanti, nel senso – non c’è dubbio – di una crescente integrazione di fatto (fino alla stipula di un vero e proprio accordo internazionale, il cosiddetto “fiscal compact”) ma entro un orizzonte ancora ristretto, e soprattutto al di fuori di un processo di rafforzamento democratico e di esplicita e conseguente evoluzione istituzionale dell’Unione. Non si è andati finora al di là di un disegno di Unione di bilancio e di Unione bancaria; e decidendo come si è deciso, si è dato in molti casi alle opinioni pubbliche il senso di costrizioni da subire con sacrificio di procedure democratiche, e in assenza di ogni possibilità di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini, di consapevole riscontro nell’opinione pubblica più larga. Il profondo disorientamento che ne è scaturito, il diffondersi – anche attraverso movimenti politico-elettorali di stampo populista – di posi-zioni di rigetto dell’euro e dell’integrazione europea, il radicarsi – tra gli investitori e gli operatori di mercato su scala globale – della sfiducia nella sostenibilità della moneta unica e della stessa Unione, possono superarsi perseguendo decisamente, e non solo a parole, la prospettiva di una Unione politica europea di natura federale. Prospettiva nella quale sciogliere le ambiguità dello scontro sul tema della sovranità, e dare risposte nuove al problema della democrazia nella vita e nel futuro dell’Unione. E questa prospettiva deve nascere da un ampio moto di partecipazione e da un processo di trasformazione della politica.

Si sollevano ora polemicamente, da qualche parte, riserve e contrarietà su ulteriori cessioni di sovranità nazionale a favore dell’Unione, come se il processo di integrazione non fosse stato basato fin dalla sua nascita sul principio – vedi articolo 11 della Costituzione italiana – di una libera autolimitazione della propria sovranità da parte degli Stati nazionali. Ne diede una scultorea motivazione – dopo due decenni, già, di concreta sperimentazione – il grande artefice dell’Europa comunitaria Jean Monnet nel 1976 a conclusione delle sue “Memorie”: «Le nazioni sovrane del passato non sono più il quadro in cui possono risolversi i problemi del presente». E ancora: «Oggi i nostri popoli debbono imparare a vivere insieme sotto regole e istituzioni liberamente consentite se essi vogliono attingere le dimensioni necessarie al loro progresso e conservare la padronanza del loro destino».

E quel che era già vero nel 1976, allorché Monnet ammoniva: «Non possiamo fermarci quando attorno a noi il mondo intero è in movimento », è diventato più che mai drammaticamente attuale e innegabile. Nel suo grande discorso del dicembre 2011 a Berlino, Helmut Schmidt parla dell’Europa come del “nostro piccolo continente”: e non certo perché gli sia mancato, da leader politico e uomo di governo tra i maggiori nella Comunità fondata nel 1950, il senso dell’orgoglio europeo, la consapevolezza del ruolo storico dell’Europa. Senza smarrire quell’orgoglio e quella consapevolezza, Schmidt ci richiama alla dura realtà di un continente europeo che si avvia a contare solo per il 7% della popolazione mondiale, rispetto a oltre il 20% nel 1950; che si avvia a contare solo per il 10% della produzione globale rispetto al 30% nel 1950. E di qui la conclusione: come singoli Stati europei, saremo misurati non più in percentuali ma in millesimi. Se ci teniamo a dimostrare che gli europei sono importanti per il mondo, dobbiamo operare in stretta unione.

Naturalmente, la scommessa da cui si partì più di 60 anni fa era quella di giungere, in Europa, a esprimere una visione del più vasto interesse comune, «da gestire attraverso istituzioni democratiche, alle quali sia delegata la sovranità necessaria».

La necessità di delegare funzioni sempre più significative, già proprie della sovranità nazionale, alle istituzioni dell’Unione succedute a quelle della Comunità, si è fatta cogente e ineludibile; il vero problema è quello della democraticità del processo di formazione delle decisioni dell’Unione. Questo problema si è fatto senza dubbio più critico nel periodo recente, e da ciò sono nate reazioni polemiche e forme di malessere crescente tra i cittadini. L’asse del potere di decisione si è spostato, dalle istituzioni comunitarie sovranazionali – Commissione e Parlamento – verso i capi di governo, verso il Consiglio europeo e il suo nucleo più forte. Ne ha sofferto anche il ruolo dei Parlamenti nazionali. Ma quale può essere la risposta, la via d’uscita? Il passaggio, per la democrazia, dalla dimensione nazionale a una dimensione sovranazionale, costituisce una prova ardua, come già lo fu il passaggio dalle piccole città-Stato agli Stati nazionali. Lo ha tempo addietro sottolineato un eminente studioso americano, Robert Dahl, mettendo in evidenza le complesse implicazioni dell’estendersi dell’area – territorio e popolazione – cui si rivolgano istituzioni e decisioni di governo. Sul piano istituzionale, l’Unione europea dovrebbe tendere a una forma federale multi-livello, a una sorta – secondo l’espressione di Dahl – di “poliarchia transnazionale”. Essa non negherebbe, ma continuerebbe a considerare una ricchezza le diversità – culturali, ambientali, umane – che l’Europa ha sprigionato nel corso della sua storia. Sul piano istituzionale e politico, l’Unione federale si nutrirebbe di solidarietà, di sussidiarietà – in una corretta, non subdola accezione del termine – di confronto e cooperazione tra istituzioni sovranazionali, nazionali, regionali e locali, fatto salvo il potere decisionale supremo riservato alle istanze europee nella definizione e nell’attuazione dell’interesse comune. In questo quadro, una particolare importanza assumerebbe, per il suo potenziale democratico, la componente parlamentare, comprendente insieme il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali, che senza sovrapporsi nell’esercizio delle loro distinte funzioni, condividerebbero l’esercizio del potere costituente nell’Unione, concorrerebbero a garanti-re il rapporto tra elettori ed eletti nel vasto territorio europeo, e collaborerebbero in molteplici campi e modi concreti.

E tuttavia non finisce qui, e cioè sul terreno della possibile e necessaria ulteriore evoluzione istituzionale, il discorso di un’Europa democratica. Quella che manca è una dialettica politica finalmente europea, con le sue sedi, le sue forme di espressione, le sue forze protagoniste. Siamo in un momento critico come non mai. C’è stato più consenso politico per la costruzione europea, fin quando questa si identificava – nell’esperienza reale di grandi masse di cittadini dei paesi membri della Comunità fin dall’inizio o entrati via via a farne parte – con una costante e sostenuta crescita economica, con un tangibile avanzamento delle condizioni di vita e dei diritti sociali e civili, con un’apertura crescente di orizzonti e di opportunità oltre le vecchie barriere nazionali. Poi, tutto è diventato più difficile, non solo per difficoltà e fasi di crisi delle economie europee nel mutare degli equilibri mondiali, ma anche per maggiore complessità e minore comprensibilità del modo di operare e delle decisioni dell’Unione.

Gravi deficit sul piano della comunicazione; assenza di una “sfera pubblica europea”, che consentisse circolazione e confronto delle opinioni; mancata proiezione e trasformazione in senso europeo dei tradizionali attori politici e sociali, rappresentativi di fondamentali interessi ed esigenze. La politica è rimasta frammentata, chiusa in sempre più asfittici ambiti nazionali, è stata sempre meno capace di guidare le decisioni europee e anche solo di raccontarle.

Si è lasciato deperire – a partire dalla fine degli anni Ottanta – un patrimonio di consapevolezza diffusa delle ragioni costitutive dell’intesa da cui aveva preso avvio la costruzione di un’Europa unita; si è lasciato svalutare un insieme di conquiste storiche, innanzitutto quella della pace nel centro dell’Europa, da cui erano partite due devastanti guerre mondiali; si è così finito per considerare come naturalmente acquisito, da parte delle generazioni più giovani, quel che naturale non era affatto. Come se cioè non fosse stato frutto prezioso del processo di integrazione l’abbattimento di frontiere e divisioni, che avevano nel passato impedito mobilità, reciproca conoscenza, compenetrazione e arricchimento sul piano culturale, crescita di un comune sentire europeo. A quest’offuscarsi della consapevolezza e della convinzione europeistica in vasti strati della popolazione in diversi paesi dell’Unione, si sarebbe dovuto reagire con il massimo impegno, a mano a mano che si manifestava e si faceva sentire una così grave crisi finanziaria ed economica in termini globali e in termini europei. Una crisi che ha finito per essere da più parti rappresentata come se l’integrazione europea, culminata nell’euro, ne fosse più la causa che la sola possibile via d’uscita attraverso le necessarie correzioni e innovazioni. Nello stesso tempo dilagavano le dispute su quale paese avesse di più beneficiato della moneta unica, o portasse di più la responsabilità della crisi dell’Europa, e quale – ad esempio la Germania – avesse invece sopportato più pesi e rischi che non tratto vantaggi alla pari di altri partner.

Ma da chi avrebbero dovuto venire, da diversi anni a questa parte e specie più di recente, le reazioni a simili disorientamenti e mistificazioni? Da chi avrebbe dovuto venire un energico e convincente rilancio del progetto europeo, in termini non retorici ma anche autocritici e soprattutto innovativi? Da chi, se non dalle leadership politiche, rappresentanti le forze maggiori operanti nei paesi dell’Unione, dai partiti e dai loro gruppi dirigenti? Non sottovaluto, naturalmente, il contributo che a una simile impresa avrebbero potuto (e potrebbero dare) molti altri soggetti, sociali e culturali, ma l’impulso decisivo spettava alle leadership politiche: l’impulso, la guida. Avere funzioni di leadership non significa d’altronde, letteralmente, guidare? Ora, in questi anni, quanto si è guidato – da chi ne portava la responsabilità – e quanto invece si è seguito? Seguito l’onda degli umori, delle paure, degli interessi particolari, delle tentazioni populiste e nazionalistiche? Ebbene, così è accaduto perché si è continuato a far politica in chiave nazionale, secondo visuali sempre più ristrette, ed elettoralistiche di parte, rinunciando a una funzione promotrice di riflessione e di dibattito, anche – si sarebbe detto una volta – pedagogica. E ciò è stato fattore tra i più gravi di ripiegamento, immeschinimento, perdita di autorità della politica e dei suoi attori principali, i partiti. Questi hanno certamente, e non solo in Italia, pagato il prezzo, da un lato, di un pesante impoverimento ideale, e dall’altro di arroccamenti burocratici, di un infiacchimento della loro vita democratica, di un chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale.

Si possono e debbono, oggi, apprestare rimedi a questi mali, a queste patologie, e perciò si lavora e si dovrà lavorare – con successo, mi auguro – qui da noi, alla regolamentazione in senso democratico dei partiti secondo l’articolo 49 della Costituzione, alla revisione del sistema di finanziamento dell’attività politica, al rafforzamento delle normative anti-corruzione. Di ciò abbiamo senza dubbio bisogno. Perché non può esserci democrazia funzionante, non possono esservi istituzioni rappresentative validamente operanti senza il canale dei partiti politici. Nessuna nuova o più vitale democrazia potrà nascere dalla demonizzazione dei partiti, nel deserto dei partiti. Quel che è indispensabile, non solo in Italia ma in Europa, è che si rinnovino.

A tale rinnovamento possono certamente contribuire nuove forme di comunicazione e di partecipazione politica, se vi si fa ricorso in modo responsabile e trasparente. Né si può restringere l’attenzione ai partiti già in campo, quali si sono definiti storicamente o più di recente ridefiniti, ignorando nuovi movimenti capaci di raccogliere anche sul terreno elettorale delusioni e aspirazioni specie delle più giovani generazioni. Quel che conta, però, da parte di tutti, è la capacità di guardare lontano, di formulare proposte e indicare soluzioni sostenibili per il futuro delle comunità nazionali nel contesto dell’integrazione europea, di non smarrire il senso di una comune solidarietà di fronte alle sfide economiche e sociali che ci attendono.

E a tal fine, senza trascurare la necessità dei rimedi specifici che ho citato a proposito del nostro paese, la questione cruciale, decisiva è che in Europa la politica, i suoi attori e le sue guide, i partiti e le leadership, riacquistino quel più alto senso della missione che ne ha fatto in precedenti periodi storici la forza e la grandezza. Un senso della missione comune che può solo essere la missione di unire l’Europa, di farla vivere e pesare nel mondo nuovo di oggi e di domani. È una missione che va rimotivata, partendo da quella constatazione di Schmidt sul rimpicciolimento del nostro continente, che conferisce nuovo e ancor maggiore significato al processo di integrazione tra gli Stati e i popoli d’Europa: «un fatto di cui i nostri paesi sono prevalentemente non coscienti – ha sottolineato Schmidt – perché i governi hanno mancato di renderlo ben chiaro a tutti». I governi, le élite dirigenti e in generale – ribadisco e sottolineo – i partiti politici.

Per rovesciare questo processo di allontanamento da una adeguata, lucida comprensione delle sfide con cui l’Europa è chiamata a confrontarsi nell’unico modo possibile, cioè avanzando sulla via dell’integrazione economica e politica, i partiti debbono impegnarsi – non da soli, certo, ma in prima linea – in una vera e propria controffensiva europeista. E possono farlo solo europeizzandosi. Abbiamo bisogno di partiti realmente europei, ovvero sintonizzati e organizzati su scala europea. Possiamo considerarne un importante embrione i gruppi – popolare, socialista, liberale, verde, e altri – che operano nel Parlamento europeo. Ma quell’embrione, quella componente della nuova specie “partiti europei” – europei non solo di nome – richiede altri, molteplici sviluppi. Rischiano, al contrario, la marginalizzazione e l’irrilevanza gruppi e movimenti politici che in qualsiasi paese dell’Unione si rinchiudano in una logica esclusivamente protestataria, preoccupati soltanto di “chiamarsi fuori” dall’assunzione di comuni responsabilità europee (e vediamo bene questo fenomeno oggi in Italia). Quella della “europeizzazione” dei partiti e della politica non è questione secondaria nel discorso sul superamento di quanto è rimasto incompiuto nella costruzione europea e sulle prospettive di una sua ulteriore, conseguente evoluzione. Tommaso Padoa Schioppa, proseguendo nella sua riflessione ampia e ricca di europeista convinto e sapiente, scriveva nel 2001 che «l’incompiutezza rende precario il già costruito» e si chiedeva «dov’è allora il punto di non ritorno?». La risposta la traeva da una conversazione con il grande federalista Mario Albertini: «Il “punto di non ritorno” non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo».

Ed è precisamente in questo senso che vanno alcune proposte, realizzabili senza dover neppure modificare i Trattati vigenti, ma valorizzando tutte le potenzialità in essi contenute. Come l’adozione, già in vista delle elezioni del Parlamento europeo nel 2014, di una “procedura elettorale uniforme” che consenta lo scambio di candidature e la presentazione di capilista unici tra paese e paese da parte dei grandi partiti europei. O come l’identificazione tra la figura del presidente del Consiglio europeo e il presidente della Commissione europea, affidandone in prospettiva la scelta – tra diversi candidati designati al livello europeo dai maggiori schieramenti – agli stessi elettori che votano direttamente (ormai dal 1979) per il Parlamento di Strasburgo.

Una tale “europeizzazione” dei partiti e della competizione politica, non significa ovviamente che i partiti debbano perdere, o non debbano anzi rinnovare e rafforzare, il loro oggi piuttosto debole radicamento nazionale. Non sta per scomparire tutto quel che ha contrassegnato e accompagnato la nascita e lo sviluppo degli Stati nazionali. Restano e resteranno, com’è evidente, in ciascun paese membro dell’Unione – pur evolvendosi questa in chiave federale – retaggi storici, peculiarità culturali, modi di essere dello Stato e strutture economiche, problematiche sociali e giuridico-istituzionali, con cui i partiti, nell’europeizzarsi, debbono restare in concreto rapporto per portare avanti in ciascun paese la loro piattaforma e la loro azione. Non ci si dica dunque, banalmente, che è astratto il discorso sul necessario progredire della politica verso una dimensione europea, e concreto è solo il continuare a fare, magari meglio, politiche immerse nei vecchi tracciati delle società e degli Stati nazionali. In effetti, l’interdipendenza globale è giunta a un punto tale da condizionare la stessa analisi delle situazioni e delle tendenze dell’economia in qualsiasi paese. E per noi in Italia e in Europa non ci sono politiche pubbliche che possano prescindere – oggi, nell’era della globalizzazione – dall’ancoraggio europeo, dal quadro delle potenzialità e delle scelte dell’Unione. Pensiamo al problema che più di ogni altro possiamo considerare storicamente caratteristico del nostro paese: il problema dello squilibrio tra Nord e Sud, il problema del Mezzogiorno, così rilevante e impegnativo per noi italiani. Ebbene, possiamo, possono le forze politiche e di governo italiane, immaginare una politica per il Mezzogiorno che non sia calata nel contesto della politica europea, nel quadro degli indirizzi dell’Unione? E la questione che è drammaticamente al centro della nostra attenzione – quella della disoccupazione giovanile in Italia – sollecita, sì, l’elaborazione di proposte e l’assunzione di decisioni al livello nazionale, ma forse – chi può sostenerlo? – fuori dal sentiero europeo, di un convergente impegno europeo per la crescita e l’occupazione? E non voglio moltiplicare gli esempi, come pure sarebbe facile. Non è tuttavia inutile richiamare l’attenzione su tutt’altro terreno di impegno delle forze politiche in qualsiasi paese. Parlo della politica estera e di sicurezza, che ha costituito un elemento caratterizzante della storia dei singoli Stati nazionali, almeno fino alla prima metà del Novecento. Ancora oggi ciascuno Stato tende in varia misura a caratterizzarsi su quel terreno. Ma dandosi – e nel modo più solenne, per Trattato – l’obbiettivo di una politica estera e di sicurezza comune europea, l’Unione ha varcato una soglia decisiva per garantire voce e ruolo all’Europa nell’arena delle relazioni internazionali, facendone un soggetto politico unitario (anni fa si tendeva a dire un “global player”), di fronte ad altri grandi, vecchi e nuovi protagonisti del giuoco mondiale. E per lento e arduo che si stia dimostrando il conseguimento di quell’obbiettivo, è a esso che deve ispirarsi la politica estera di ciascuno Stato membro: la massima ambizione di un paese come il nostro non può, a questo proposito, che essere quella di dare – sulla base delle tradizioni, esperienze e sensibilità proprie dell’Italia e del suo operare nel mondo – un impulso e un contributo incisivo e di qualità al crescere di una politica estera e di sicurezza comune europea, come tratto distintivo e parte integrante di una autentica Unione politica.

In fondo, è questo lo spirito con cui in ogni campo qualsiasi paese europeo, specie se già integrato nell’Unione, dovrebbe muoversi, se ha chiara la posta in giuoco: far vivere, come europei, dentro una globalizzazione sregolata che potrebbe sommergerci, la nostra identità, il nostro esempio e modello di integrazione e unità, di progresso economico, sociale e civile, in definitiva l’insopprimibile peculiarità del nostro apporto allo sviluppo storico e all’avvenire della civiltà mondiale.

Sapremo riuscirci? Dipende da un grande sforzo collettivo, che stenta a coagularsi soprattutto in termini di volontà politica comune. Ecco perché c’è urgente bisogno di quella che ho chiamato una “controffensiva europeista”. E come si può concepirla e condurla al successo senza un’ampia partecipazione di forze giovani, oggi distanti dalla politica in Italia e non solo in Italia? Cercate, giovani, ogni varco per far sentire e valere le vostre ragioni, le vostre esigenze e per esprimere – ciascuno secondo le sue libere scelte – idee ricostruttive e rinnovatrici sulla politica. E sappiano le forze politiche che banco di prova per tutte è la capacità che dimostreranno di aprire spazi di partecipazione per le giovani generazioni soprattutto al discorso sull’Europa. Permettetemi di ricordare quel che dissi dieci anni fa, concludendo una lunga riflessione dall’interno della mia esperienza di allora nel Parlamento europeo: «È attraverso il discorso sull’Europa che la politica può riguadagnare forza di attrazione, partecipazione e ruolo effettivo nelle nostre società. L’impegno politico che tanti uomini e donne della mia generazione posero al centro della loro vita può essere trasmesso e rinascere solo nella dimensione europea».

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