La Cina in Africa

Di Romeo Orlandi Venerdì 16 Novembre 2018 12:07 Stampa


Per comprendere la relazione tra la Cina e l’Africa – alla luce dei risultati del VII summit della cooperazione svoltosi a settembre a Pechino – non è necessario scomodare i ricordi, alla ricerca di un legame storico oggi completamente rinnovato. Sarebbe dunque fuorviante rammentare i viaggi di Zheng He, l’ammiraglio eunuco e mussulmano che comandava la flotta imperiale dei Ming, la più grande al mondo. Forse le sue navi nel 1421 sono anche arrivate nel­le coste occidentali dell’America, certamente hanno toccato con la loro possanza le coste dell’Oceano Indiano, nelle spiagge dell’odierna Somalia. La Cina era allora al culmine della sua potenza imperiale, anche se la natura conservatrice e sinocentrica dell’impero fece bru­ciare le navi della flotta a Zheng, consegnando il proprio paese a un destino secolare di introversione e di arretratezza.

Sotto un altro timoniere, il governo cinese nel secolo scorso sbarcò in forze in Africa. Inviato da Mao Zedong, il primo ministro Zhou En­lai intraprese un epocale tour politico, tra dicembre 1963 e febbraio 1964, visitando dieci paesi. Offrì collaborazione economica, soli­darietà internazionalista, convinto appoggio anticoloniale. L’Africa usciva vittoriosa da guerre di indipendenza lunghe, ostacolate, tal­volta intrise di sangue. Ai giovani governanti di nazioni appena nate la Cina porgeva amicizia e una sponda politico-militare. Erano gli anni successivi alla Conferenza di Bandung del 1955. Il movimento dei Non allineati si stava consolidando, nella ricerca di una terza via tra l’imperialismo filo-statunitense e l’egemonia moscovita che non ammetteva deroghe nazionali. Pechino si candidava al contrario come araldo del Terzo Mondo, con il peso conquistato sui teatri della guerra contro i giapponesi e poi contro Jiang Jieshi, sconfitto sulla via di Taiwan. Erano per la Cina gli anni eroici della ricostruzione e di aspre lotte politiche celate dal prestigio di Mao Zedong. Negli anni successivi questa tendenza si sarebbe radicalizzata con l’afferma­zione di Lin Biao e della Rivoluzione culturale. Le parole d’ordine di quel periodo – che oggi appaiono improbabili alla luce dei cam­biamenti registrati – suonavano profetiche: “Le campagne vincono sulle città”, “Il vento dell’Est prevale sul vento dell’Ovest”. Sotto la cenere covava l’esplosione futura del conflitto con l’Unione Sovie­tica per garantirsi non tanto la supremazia del mondo comunista, quanto l’indipendenza della Cina da ogni ordine esterno, fosse pure quello di una nazione ideolo­gicamente affine.

Quale area del mondo si prestava al meglio per la ricerca di alleati? L’Africa divideva con la Cina la povertà, l’economia contadina, il risentimen­to verso l’Europa, la ricerca di vie patriottiche al socialismo, l’inclinazione all’eresia rispetto alle direttive di Mosca. In sintesi: tutto il socialismo dei paesi in via di sviluppo. Molte cose sembra­vano convergenti, a eccezione di un’immensa sovrastruttura che nei paesi arretrati svolge un ruolo probabilmente sottovalutato. Migliaia di quadri africani sono stati inviati in Cina a imparare la rivoluzione, sia politica che dei rapporti economici. Hanno appreso le tecniche di irrigazione, le coltivazioni ad alta quota, le pratiche di alfabetizzazio­ne. I risultati, è noto, non sono stati esaltanti. Probabilmente la Cina di quegli anni non era il paese migliore per imparare a sconfiggere il sottosviluppo. Il lascito più famoso della collaborazione sono i 1860 km della Tazara, acronimo della Tanzania-Zambia Railway. I suoi bi­nari, attraverso un reticolo regionale, collegano la zona mineraria del rame zambiano con il porto di Dar es Salaam. Dopo l’apertura nel 1975, la ferrovia – costruita con capitali prevalentemente cinesi – ha progressivamente ridotto le sue attività, fino a registrare un bizzarro revival turistico. Dopo pochi anni, i destini del socialismo africano e di quello cinese si sono divaricati, con impostazioni e fortune dif­ferenti.

Cosa è rimasto dunque di questa cooperazione quando Xi Jinping ha aperto a Pechino i lavori del VII FOAC, il triennale Forum on China Africa Cooperation? Poco, se non la retorica dei ricordi in un confronto de-ideologizzato. Quali novità ha espresso la relazione del presidente di fronte a 54 capi di Stato e di governo convenuti nell’immensa Great Hall of the People? Solo gli analisti più pun­tigliosi hanno notato l’assenza dello Swaziland – che ora si chiama eSwatini – l’unico Stato africano che mantiene relazioni diplomati­che con Taiwan. Dopo l’allineamento del Burkina Faso con Pechino lo scorso maggio, solo una questione di tempo (e di soldi) separa l’interezza dell’Africa dalla Cina popolare. Le risposte del presidente cinese sono state chiare fin dall’inizio della sua relazione: «Soltanto i popoli cinese e africani possono esprimersi nel giudicare se la coopera­zione tra Cina e Africa sia valida o meno. Nes­suno dovrebbe criticarla basandosi su proprie valutazioni o immaginazioni». La cooperazione si basa su reciproci interessi e sul pragmatismo. Sono consegnati alla storia l’orgoglio indipen­dentista, la comune appartenenza, il sol dell’av­venire. Pechino offre un sostegno economico per il decollo del continente, mentre cerca dalle capitali africane gli approdi per rafforzare i suoi avamposti strategici.

I 60 miliardi di dollari garantiti da Xi sono emersi come esemplare sostanza degli aiuti. Il finanziamento duplica esattamente quello di tre anni fa ed è diretto a un ventaglio di iniziative: prestiti a tasso zero, linee di credito, un fondo speciale per lo svilup­po, sostegno pubblico alle importazioni dall’Africa, progetti infra­strutturali ed ecosostenibili. Ai paesi più poveri è stata concessa una parziale cancellazione del debito. Politicamente è stata riaffermata la volontà di non interferire negli affari interni di un paese, un’astuzia diplomatica che consente anche ai dittatori di continuare a condurre affari senza chiedere loro conto delle violazioni democratiche. Ha prevalso ovviamente il clima di amicizia, come se le sorti di popoli e paesi così diversi possano essere accomunate. Il cemento è l’interesse nazionale, il contenuto una presa di distanza dai modelli occidenta­li, campioni delle libertà, dell’individualismo, del liberalismo. Senza sorprese, la Cina è stata nel 2017 – per il nono anno consecutivo – il maggiore partner commerciale dell’Africa. Negli ultimi diciotto anni, quando il primo summit ha avuto luogo nella capitale cinese, gli investimenti nell’intero continente sono aumentati di più di cen­to volte. Hanno finanziato la costruzione di ferrovie, strade, scuole, ospedali, esattamente cioè quello che mancava strutturalmente alle economie africane.

Pechino non si è improvvisamente rivelata generosa. Ha soltanto scoperto – con lungimiranza e acume – terreni possibili di incontro tra le diverse necessità. Una win-win situation, amano dire in Cina. Ha riempito uno spazio politico che l’Europa non ha saputo gestire. Il suo intervento, pur finanziariamente cospicuo e articolato, risente di limiti evidenti. La rivalità tra ex potenze coloniali, i vincoli proce­durali, l’insistenza delle clausole sociali – come il pieno rispetto dei diritti umani – hanno probabilmente rallentato l’impatto della coo­perazione. In aggiunta, l’attuale congiuntura sociopolitica identifica il versante meridionale del Mediterraneo come un problema, non una risorsa. L’immigrazione, con i risultati elettorali che determina, ha tolto dall’agenda la priorità degli aiuti allo sviluppo. Certamen­te per gli Stati Uniti l’Africa, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, non costituisce un terreno di caccia per finanziare dittatori antisovietici, né un asset strategico per la propria economia. Infine, le medie potenze come il Giappone e l’India non hanno avuto le risorse e la determinazione di uscire da ambiti regionali, seppur importanti, di assistenza economica.

In questa cornice, l’iniziativa cinese si è confermata tempestiva e di lungo respiro. L’ha resa inizialmente possibile l’immensa dotazione di riserve. Le casseforti di Pechino sono le più ricche al mondo, una conseguenza degli straordinari attivi commerciali inanellati negli anni. Le leve negoziali bilaterali contro singoli paesi africani, piccoli e poveri, appaiono platealmente sbilanciate. Il primo obiettivo cinese è stato l’approvvigionamento di materie prime. Insieme alla tecno­logia – che si acquisisce con maggiore difficoltà dai paesi industria­lizzati – sono la base per continuare a essere la fabbrica del mondo. Metalli e fossili arricchiscono le viscere dell’Africa ma non ancora i suoi abitanti. La Cina è disposta ad acquistarli con trattative formal­mente ineccepibili tra Stati sovrani. Buona parte di questo flusso di denaro torna in patria per comprare merci cinesi, per le quali dunque l’Africa è un mercato di destinazione.

Da ultimo, molti lavori di costruzione vengono affidati a maestran­ze cinesi. Diverse Chinatown sono sorte nelle capitali africane, le lanterne rosse campeggiano ovunque, i prodotti cinesi affollano i supermercati. Sta avendo luogo un fenomeno complesso e inedito: la Cina è l’unico paese che esporti contemporaneamente capitali, merci, forza lavoro. Se dunque dal summit è emersa soprattutto la crescita di un fenomeno consolidato, tre novità si presentano dense di contraddizioni.

La prima è l’affiancamento della politica all’economia nel comples­so delle relazioni. L’Africa non riesce infatti a rimanere estranea alla nuova iniziativa estera di Pechino. Irrobustita da straordinari successi economici, la Cina di Xi vuole incassarne i divi­dendi, inaugurando una politica estera non più timida ma assertiva. Ne sono esempi le rivendi­cazioni sul Pacifico orientale e l’allungamento del tentacolo verso l’Africa della nuova Via della seta. Come nell’Asia meridionale, la Cina non ha bisogno soltanto di approdi ma di porti sotto il suo controllo. Non vuole soltanto esportare mer­ci ma controllare i traffici. Le sono insufficienti i compiti di lotta alla pirateria che aveva assunto addirittura con rilut­tanza. Nel 2017 è entrata in funzione a Gibuti la prima base militare cinese all’estero. Nel Corno d’Africa, nella zona strategica tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, la postazione è geograficamente vicina a quelle esistenti di Stati Uniti, Francia e Giappone che hanno espres­so già le loro preoccupazioni, anche se l’insediamento cinese non sembra avere per ora grandi capacità militari. Si aggiunge tuttavia ai 2500 militari cinesi impegnati nel peacekeeping in Sud Sudan, Liberia e Mali. Una presenza così consistente e crescente era inimmaginabile alcuni anni fa, quando Pechino, concentrata nella sconfitta della sua arretratezza, non osava uscire dal guscio della Grande Muraglia.

L’articolazione dell’intervento cinese rappresenta l’aspetto più urgen­te e controverso. Dopo un periodo di scambio tra infrastrutture e materie prime, i paesi africani richiedono maggiori investimenti, in grado di fondare un’industria nazionale e di formare dei quadri loca­li. Finora infatti i flussi hanno privilegiato il commercio, legando gli andamenti al prezzo internazionale delle commodity. Il deficit della Cina con l’Africa si è trasformato in attivo commerciale dal 2014, proprio in coincidenza con la diminuzione del prezzo del petrolio. Spinti dalle proprie opinioni pubbliche, i governi africani ricercano dalla Cina ciò che essa ha ottenuto dalle multinazionali: competenze, tecnologia e capitali per sconfiggere il sottosviluppo. Infine, una preoccupazione sta crescendo soprattutto nelle cancelle­rie occidentali. La concessione di prestiti può condurre verso il debt trap. I paesi africani, per ripagare i propri debiti, potrebbero rima­nere intrappolati nella rete di Pechino. Per uscirne dovranno cede­re asset territoriali e strategici: porti, basi, arrendevolezza politica. Questa prospettiva ridà fiato alla consunta etichetta dell’intervento cinese come neocolonialismo. Oltre le scorciatoie analitiche – di faci­le divulgazione – rimangono preoccupazioni reali per i nuovi assetti. Tutto questo sarebbe potuto essere gestibile se all’Africa intera non fosse stata lasciata la Cina come ultima, probabilmente obbligata, opportunità di sviluppo.