Brevi note sull’essere italiano, oggi come ieri

Di Giancarlo De Cataldo Lunedì 06 Dicembre 2010 12:19 Stampa

Ho iniziato a occuparmi del nostro Risorgimento nel 2003, per merito – colpa – di Mario Martone, che mi coinvolse nel progetto di un film. In parallelo alla stesura del copione, sedotto dalla quantità e qualità dei materiali storici e letterari con i quali entravo in contatto, prendeva corpo il progetto di una narrazione ispirata a quella stagione della quale si era persa la memoria. Al punto che io per primo avevo sul nostro Risorgimento, e, dunque, sugli eventi che portarono a edificare la nazione nella quale sono nato, vivo, lavoro, solo poche, confuse, contraddittorie e troppo spesso sbagliate informazioni.

Ho iniziato a occuparmi del nostro Risorgimento nel 2003, per merito – colpa – di Mario Martone, che mi coinvolse nel progetto di un film. In parallelo alla stesura del copione, sedotto dalla quantità e qualità dei materiali storici e letterari con i quali entravo in contatto, prendeva corpo il progetto di una narrazione ispirata a quella stagione della quale si era persa la memoria. Al punto che io per primo avevo sul nostro Risorgimento, e, dunque, sugli eventi che portarono a edificare la nazione nella quale sono nato, vivo, lavoro, solo poche, confuse, contraddittorie e troppo spesso sbagliate informazioni. I materiali accumulati negli anni hanno infine dato origine al film e a un romanzo, “I traditori”, che poco o niente ha a che spartire con il film di Mario Martone. Se non alcune scoperte, ai miei occhi di narratore e di italiano di oggi, sorprendenti.

Innanzitutto che tutti i grandi e meno grandi artefici dell’Unità non erano anziani e austeri signori dalle barbe polverose, ma giovani, spesso giovanissimi, poco più che ragazzi, animati da una feroce passionalità, vibranti di spirito spregiudicato. Mazzini si scoprì cospiratore a sedici anni, e da allora decise, «fanciullescamente», come annota in uno scritto, di vestire di nero in segno di lutto per l’Italia divisa. Garibaldi, a poco più di vent’anni, era già condannato a morte e costretto all’esilio. Vittorio Emanuele divenne re a meno di trent’anni. Cavour, passato alla storia come il “grande tessitore”, morì a cinquant’anni, «stroncato», scrissero i giornali dell’epoca, «dall’enciclopedica fatica» dell’Unità. Cinquant’anni è, oggi, l’età in cui un politico è considerato qualcosa a metà fra una speranza e una promessa.

Per non dire della sorpresa nello scoprire che Mazzini, Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele, ben lungi dall’agire in costante e comune concordia, si trovarono spesso su posizioni alternative, contrapposte e inconciliabili. Cavour fece ripetutamente condannare a morte Mazzini e gli rifiutò l’amnistia a Unità compiuta; ma non si fece scrupolo di “trar partito” dal suo radicalismo, stipulando patti occulti con le frange estreme dei repubblicani (e solo grazie a Denis Mack Smith, cent’anni dopo, ne siamo venuti a conoscenza). Garibaldi e Mazzini non si rivolsero la parola per anni, divisi da questioni strategiche e anche da una sorta di rivalità personale (per la verità, molto più accoratamente avvertita dal Generale che da Mazzini, per sua natura più parco di manifestazioni sentimentali). Vittorio Emanuele, a un certo punto, desideroso di conquistare Roma e Venezia senza aiuti esterni, cospirò con Mazzini per suscitare guerre e rivolte nei Balcani in chiave antiaustriaca. Piano che fallì grazie a un intervento dei servizi segreti – ita - liani – del tempo, che architettarono un finto complotto per assassinare Napoleone III, scaricandone la responsabilità su Mazzini. Il quale, forse, era realmente estraneo al progetto e forse, essendone tempestivamente informato, non vi si oppose con convinzione, in forza della propria radicata convinzione che il tirannicidio costituisse comunque un imprescindibile momento della lotta per l’affermazione della democrazia e il trionfo dei diritti dei popoli.

A ciò si aggiunge la rivelazione che Felice Orsini, il rivoluzionario romagnolo al quale sono dedicate centinaia di vie e di piazze nel nostro paese, nel vano tentativo di uccidere Napoleone III ammazzò a colpi di bombe otto vittime innocenti (e un numero imprecisato di cavalli). Che Mazzini, pur tirato in ballo da spie e cronisti prezzolati, non era coinvolto nell’attentato, mentre a foraggiare Orsini negli ultimi mesi di vita era stato proprio, ovviamente in gran segreto, Cavour.

Per poi scoprire che l’attentato di Orsini giocò indubbiamente un certo ruolo nella decisione di Napoleone III di sostenere la seconda guerra d’Indipendenza attraverso gli accordi di Plombières: un’interpretazione niente affatto tendenziosa della vicenda porterebbe, dunque, a ritenere che la violenza abbia avuto la sua parte nella nascita del nostro paese.

Sono solo alcuni fra gli esempi delle “sorprese” che lo studio della storia può riservare a chi vi si accosti senza pregiudizio. Materiali di disputa ben noti agli storici di professione, si obbietterà. E ciò è innegabile. Ma il fatto che, comunque, la loro circolazione resti circoscritta agli ambiti accademici spiega molto del nostro paese senza memoria: non credo che esista nessun paese al mondo che abbia potuto conquistare indipendenza e libertà senza combattere, e versare il sangue, per essa. Persino l’India di Gandhi pagò un tributo alla regola della storia con i massacri del 1948, così mirabilmente evocati da Salman Rushdie ne “I figli della mezzanotte”. È il nostro passato, è la nostra storia. Con le sue luci e le sue tenebre. Sarebbe ora di cominciare a rivendicarla.

Ma, insomma, il passato non ha senso se non serve al presente. Strada facendo, il mio “I traditori” si trasformava, da romanzo storico, in racconto del presente. E io, mentre lo scrivevo, mi riscoprivo furiosamente italiano, e, nello stesso tempo, orgoglioso di esserlo. Il tutto a conclusione di un percorso generazionale e culturale che imponeva di considerare parole come patria, nazione, persino tradizione, con un senso di sufficienza, se non di aperto fastidio.

E invece. E invece, le radici di ciò che noi oggi siamo si rinvengono là, in quella stagione del nostro passato. E non solo, come si potrebbe immaginare, in certi “tipi umani” italiani che sembrano sfidare il tempo, quasi categorie eterne dello spirito – l’opportunista, il machiavellico, lo spirito nobile ma avulso dalla realtà, la canaglia, il generale fortunato, il gazzettiere al servizio del miglior offerente – ma anche, e soprattutto, in dinamiche storiche, economiche, sociali e politiche che si riproducono, oggi come allora, e che costituiscono, oggi come allora, i fuochi del dibattito, il centro dei problemi, il core business di questa Unità. Che nacque e visse imperfetta, zoppa, ambigua e a tratti dissennata. Che ancora adesso ci appare tale. Ma della quale personalmente avverto la furiosa necessità. Quella stessa necessità che spingeva i più accaniti repubblicani a stringersi intorno ai mediocri Savoia e l’ormai vecchio e malato Mazzini a spendere gli ultimi spiccioli della sua grande esistenza nel disperato sforzo di impartire un’educazione etica e sociale alle classi subalterne.

In altri termini, i problemi che avrebbero afflitto l’Italia negli anni a venire erano già tutti presenti a coloro che l’Unità vollero e fecero. Se ne discuteva, in modo franco e lacerante, “in presa diretta”. Due i temi emersi, in particolare, dalla ricerca: lo squilibrio fra Nord e Sud, con la reciproca, ricorrente ostilità, e la presenza, in vaste zone del territorio, della criminalità organizzata. Sono temi che ritrovo, ogni giorno, nei giornali, nelle televisioni, nel dibattito politico e culturale. Ancora presenti, ancora irrisolti.

Mettiamo a confronto, idealmente, due citazioni del professor Miglio, ideologo della Lega Nord (un intellettuale che aveva il pregio di parlare chiaro) e qualche documento postunitario. Prima citazione: «Il mondo civile è nell’area temperata: se ci spostiamo dove fa molto freddo, ci imbattiamo negli slavi tonti; se puntiamo verso Sud, incrociamo popoli straniti dal calore, un po’ come quei messicani che sonnecchiano sotto il sombrero». Torniamo indietro nel tempo, ai giorni dell’Unità. Carlo Nievo, fratello di Ippolito, inverno 1860, dal Sud al padre: «Tolta la dolcezza del clima e le bellezze naturali, questi paesi sono orrendi in tutto e per tutto: gli abitanti sono gli esseri più sudici che io abbia mai visto; fiacchi, stupidi e per di più con un dialetto che muove a nausea tanto è sdolcinato...». «Dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti; che razza di briganti!». Soltanto un paio d’anni dopo, alcuni brillanti alti ufficiali piemontesi si incaricheranno di tradurre in opera il suo auspicio, rendendosi responsabili dell’atroce guerra al brigantaggio. Poterono farlo perché agivano, militarmente, su un terreno che, nei primissimi mesi dall’Unità, è stato arato, sul piano, per così dire, culturale, da una certa intellettualità. Il Sud è un’Africa popolata da barbari irredimibili. Gente da colonizzare e non da armonizzare. L’argomento legato al malgoverno borbonico, in realtà primo responsabile del degrado delle campagne, viene presto abbandonato a favore di una lettura dello squilibrio Nord-Sud in chiave di inferiorità etnica. È, in presa diretta, la nascita della teoria delle “due Italie”: l’operosa, europea celtica gente che s’attesta sin sul Tronto contrapposta ai barbari del meridione. È in questo clima che Ottaviano Vimercati, il quale da esule aveva combattuto in Algeria, scrive a un amico: «Gli arabi, che combattevo quindici anni fa, erano un modello di civiltà e di progresso in confronto a queste popolazioni (…) non potresti farti un’idea delle barbarie e del vero abbrutimento dei paesani di qui». Per poi concludere, pragmaticamente, che l’annessione del Sud sarebbe bene considerarla un’eredità da accettare col beneficio dell’inventario, e cioè tenendosi la terra e buttando a mare i terroni. Viene dunque da lontano, questo pensiero che ritroviamo quotidianamente sulle pagine dei giornali, tradotto magari in formule più soft dal ministro che, lapidariamente, qualifica il Sud come «palla al piede» dell’Italia. Viene tanto da lontano che stupiscono, a un tempo, l’acquiescenza, a tratti omaggiante, dal quale esso è circondato, e il clima rasserenante, quasi da barzelletta raccontata al Bar dello Sport con il quale si stemperano esternazioni di crescente violenza verbale. Ma dov’è finita l’indignazione?

Seconda citazione da Miglio: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto sino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate». La mafia è dunque: a) un fattore etnico; b) una necessità auspicabile. La parola mafia compare per la prima volta intorno al 1862. La sua origine, nel senso che oggi le attribuiamo, è teatrale. Nasce dal dramma “Li mafiusi della Vicaria” messo in scena nelle piazze di Palermo dalla scalcagnata compagnia di tale Giuseppe Rizzotto all’indomani dell’Unità. “Li mafiusi” narra scene di vita quotidiana nel vecchio carcere della Vicaria. A un certo punto, viene arrestato un tipo elegante, un signore. Rizzotto lo chiama l’Incognito. Quando i mafiosi gli chiedono il “pizzo”, lui mormora qualcosa all’orecchio del capobastone. Quello si inginocchia, chiede scusa, si mette al servizio dell’Incognito. Rizzotto, in piazza, recitava la parte dell’Incognito truccato come Francesco Crispi. Con buona pace degli storici revisionisti, ai “picciotti”, alle “bunache” e al popolo intero era chiaro sin da quel 1862 il ruolo della mafia nel processo unitario: che altro senso avrebbe potuto avere il richiamo a Francesco Crispi? Anche qui, niente di nuovo sotto il sole. Esistono migliaia di pagine, documenti processuali, inchieste governative, commissioni parlamentari d’inchiesta. La teoria dell’origine etnica della mafia percorre come un fiume carsico la storia patria. Ferri e Lombroso, teorici della “Scuola positiva”, postulano una più accentuata criminosità dei meridionali, osservando che: «Le stirpi, che, con le loro invasioni e sovrapposizioni, più concorsero a determinare il carattere etnico delle varie regioni italiane, sono germaniche, celte e slave al Nord, e fenicie, arabe, albanesi e greche al Sud e nelle isole». Ne consegue che l’ethnos, così come determina le differenze di statura, incarnato, complessione, è del pari responsabile della diversità di tendenze criminali fra l’operoso settentrionale e il terrone malandrino.

Né Ferri né gli altri teorici della Scuola positiva sono così sprovveduti da negare valore alle condizioni sociali. Solo che esse soccombono ad altre considerazioni, «giacché il delitto è il prodotto non delle sole condizioni economico-sociali, ma di tutti i vari fattori individuali, fisici e sociali».

Eppure, sin dalla prima “guerra” ufficiale alla mafia (1872) si affaccia un’altra interpretazione, del tutto antagonista. La mafia è un serbatoio di potere, uno strumento eccellente di controllo del territorio. Nessuna azione repressiva sarà mai possibile se non sorretta, da un lato, dal progresso economico e culturale delle terre del Sud, dall’altro dall’interruzione di qualunque legame di “convenienza” fra il potere politico e le cosche, fra il Palazzo e la strada, potremmo dire. Ne converrà persino il prefetto Mori (1933), ma solo dopo essere stato “liquidato” per eccesso di zelo. E se Miglio teorizza la mafia necessaria, e, anzi, utile, il giudice Di Lello1 osserva come sia costante del nostro Stato reprimere la mafia che spara, quando spara troppo, e semina panico nell’opinione pubblica, preservando i canali di trattativa coi mafiosi “ragionevoli”. Cioè gli eredi di quella trattativa che intercorse, al tempo dei Mille, fra il capobastone della Vicaria e l’Incognito patriota. Postulare, dunque, un’origine etnica della criminalità organizzata significa fornire un poderoso alibi a collusi e conniventi. E perpetuare quella ignobile trattativa.

Amarezza, anche qui, e indignazione: ti prendono, quando metti in fila le informazioni e le colleghi fra loro.

Un tempo, a questo punto, si sarebbero tratte le conclusioni. Non è però compito di un narratore. Agli storici spetta determinare quali furono i fattori che impedirono di rimuovere gli ostacoli che si frapponevano fra il compimento dell’unificazione geografica e quella culturale, economica e sociale degli italiani. Ai politici – perché un primato della politica è quanto mai necessario – compete di fare oggi ciò che non fu fatto allora, e che ancora compiutamente in centocinquant’anni non si è fatto.

Il narratore, più modestamente, va a caccia delle linee di tendenza, dei punti di contiguità/continuità. Cerca, nel panorama dell’oggi, le risonanze con le problematiche di ieri. Riscopre, nelle parole di oggi, quelle di un tempo.

E si augura, nel contempo, che si profili all’orizzonte un nuovo Risorgimento.