Il nuovo protagonismo internazionale del Mediterraneo

Di Vittorio Emanuele Parsi Martedì 26 Aprile 2011 15:01 Stampa
Il nuovo protagonismo internazionale del Mediterraneo Illustrazione: Lorenzo Petrantoni

Con la crisi libica e le rivolte scoppiate in Egitto e in Tunisia il Mediterraneo è tornato al centro della scena geopolitica mondiale, configurandosi come un’area strategica per i rapporti di forza tra Stati Uniti, Unione europea e Medio Oriente. Da un’analisi delle dinamiche sottese all’intervento militare in Libia emergono con chiarezza le divergenze tra Italia, Francia e Germania, l’inedita cautela degli Stati Uniti, l’ambiguità di Mosca e Pechino e quella dei rapporti dell’Occidente con la Lega araba.

Se c’è una cosa che ha caratterizzato per un lungo periodo iniziale le reazioni occidentali all’ondata di rivolta che ha attraversato il Nord Africa e l’intero mondo arabo a partire dall’inverno 2011, è stata la volontà di starne il più possibile fuori. È stato come se l’effetto sorpresa, l’incapacità e l’impossibilità di prevedere e interpretare fino in fondo gli avvenimenti avessero finito con il suggerire un attendismo più impacciato che prudente. L’incertezza per quel che sarebbe potuto sortire da eventi tanto clamorosi quanto inattesi e la paura per le conseguenze che avrebbero potuto abbattersi sulla sponda nord del Mediterraneo sono stati i sentimenti di gran lunga dominanti.

In particolar modo, ha colpito la fatica con cui l’Amministrazione Obama solo molto lentamente ha trovato una posizione non estemporanea o eccessivamente sdrucciolevole di fronte alla crisi egiziana, indecisa fino all’ultimo su quale atteggiamento tenere sugli eventi in corso al Cairo. Così, l’importanza della citazione in sostegno ai «cittadini tunisini in lotta per la propria libertà» contenuta nel Discorso sullo stato dell’Unione tenuto dal presidente era sminuita dalla clamorosa omissione degli egiziani che stavano lottando esattamente per la stessa cosa. Ventiquattro ore dopo, un imbarazzato portavoce della Casa Bianca doveva rettificare il discorso presidenziale includendo anche gli egiziani tra i freedom fighters. Nei giorni successivi, inizialmente si ribadiva la fiducia nei confronti del presidente egiziano Mubarak invitandolo alla moderazione, quindi al dialogo, poi a farsi da parte, avendo nel frattempo subito l’umiliazione di vedere l’Arabia Saudita correre in soccorso economico del rais quandoWashington aveva minacciato di tagliare i cospicui finanziamenti all’Egitto (al secondo posto, dopo Israele, nella classifica mondiale dei paesi che ricevono aiuti dagli Stati Uniti).

Proprio l’indecisione mostrata dagli Stati Uniti nei confronti dell’Egitto ha fatto registrare il punto probabilmente più basso toccato dall’influenza di Washington nel Maghreb e nel cosiddetto “Medio Oriente allargato”. Le cause di tale malessere sono note: dalla fine della guerra fredda l’accresciuta presenza militare americana nella regione, contrassegnata da tre guerre (di cui una ancora aperta), non ha trovato riscontro in un effettivo aumento di influenza. Semmai, è vero il contrario: dall’Iraq al Libano e, in misura e in modo diversi, allo stesso Egitto e persino a Israele, la capacità americana di mantenere la stabilità dell’area e di imporre la propria visione è andata drammaticamente diminuendo.

Si tratta di un problema di non poco conto, se solo si considera che lo status di unica superpotenza globale degli Stati Uniti è fondato proprio sulla capacità di svolgere il ruolo di offshore balancer in Medio ed Estremo Oriente. Se l’America dovesse perdere credibilità in Medio Oriente rischierebbe di vedere messo in dubbio il suo status, o di doverlo affermare legandolo esclusivamente al teatro del Far East – decisamente affollato di grandi potenze – e dal quale tutti gli analisti concordano nel ritenere possa sorgere nel giro di un paio di decenni il miglior candidato a sfidare il ruolo egemonico degli Stati Uniti, cioè la Cina. A testimonianza che l’eventualità di una perdita di status sia tutt’altro che insignificante, basti ricordare che qualora l’America dovesse ridursi a essere una superpotenza nucleare a dimensione bicontinentale (grazie alla sopravvivenza dell’Alleanza atlantica), si ritroverebbe in una posizione non così diversa da quella della Russia attuale.

Proprio la consapevolezza del generale momento di vulnerabilità degli Stati Uniti – legato anche alla debolezza del ciclo economico e alla pesante situazione debitoria privata, federale e internazionale – e dell’eccesso di esposizione con il mondo arabo e musulmano hanno spinto il presidente Barack Obama ad agire con estrema prudenza nella “grande rivolta araba del 2011”, cercando la difficile quadratura del cerchio tra un atteggiamento di sincera simpatia verso un movimento che iniziava a incrinare l’ordine di una regione instabilmente immobile e le dure esigenze della Realpolitik, particolarmente evidenti in Bahrein (sede della V Flotta statunitense) ancor più che in Egitto.

Il paradosso, per una presidenza americana fortemente orientata a ricorrere il più possibile agli strumenti del soft power e a lasciare quelli dell’hard power sullo sfondo, è stato il dover constatare come il soft power risultasse estremamente inefficace nella regione proprio mentre questa conosceva per la prima volta massicce spinte dal basso verso la libertà, se non compiutamente verso la democrazia. Se è vero che nessuna bandiera americana è stata data alle fiamme nelle manifestazioni di protesta che hanno attraversato il mondo arabo, è altrettanto vero che complessivamente ogni riferimento agli Stati Uniti è risultato sostanzialmente assente, e che in Egitto la pressione sui militari è stata lo strumento decisivo per orientare gli eventi nella direzione alla fine individuata da Washington come desiderabile.

È stato con l’esplodere della crisi libica e con la decisione di ricorrere alle armi da parte di una “coalizione di volenterosi” in gran parte composta da paesi occidentali che l’America è tornata a far sentire la sua voce tonante nella regione. Come sempre accade, quando la parola passa alle armi il peso degli Stati Uniti in termini operativi e politici si manifesta in tutta la sua potenza. A questa mera constatazione, d’altronde, fa da contraltare la decisione della Amministrazione Obama di assumere un ruolo quanto più possibile defilato all’interno della coalizione. Si è trattato quasi di un “ossimoro concettuale”, giacché l’iniziale contributo americano alle operazioni militari è stato quantitativamente e qualitativamente rilevante. Le motivazioni di questa scelta sono piuttosto chiare e in parte le abbiamo già illustrate precedentemente: in una situazione come quella attuale, i vantaggi di una presenza militare americana più appariscente sul suolo arabo sono per Washington ragionevolmente assai inferiori ai potenziali svantaggi. Purtroppo, però, ciò ha portato a una confusione di ruoli tra gli altri paesi della coalizione, soprattutto a causa dell’eccesso di protagonismo francese in tutta la vicenda dell’operazione Odissey Dawn.

La Francia ha infatti avuto l’indiscutibile merito di proporre con forza e determinazione la questione della necessità di un intervento militare internazionale per impedire a Gheddafi di continuare la guerra dichiarata contro il suo stesso popolo. Senza la tenacia francese, molto probabilmente non si sarebbe arrivati a ottenere quella Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza che forniva la copertura legale all’istituzione di una no-fly zone particolarmente “muscolare” sulla Libia. Soprattutto, senza la decisione di Parigi di dare il via ai raid aerei sui cieli di Bengasi già nella notte in cui la Risoluzione era stata approvata, probabilmente Gheddafi avrebbe stroncato la rivolta e la comunità internazionale si sarebbe trovata a patire un increscioso insuccesso. Dove però il presidente Sarkozy ha sbagliato è stato nel cercare di trasformare una meritoria e apprezzata tempestività e determinazione nell’automatico diritto a guidare la coalizione. Il problema, come risulta piuttosto ovvio, non si sarebbe neppure posto senza la volontà americana di assumere un ruolo meno preminente. Ciò che ai francesi pare essere incredibilmente sfuggito è che gli Stati Uniti esercitano una sorta di leadership naturale all’interno di coalizioni militari occidentali, sia pure costituite ad hoc, in virtù della pluridecennale e istituzionalizzata garanzia per la sicurezza collettiva che essi forniscono ai paesi che a quella coalizione partecipano. Nel caso della Francia, al di là del suo peso oggettivamente superiore a quello di altri alleati europei, questa semplice condizione non è minimamente soddisfatta.

La Francia, che pure ha un apparato militare più poderoso di chiunque altro in Europa (Russia esclusa, ovviamente) non concorre se non in misura trascurabilissima e formale alla sicurezza collettiva dell’Europa occidentale e quindi non può avanzare un diritto “naturale” a guidare una coalizione militare; essa deve cioè ottenere il riconoscimento della propria leadership da parte degli altri paesi. Cosa che non è avvenuta. Probabilmente, più che per la speranza o possibilità di potersi ritrovare un domani a sostituire l’Italia nella funzione di partner economico privilegiato delle nuove autorità libiche (motivazione sicuramente presente, ma non determinante), Parigi si è mossa con tanta intraprendenza per far dimenticare sia gli imbarazzanti legami intrattenuti fino all’ultimo dalle autorità francesi con quelle tunisine, sia per rimediare alla scarsa reattività dimostrata tanto nella crisi tunisina quanto in quella egiziana.

Ecco che allora l’insistenza italiana affinché la catena di comando fosse riportata all’interno dell’alveo della NATO assume una valenza diversa dall’eterna schermaglia transalpina. Il punto è che le istituzioni sono esattamente il luogo deputato a gestire eventuali pluralità di interessi e a trovare mediazioni garantite che possano soddisfare tutti i partner di un’impresa collettiva. E quando questo sforzo collettivo è operato nel campo della sicurezza, la NATO rappresenta, per i paesi che forniscono la grandissima parte del potenziale marittimo e aereo della coalizione, una soluzione ovvia. È importante considerare non solo che il malessere italiano era condiviso da un paese come la Norvegia, che non ha motivi di rivalità storiche con la Francia, ma anche che l’impostazione di Roma ha di fatto concorso a smuovere la posizione turca, inizialmente di veto rispetto a qualunque coinvolgimento atlantico.

C’è poi un secondo orientamento che Washington ha manifestato fin dallo scoppiare della guerra civile libica e che, ancora una volta, ha differenziato la posizione americana da quella francese. Mi riferisco al fatto che il Dipartimento di Stato ha chiarito fin da subito che un qualunque intervento militare internazionale, no-fly zone inclusa, avrebbe potuto avere luogo solo nella cornice di una Risoluzione ad hoc del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che legittimasse esplicitamente l’uso della forza. Si trattava della presa d’atto che i tempi della presidenza imperiale di Bill Clinton, quando l’America era la superpotenza superstite emersa vittoriosa dalla guerra fredda, erano definitivamente tramontati. Per cui, quello che in Kosovo era stato giudicato un azzardo possibile e magari conveniente non poteva essere ripetuto una dozzina d’anni dopo in Libia: anche perché la “soluzione” trovata per il Kosovo – la sua trasformazione de facto in un protettorato dell’Unione europea – non sarebbe minimamente praticabile per la Libia. L’Unione europea, proprio sulla crisi libica, ha mostrato non solo tutti i limiti della sua politica estera e di sicurezza comune (che fine ha fatto Lady Ashton?), ma anche, e in maniera più preoccupante, la pericolosità intrinseca degli escamotage adottati per rimediare al fallimento del Trattato costituzionale. Le coalitions of willing, le coalizioni a geometria variabile, possono mettere a rischio la tenuta stessa dell’Unione nella sua dimensione politica quando gli interessi e le valutazioni dei paesi membri sono fortemente discordanti. In particolare, quelle cooperazioni à la carte, già difficili da far funzionare in campo economico o finanziario senza sottoporre a tensioni eccessive le strutture dell’Unione, diventano quasi impossibili quando si passa a questioni in cui è coinvolta la sicurezza, e addirittura pericolose per l’Unione quando interessi economici e di sicurezza sono inestricabilmente intrecciati come nella crisi libica.

La prova più appariscente della divisione interna all’Europa si è avuta con l’incredibile decisione tedesca di astenersi nel corso della votazione della Risoluzione 1973 in Consiglio di Sicurezza. Con quella scelta, il governo della signora Merkel si ritrovava in una posizione persino più lontana rispetto ai partner atlantici ed europei di paesi come Cina e Russia che, pur manifestando distinguo e perplessità sull’instaurazione di una no-fly zone sui cieli libici, con la loro astensione avevano deliberatamente consentito l’approvazione della Risoluzione stessa, nella perfetta consapevolezza che se ne avessero bloccato l’adozione, facendo ricorso al diritto di veto, avrebbero reso irrealizzabile qualunque intervento militare, difficilmente ipotizzabile al di fuori del quadro ONU. Con questa presa di posizione, giustamente stigmatizzata sull’“Herald Tribune” dall’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, che ha accusato di “miopia” la visione del Cancelliere federale, la Germania rivelava suo malgrado una sola cosa agli altri paesi europei: che se le sfide, le minacce e i rischi per l’Europa unita arriveranno in misura crescente dal Mediterraneo, la Germania è semplicemente unfit to lead.

La posizione tedesca era ulteriormente difficile da capire considerando che la Lega araba aveva espressamente chiesto un intervento militare occidentale per bloccare l’azione di Gheddafi. Come sappiamo, la conduzione della campagna aerea, insieme molto muscolare e poco risolutiva, ha creato tensioni proprio con la Lega araba. È però un altro il punto più rilevante che preme sottolineare: formulando alla comunità internazionale, e segnatamente all’Occidente, la richiesta di bloccare con la forza le incursioni delle milizie di Gheddafi contro i ribelli, la Lega araba aveva messo politicamente sullo stesso piano l’aggressione perpetrata dal colonnello contro il suo popolo e l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990. Proprio quella richiesta di aiuto, che deve essere costata non poco all’organismo che raccoglie governi in massima parte non democratici e che comunque rappresenta l’orgoglio e l’idea di indipendenza e unità del mondo arabo, aveva fatto venir meno quell’atteggiamento di cauta separatezza che aveva caratterizzato, lo si osservava in apertura, la posizione occidentale nei confronti delle rivoluzioni arabe.

È stato proprio il fatto che la richiesta di una Risoluzione fosse stata presentata dal Libano a nome della Lega araba a “costringere” Russia e Cina a non porre il veto. Sia Pechino che Mosca, per storici motivi e più immediate contingenze, sono estremamente refrattarie alla concreta applicazione della RtoP (Responsibility to Protect), che pure l’ONU contempla. La preoccupazione che si possano creare precedenti invocabili contro di loro in un futuro più o meno prossimo esiste e allo stesso tempo sia Pechino che Mosca aspirano a continuare a fare affari con i governi di tutto il mondo a prescindere dal loro record nel campo dei diritti umani (aspetto, quest’ultimo, che ha costituito un fattore non trascurabile del successo della penetrazione economica, commerciale e politica di Pechino in tutto il continente africano). Ma neppure Pechino e Mosca possono fare orecchie da mercante quando l’istituzione politica che dà forma concreta al concetto astratto di mondo arabo richiede esplicitamente che il mondo “si muova”.

Per quanto ci riguarda più da vicino, la richiesta della Lega araba ha costretto i paesi europei a prendere nuovamente coscienza che il Mediterraneo è uno spazio politico comune, anche se i soggetti che ne condividono le sponde hanno istituzioni politiche diversissime in termini di rendimento, standard democratici e solidità. La richiesta di un aiuto militare ci ha sfidati a venir fuori dall’angolo concettuale in cui eravamo rimasti rintanati, rappresentato dalla formulazione del semplicistico dilemma, angoscioso e fuorviante, che fino a quel momento sembrava esaurire il nostro livello di coinvolgimento in ciò che stavamo osservando: «Quali saranno le conseguenze, per noi, delle loro rivoluzioni?».

Ecco perché l’intervento militare è stato una scelta necessaria, a condizione di non pensare che, fatto questo, il nostro interesse e il nostro impegno verso la sponda sud del Mediteraneo siano esauriti, che basterà riavviare a parole un “processo” e tornare a coltivare nei fatti l’idea di un’Europa balticocarolingia, una casa comune senza “affacci” sul Mediterraneo. Occorrerà piuttosto ricordarsi che, quando la dura necessità di un aiuto espresso in termini di intervento armato verrà meno, l’Europa non potrà tornare a chiudersi in se stessa, ma dovrà invece dimostrare che anche attraverso più pacifici strumenti sarà mantenuta una consapevolezza così dolorosamente ritrovata: ovvero che, in assenza di responsabilità e scelte condivise, questo mare che tutti ci bagna potrebbe rischiare un giorno di travolgerci tutti. Che poi riesca davvero a farlo, questa Europa incapace persino di solidarietà interna rispetto all’emergenza dei profughi politici ed economici in fuga dalle coste magrebine, beh, questo è tutto da dimostrare. Purtroppo.

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