Dalla Lega Nord a Salvini

Di Daniele Marantelli Giovedì 14 Giugno 2018 11:46 Stampa


Nell’autunno di dieci anni fa, la professoressa Anna Maria Testa mi propose di incontrare i suoi studenti di Linguaggi della comunicazione all’Università Bocconi. Conoscendo i miei rapporti con la Lega, mi chiese di invitare anche un loro esponente per rendere più interessante la lezione. Si sorprese un po’ quando le dissi che sarei andato con Matteo Salvini. Altri leghisti, Maroni, Calderoli, Giorgetti, svolgevano funzioni politiche più importanti. Con Maroni peraltro c’era e c’è un’amicizia solida. Con Giorgetti ho condiviso gioie e dolori stando in tribuna a tifare per il Varese calcio. Andai con Salvini. Nel dicembre 2008 incontrammo gli studenti, rispondemmo alle loro domande raccontando come comunicavamo le nostre idee e proposte. Non credo, allora, di aver visto male. Il tempo dirà se, oltre a essere un ottimo comunicatore e uno scaltro leader politico, sarà anche un uomo di governo capace. Un dato è certo. La Lega di Salvini non è quella delle origini. La storia della Lega, il più vecchio partito italiano, si identifica totalmente con quella di Umberto Bossi, dalla sua fondazione, il 16 marzo 1982, presso lo studio notarile di Franca Bellorini a Varese, all’11 marzo 2004, quando un grave malore colpì il leader indiscusso del Carroccio. Da quel giorno nulla è stato più come prima.

Settembre 1985. Nella seduta del consiglio comunale di Varese eletto nel maggio precedente, per la nomina del sindaco, Giuseppe Leoni, unico consigliere della Lega, fece il suo intervento in dialetto. Tra il pubblico numeroso c’era Umberto Bossi. Anch’io all’esordio in consiglio con la maglia del PCI, di cui ero anche segretario cittadino, parlavo e parlo spesso, considerate le mie origini popolari, in dialetto. Quell’intervento mi mise i brividi. Agli esponenti di punta dei partiti della prima Repubblica, a partire dal mio, manifestai profonda preoccupazione. Dissi loro: «Se non prendiamo le misure questi tra pochi anni dilagano». Mi risposero in coro: «La Lega è un fenomeno destinato a sgonfiarsi». Le sottovalutazioni non avvennero solo a Roma e a Milano. Erano forti anche nella città che è stata definita “la culla della Lega”.

Alle politiche del 1987 la Lega ottenne i suoi due primi parlamentari: Umberto Bossi al Senato, Giuseppe Leoni alla Camera. Alle amministrative del 1990 ottenne successi importanti. Alle regionali, in Lombardia, fu il secondo partito (18,9%) dietro alla DC (28,6%) e davanti al PCI (18,8%). In Comune, a Varese, vennero eletti 8 consiglieri, tra i quali Roberto Maroni. Nel comune ruolo di opposizione a una giunta pentapartita maturarono, sui banchi del consiglio, una sintonia umana e un’amicizia che resisterà anche di fronte a differenze politiche profonde. Umberto Bossi era il leader carismatico e indiscusso. Percorreva migliaia di chilometri partecipando a feste popolari e manifestazioni politiche, occupandosi personalmente anche dell’organizzazione minuta del suo partito. Si spingeva fin nei più sperduti paesini delle valli bergamasche. Decideva le parole d’ordine che si trasformavano in manifesti tanto rozzi quanto efficaci. Padroni in casa nostra. Paga lumbard e tas. Di fronte all’asfissiante burocrazia che strangola l’iniziativa di artigiani e piccoli imprenditori lasciati soli nella competizione internazionale, che già allora manifestava la sua durezza, e di fronte alle tasse che colpiscono il potere d’acquisto di lavoratori dipendenti e pensionati quei manifesti entravano come la lama nel burro di un elettorato popolare che, non sembri un paradosso, ha un forte senso del dovere e dell’autonomia, come quello lombardo.

Nel febbraio 1991 la Lega Lombarda, con Liga Veneta, Piemònt Autonomista, Union Ligure, Lega Emiliano-Romagnola, Alleanza Toscana, fondò la Lega Nord al congresso di Pieve Emanuele eleggendo Bossi segretario. Bossi stroncherà ogni tentativo di logoramento interno della sua leadership e di scissione con polso fermo. Toccherà a Franco Castellazzi nell’ottobre 1991 e, successivamente, a tanti altri.

L’esplosione di Tangentopoli e la corruzione diffusa non solo nello Stato ma anche negli stessi enti locali del Nord dettero un’altra spinta al Carroccio alle elezioni politiche del 1992 quando elesse 55 deputati e 25 senatori grazie all’8,6% alla Camera e all’8,2% al Senato. Tangentopoli colpì al cuore Milano e il sistema di potere a Varese. Vennero arrestati esponenti di tutti i partiti. Professionisti, imprenditori, funzionari pubblici. Il consiglio comunale, fiaccato dagli arresti, mi affidò il compito di esplorare una soluzione politica transitoria in attesa dell’approvazione della legge sull’elezione diretta dei sindaci e del conseguente voto anticipato. Tutte le forze sociali, la Chiesa medesima, incoraggiarono quel tentativo. Nell’agosto del 1992 la nuova giunta fu eletta. Sindaco, un democristiano, persona specchiata, cattolico esemplare: Angelo Monti; io vicesindaco e assessore al Bilancio; assessori esterni di prestigio come il professor Furia, fondatore del Centro Geofisico Prealpino. Dopo due settimane fu arrestato un assessore democristiano, componente di quella giunta, che mi aveva giurato di essere immacolato come la neve. Nonostante forti pressioni contrarie, chiesi al sindaco di convocare la giunta dove, unico della stessa, diedi le dimissioni. Sulla politica sono sempre stato incline alle mediazioni, sulla moralità no. Sulla mia non ho mai voluto nessuna ombra. Anche a seguito delle mie dimissioni effettive, la maggioranza resse pochi mesi e il 13 dicembre 1992 si tennero le elezioni anticipate. Si votò ancora con il sistema proporzionale. Il Carroccio prese il 37% e tentò di fare l’alleanza con la Rete. Il tentativo, con Maroni rieletto nelle vesti di regista, fallì. Io avevo accettato la ricandidatura malvolentieri. Fui quasi costretto a farlo. Nel novembre del 1992 il PDS organizzò le primarie tra gli iscritti per scegliere i candidati. Non volli, naturalmente, partecipare. Non figuravo nell’elenco dei quaranta candidati proposti dal partito. Nonostante ciò le vinsi. Sottrarsi alla battaglia elettorale dopo una manifestazione così chiara di affetto prima che di stima politica mi sembrava una vigliaccheria. Fui eletto insieme ad altri due esponenti del PDS. Dopo il fallimento delle trattative con la Rete, Bossi invitò/ordinò a Maroni di trattare con me. Non mi dilungo in particolari. Sta di fatto che venne indicata una giunta composta anche da diversi esponenti progressisti di valore e proposto un programma avanzato che consentì, con l’appoggio esterno del PDS, di eleggere il primo sindaco leghista in una città capoluogo: Raimondo Fassa, persona colta e perbene.

Nella tornata delle amministrative dell’autunno 1993 il centrosinistra stravinse le elezioni: Torino, Genova, Venezia, Roma, Napoli. Non a Milano dove, nel giugno di quell’anno, vinse Formentini. Non alle elezioni provinciali di Varese dove, in autunno, si affermò il leghista Ferrario. I dirigenti nazionali del mio partito e del centrosinistra, ebbri del successo e da sempre poco inclini a tenere conto dei segnali dei Nord, spinsero per le elezioni politiche anticipate. Il marzo 1994 sancì il capolavoro politico preparato, in pochi mesi, da Berlusconi: alleanza con Bossi al Nord e con Fini al Sud. I progressisti di Occhetto, divisi dai Popolari di Martinazzoli, furono duramente battuti dagli esponenti della cosiddetta “seconda Repubblica”. Bilancio di Bossi: 180 parlamentari alla Camera, il più grande gruppo parlamentare grazie alla spregiudicata operazione sui collegi uninominali; Maroni ministro degli Interni nonché vicepresidente del Consiglio, Pagliarini al Bilancio, Gnutti all’Industria; Comino al coordinamento delle politiche dell’Unione europea; Speroni alle Riforme istituzionali; la Pivetti, a 31 anni, presidente della Camera. Dopo quella rovinosa sconfitta, nell’aprile 1994, lanciai dalle colonne del giornale locale “La Prealpina” l’idea del Partito Democratico. Ammetto che il tempismo, in politica, non è il mio forte. Diventato, da pochi giorni, segretario provinciale del PDS, nel novembre 1994, andai a Roma e cercai il mio amico Bobo che stava partecipando, alla Camera, a un infuocato dibattito sulla riforma delle pensioni. Un incredulo commesso gli riferì in Aula il mio desiderio di incontrarlo. Dopo alcuni minuti, uscì in piazza Montecitorio. Circondato da un impressionante numero di giornalisti, preferì dirigersi a Palazzo Chigi. Lì, mi disse, parleremo più tranquillamente. Maroni ha uno spiccato senso dell’umorismo. Cosa che in politica, come nella vita, non guasta. Mi disse: «È la prima volta di un comunista a Palazzo Chigi». Ancora: «L’allievo ha superato il maestro». Si riferiva alla sua esperienza in consiglio comunale quando, nel 1990, da neofita capogruppo della Lega aveva appreso i primi rudimenti istituzionali da me che ero capogruppo del PCI e che, nei cinque anni precedenti, ero stato anche presidente della Commissione bilancio. Giudizio ineccepibile visto che, in quattro anni, da consigliere comunale era diventato vicepresidente del Consiglio e ministro degli Interni.

La riforma delle pensioni e i grandi scioperi organizzati in autunno dalla CGIL determinarono le prime crepe politiche tra Bossi e Berlusconi. Non ho elementi per approfondire “il patto delle sardine” tra Bossi, D’Alema e Buttiglione. Ho numerose conoscenze dirette per affermare che D’Alema preparò, con cura e per tempo, le condizioni che permisero a Bossi, nel dicembre 1994, di annunciare in un intervento alla Camera la rottura con l’alleato di Forza Italia. Al congresso del Palatrussardi, nel febbraio 1995, si consumò la rottura tra Bossi e Maroni. Assistetti ai lavori con una delegazione del PDS. Soffrii non poco nel constatare la freddezza e l’ostilità con le quali i delegati accolsero Maroni che, appena terminato il suo discorso, abbandonò i lavori. Mi dispiaceva per l’amico ma politicamente condividevo in pieno la scelta di Bossi. L’esordio fu questo: «Per la Lega bandiera bianca mai». Ovazione. Congresso sostanzialmente finito. Lì si sancì formalmente la rottura dell’alleanza.

A gennaio nacque il governo Dini e nella primavera del 1996 Romano Prodi vinse le elezioni. La Lega, con il suo 10,4%, contribuì in modo decisivo all’affermazione dell’Ulivo. I dirigenti del centrosinistra non hanno mai riflettuto su questo dato politico di fondo né sul voto dell’Ulivo in Lombardia e in Veneto in quella circostanza. Nelle due vittorie di Prodi, nel 1996 e nel 2006, in Lombardia e in Veneto si affermò infatti il centrodestra. La fine anticipata di quelle esperienze dimostra che si può ottenere una maggioranza parlamentare, ma senza o contro il Nord l’Italia non si governa.

La rottura con il centrodestra mi convinse fosse giusto cercare un’intesa con la Lega in vista delle elezioni regionali del 2000. Non mi sono mai lasciato impressionare dalle ampolle sul Po o dalle evocate baionette bergamasche. La secessione, ancorché urlata, non aveva alcuna base sociale reale nella regione più popolosa, moderna e produttiva. Del resto in Europa, dalla Catalogna all’Irlanda, le forze autonomiste in quel periodo guardavano con più favore alle forze di sinistra. Maroni che nel frattempo aveva ripreso in pieno il suo ruolo nella Lega non era ostile a quella ipotesi. Tant’è che quando ci fu, nel dicembre 1998, il ballottaggio a Brescia tra Paolo Corsini e un esponente del centrodestra per le elezioni del sindaco lo convinsi a partecipare a un’iniziativa sul federalismo in quella città per aiutare indirettamente l’esponente di centrosinistra. Al termine del convegno lo accompagnai a un incontro in pizzeria con molti militanti leghisti, spacciandomi per il suo autista. La politica spesso ha anche aspetti divertenti. Corsini vinse. L’accordo alle regionali però non si fece, nonostante il segretario regionale del PDS, Pierangelo Ferrari, e il responsabile del PDS nel Nord, Iginio Ariemma, due persone di valore, fossero convinti della sua opportunità. In quegli anni lanciai l’idea dell’Ulivo del Nord. Commento di Bossi: «A Roma non lo ascolteranno mai. Per nostra fortuna». Infatti il gruppo dirigente nazionale stroncò un’ipotesi che avrebbe potuto riguardare, oltre alla Lombardia, anche il Piemonte e il Veneto. Risultato: in Lombardia e in Veneto, il centrodestra stravinse e pose solide basi per la vittoria alle politiche del 2001. Nel 2001 infatti Bossi ritornò tra le braccia generose di Berlusconi. La Lega non raggiunse nemmeno il quorum. Ebbe uno striminzito 3,9% ma, grazie al rinnovato accordo con il centrodestra, riportò una chiara vittoria politica, eleggendo numerosi deputati nei collegi e ottenendo ministeri chiave.

L’11 marzo 2004 per raggiungere Milano presi il treno perché su Varese scendeva una fitta nevicata. Di solito al Pirellone, dove ero stato rieletto consigliere regionale nel 2000, ci andavo in auto perché ogni mattina passavo a salutare e ad accudire mia madre che era ricoverata in una struttura protetta, in coma da cinque anni. Sul treno mi raggiunse la telefonata di Stefano Tosi, ingegnere dell’Aermacchi. Più di un amico. È stato consigliere comunale, provinciale, regionale, primo segretario provinciale del PD di Varese. L’esponente politico lombardo di centrosinistra che stimo di più. Infatti dopo due mandati in consiglio regionale è ritornato alla sua professione. Tosi mi informò che Bossi stava male e rischiava la vita. Nel primo pomeriggio andai all’ospedale di Varese dove era ricoverato. Salii le scale del reparto di rianimazione tra gli sguardi smarriti di militanti e dirigenti della Lega. Quando scesi un nugolo di giornalisti mi tempestò di domande. Ai tre a cui ero più affezionato, il compianto Guido Passalacqua di “la Repubblica”, Giovanni Cerruti de “La Stampa”, Carlo Brambilla de “l’Unità”, dissi: «Credetemi, da oggi, nulla sarà più come prima». È stato così. Maroni cercò di evitare che Berlusconi si mangiasse la Lega decidendo la corsa solitaria alle provinciali di Milano nella primavera del 2004. Il mancato sostegno, sin dal primo turno, a Ombretta Colli, candidata di Forza Italia, permise la vittoria di Penati ma salvò l’autonomia della Lega. Questi i fatti.

Il 5 settembre 2005, a Varese, Bossi ricomparve in pubblico allo stadio di Masnago per la presentazione dei programmi della squa- dra di calcio. Lo accompagnava Giancarlo Giorgetti, un amico, un parlamentare capace, allergico alla politica-spettacolo e superficiale, uomo dalle solide radici popolari a partire dall’amatissimo papà, pescatore e supertifoso del Varese come il figlio. A un certo punto Bossi mi prese sotto braccio. Davanti a noi il panorama meraviglioso del Campo dei Fiori e del Sacro Monte, patrimonio dell’Unesco. Mi chiese: «Come va la famiglia? La moglie e i figli come stanno?». Nei vent’anni precedenti mai mi aveva fatto una domanda del genere. Mi resi conto che uno dei più grandi “animali” politici che avevo conosciuto era diventato un’altra persona. Molti mi rimproverano di non essere stato sufficientemente “cattivo” con il leader leghista dopo la sua malattia. A parte il fatto che io l’ho sempre combattuto quando era potente, stando senza incertezze “dalla stessa parte”, a differenza di molti saltimbanchi e conformisti, sono convinto che nella vita l’umanità e la sensibilità non siano un difetto. Forse in politica sì. Penso che chi ha avuto per cinque anni la persona più cara in coma non poteva che restare colpito nel profondo dalla sua vicenda. Così come da quella di tante persone, anziani, quarantenni, giovani che ho conosciuto quando mia madre è stata ricoverata e che, diversamente dal leader leghista, dalla condizione di coma non si sarebbero più riprese. Anche per questa ragione, ho trovato sgradevole “l’uso” che di Bossi è stato fatto dopo la sua ripresa da parte di alcuni suoi sodali di partito. Non è che, dopo il 2005, il leader leghista abbia perduto la capacità di lettura dei processi politici. Anzi. Potrei fare numerosi esempi, avendo sempre mantenuto con lui un rapporto personale cordiale e affettuoso anche nelle chiacchierate alla Camera dove fui eletto nel 2006 e rieletto nel 2008 e nel 2013. Nel giugno 2016 mi disse: «Capisco la tua passione ma non sbatterti che tanto il risultato del referendum è segnato. In Italia il problema è il lavoro. Giovani, operai e disoccupati non voteranno mai Sì». Nel dicembre 2016 constatammo che l’80% dei giovani, il 78% dei disoccupati, il 70% degli operai avevano votato No. Amara constatazione accentuata dal fatto che il PD non ha mai compiuto un’analisi seria di quel voto. Però un conto è l’intuizione. Un altro la fatica quotidiana della gestione politica. Quella per Bossi cessò l’11 marzo 2004. Nell’aprile 2012, dopo che la Lega fu travolta dagli scandali dei diamanti della Tanzania e dintorni, si dimise. Maroni impugnò simbolicamente la scopa per fare pulizia e assunse controvoglia la carica di segretario della Lega Nord. Controvoglia perché Maroni non è tagliato per fare il segretario. È stato dal 2013 al 2018 presidente della Regione Lombardia, anche per gentile concessione del centrosinistra lombardo e nazionale. Se nel 2012, nel pieno dello scandalo che travolse il Pirellone e Formigoni, si fosse andati al voto entro la fine di quell’anno il candidato del centrosinistra, Ambrosoli, avrebbe vinto facilmente. Si pensò di fare coincidere le regionali con le politiche e così Maroni ebbe il tempo di costruire, in ogni provincia, la sua lista civica che con il suo 10% risultò decisiva.

Il 7 dicembre 2013 le primarie elessero Salvini che venne nominato ufficialmente successore di Maroni nel congresso straordinario federale di Torino. «Il segretario di partito non è il mio mestiere. Lo sai. Non è nella mia indole girare come una trottola e occuparmi di beghe locali. Salvini farà bene. È un ottimo comunicatore. Non ha problemi a sacrificare la famiglia anche il sabato e la domenica per dedicarsi al partito. Ha grande energia e capacità di lavoro. Potenzialmente, può occupare parte dello spazio politico lasciato da Berlusconi». Questo, più o meno, fu quello che mi disse Maroni nei giorni che precedettero il congresso di Torino. La campagna elettorale di Salvini dura da anni. Sistematica. Quotidiana. Ha cambiato la natura della Lega delle origini senza pregiudicare quel consenso. A Coblenza, nel febbraio 2017, ha partecipato con Marine Le Pen e altri al vertice dei nazionalisti europei. Neonazionalista e non populista come colpevolmente e pigramente è stato definito da politici e intellettuali progressisti. I suoi viaggi nella Mosca di Putin non credo siano stati organizzati per fare del turismo o per acquistare vodka e matriosche. Ha condotto una campagna elettorale efficace. Salvini ha tolto il Nord dal simbolo della Lega per affermare la presenza del suo partito in tutto il paese, anche nel Sud. Ha riciclato nel Mezzogiorno arnesi di dubbia provenienza, già professionisti politici di vecchie stagioni. Per ora l’azzardo sembra pagare. Per il futuro si vedrà. Dipenderà anche dalla capacità del centrosinistra di affondare il coltello nella piaga di contraddizioni che, almeno a me, appaiono macroscopiche. Cultura del lavoro, del rischio, del risparmio, della piccola proprietà, dell’autonomia. Questo è il Nord. In Lombardia si dice: «Un laurà, se l’è mia fai ben, l’è mia un laurà». Cioè un lavoro, se non è fatto bene, non è un lavoro. Sin quando la sinistra non assumerà fino in fondo questo valore che in Lombardia ha radici secolari nella regione più popolosa e produttiva sarà sempre minoranza sociale e culturale. Quindi, politica.

Vi è stato un serio tentativo di incursione alle europee del 2014 fatto da Renzi. Ha avuto successo, ma, in assenza delle necessarie conseguenze politiche e organizzative, si è rivelato solo una rondine. Che non fa primavera. È facile capire che un moderno federalismo in grado di premiare chiunque crei valore aggiunto in ogni campo confligge con gli esponenti leghisti raccattati in Calabria e in Sicilia e con il grande successo del M5S al Sud. Il 4 marzo Salvini risponde a chi, nel Nord e ormai anche nelle ex Regioni rosse, ha un bisogno diffuso di protezione. Sia di coloro che, nella globalizzazione, si sentono esclusi e perdenti, sia degli imprenditori che, grazie all’export, hanno costruito la loro fortuna. Governa le Regioni del Nord, Piemonte escluso. Dal Piemonte al Friuli dovrà fare i conti, tuttavia, con crescenti richieste di autonomia e, contemporaneamente, di una capacità di governo dei flussi reali dell’economia sempre più forte.

Nell’aprile del 2008, alle elezioni politiche della Camera, a Varese città, dopo anni, il PD distaccò la Lega di cinque punti. Dopo quel risultato, essendo candidato del PD, mi affibbiarono l’etichetta di “leghista rosso”. Le etichette spesso si affibbiano quando si è a corto di idee. Avrei qualche idea su come sfidare Salvini, capolista nel 1997 dei “comunisti padani” in occasione dell’elezione del Parlamento della Padania, nell’Italia di oggi dove la finanza comanda, i tecnici eseguono e i politici vanno ai talk show. Non è l’oggetto di questa riflessione. Certo che definire Lega e M5S forze antisistema significa abbaiare alla luna. Banalmente il vecchio sistema non esiste più. La gestione spregiudicata del post voto condotta da Salvini, finalizzata soprattutto agli interessi della Lega, e le plateali ambiguità del M5S stanno colpendo al cuore le istituzioni. Evocare al contempo il pericolo di ritornare alla sinistra perdente da parte di chi l’ha portata al 18% è tipico di coloro che, nei periodi di decadenza, si acconciano senza ambizione a spartirsi le briciole del potere residuo. Lega e M5S vanno sfidati con nuove idee e nuovi protagonisti dai valori riconoscibili: dignità del lavoro, giustizia sociale, eguaglianza, onestà, autonomia, merito, famiglia. Il lavoro, che per oltre un secolo è stato il faro della sinistra, da solo non è più strumento di redistribuzione del reddito e del potere. La rinascita e la riscossa di un nuovo PD sono necessarie per dare vita a un progetto aperto, partecipato, ricostruendo, da subito, un credibile centrosinistra di governo.

Partendo dal sogno di Altiero Spinelli, un’Europa federale e socialista, risulterà naturale realizzare una moderna forza riformista, popolare, nazionale, combattiva, radicata in tutto il territorio e organizzata su basi federali. E realista. M5S e Lega, più Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno il 70%. Il partito federale non è tanto funzionale al ricambio di un ceto dirigente nazionale quanto al bisogno di riconnettersi con il popolo che, come ci spiegò Bertolt Brecht, non può essere sciolto. È una svolta radicale? Sì. Ma con il tran tran e i dibattiti autoreferenziali il centrosinistra rischia l’irrilevanza. Una svolta da costruire nel fuoco della battaglia politica delle prossime settimane che richiederà l’intelligenza, la generosità, la lotta di ogni militante di sinistra e democratico, per dare una dimensione autenticamente popolare all’iniziativa politica quotidiana.

Realismo e coraggio servono per battere il disegno di Salvini e quello dei furbi interpreti del trasformismo italiano. Guai a sottovalutare il potenziale esplosivo rappresentato dal prevedibile tentativo di contrapporre istituzioni e popolo, interessi italiani ed Europa. Un progetto alternativo, legato ai bisogni e ai sentimenti delle comunità, è necessario per sconfiggere il rancore diffuso nella società, riconquistare la fiducia dei ceti popolari e quella dei giovani, indispensabile per sconfiggere nuove e vecchie diseguaglianze, rilanciare la crescita. Oggi è tempo di bandire liturgie di partito e calcoli di parte. Ogni democratico dovrà dare il meglio di sé come in altri momenti della storia del paese perché la posta in gioco, qui e ora, è altissima: la difesa delle istituzioni repubblicane, la libertà, la dignità del lavoro, la tutela del risparmio delle famiglie italiane, il futuro delle giovani generazioni.