Come cambia il lavoro che cambia

Di Domenico Carrieri e Fabrizio Pirro Giovedì 25 Marzo 2021 17:06 Stampa

Da più parti e da diverso tempo si argomenta sui cambiamenti che interessano il mondo del lavoro. Si tratta di processi che stanno aven­do una accelerazione significativa negli ultimi anni: nel mercato del lavoro, nel senso del lavoro, nell’organizzazione, nelle dinamiche imprenditoriali, nei ruoli, nelle connotazioni di genere, nelle rela­zioni gerarchiche, nelle relazioni sindacali e così via; una «grande trasformazione».1 A questa onda lunga si stanno sommando nell’ul­timo anno gli effetti, non sappiamo ancora quanto “temporanei”, della pandemia di Covid-19 ancora in corso. Partendo da una serie di indagini, svolte prima della pandemia, durante la fase critica del confinamento e durante la cosiddetta “fase 2”, ci soffermeremo su aspetti della qualità del lavoro e del ruolo delle organizzazioni di rappresentanza toccati dal cambiamento e sulle conseguenze della stratificazione sociale che si va palesando.

UN’ACCELERAZIONE IMPREVISTA

Il dibattito degli ultimi anni è stato monopolizzato da due temi: di­gitalizzazione e smart working. Non si tratta di temi nuovi: il primo rientra nel processo di informatizzazione avviato negli anni Ottan­ta del secolo scorso e l’altro, in parte combinato con il precedente, prosegue il dibattito sul lavoro da remoto. Uno degli effetti della pandemia è stato l’accelerazione improvvisa e imprevista di questi due processi. Da un giorno all’altro, in gran parte in maniera inattesa e, soprattutto, non organizzata, una quantità significativa di lavoro è stata svolta da casa. Quali caratteri ha assunto il lavoro? Quali criticità sono emerse? Malgrado la tanta retorica sulla positività del cam­biamento, infatti, il quadro si presenta più articolato e segmentato.

Considerando tra le tante figure lavorative «restate a casa» quella de­gli insegnanti, una indagine svolta durante il confinamento su un campione di ogni ordine e grado ha evidenziato che più che la dispo­nibilità delle attrezzature il vero problema è stato l’aumento rilevante del carico di lavoro (Figura 1). Questo aumento si è poi riverberato sulle condizioni di vita di questi lavoratori, mostrando una significa­tiva difficoltà a perimetrare il tempo di lavoro all’interno del tempo quotidiano (Figura 2). Ed entrambi questi aspetti hanno una chiara connotazione di genere, con le donne in condizione peggiore dei loro colleghi.

Il tracimare del tempo di lavoro è apparso da subito come uno dei problemi più evidenti durante il confinamento. D’altro canto, con l’etichetta di telelavoro il lavoro svolto da casa è stato sempre più regolato nei tempi e nei luoghi, nell’interesse del lavoratore e dell’im­presa. È chiara dunque la necessità di una regolazione collettiva ca­pace di ridurre le criticità. Cruciale diviene così il ruolo degli attori delle relazioni industriali. Ma con quali possibilità di intervenire?

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I SINDACATI E LE RELAZIONI INDUSTRIALI

Ciò che ha preso forma è dunque un cambiamento ricco di poten­zialità, ma disordinato, che richiede di essere sistemato e regolato per diventare una opportunità per tutti e per migliorare i benefici attesi tanto dalle imprese che dai lavoratori. Abbiamo citato gli attori delle relazioni industriali e dunque viene in primo piano l’interrogativo: essi sono in grado di affrontare questa sfida?

Gli eccessi della “disintermediazione” sono alle nostre spalle con il loro lascito di risultati deboli e frammentari. Ma le organizzazio­ni di rappresentanza collettiva debbono ancora mostrare di essere all’altezza di una fase che rinvia alla loro capacità di accompagnare le innovazioni tecnico-produttive e alcune riforme. Come succede durante le grandi emergenze, anche quella prodotta dal Coronavirus ha favorito la ripresa del ruolo e dell’attrazione per le grandi organiz­zazioni. Non si è trattato solo del rilancio di accordi, grandi e piccoli, che hanno aiutato a tornare al lavoro in sicurezza. Ma anche di una attività di cura e di assistenza dei loro iscritti, che ha visto moltipli­carsi le pratiche e gli interventi. E dietro questo attivismo materiale si cela il recupero della funzione di collante sociale, di punto di ri­ferimento, simbolico e pratico, durante e davanti alle incertezze che hanno toccato larga parte dei cittadini. In questo senso ha aiutato il mantenimento di un radicamento sociale e organizzativo diffuso: una densità non solo associativa che riguarda tanto i sindacati che le associazioni datoriali. E che rende visibile l’esistenza di un “capitale sociale” cui fare ricorso, non soltanto nei momenti critici. Come è naturale, sono cambiate in questo frangente le domande che vengo­no rivolte ai sindacati (Tabella 1).

Di fronte ai nuovi rischi le richieste e aspettative dei lavoratori ri­sultano significativamente cambiate. Rispetto al passato alcuni temi più “generali”, come quello dell’unità sindacale, vanno sullo sfondo, anche se incontrano maggiore sensibilità e consenso tra gli iscritti ai sindacati. Ma vengono in primo piano domande che investono prin­cipalmente la tenuta materiale del mondo del lavoro: in primo luogo l’occupazione, non a caso diventata la voce su cui si sono concentrate le maggiori preferenze percentuali. Negli ultimi anni avevamo già assistito, in precedenti survey, all’ascesa della richiesta di “maggiore competenza” rivolta alle organizzazioni sindacali. Ne troviamo una conferma anche in questi dati recenti, dove si piazza come secondo

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item più indicato. Il senso che si ricava da questo concetto consiste nell’attesa di un impegno dei dirigenti sindacali più orientato a gesti­re e risolvere i problemi, e a garantire esiti pratici conseguenti: come probabile effetto di preoccupazioni e assilli più impellenti. Quindi le organizzazioni sono in campo: vedremo se e come sapranno rima­nerci.

INSICUREZZA E SPACCATURE

Durante questo periodo e questo processo, impetuoso e non arresta­bile, abbiamo scoperto nuove diseguaglianze e nuovi problemi. Ri­cordiamone alcuni, sottolineando che per questa via si sono aggiunti nuovi dualismi a quelli preesistenti. Il primo, più evidente, e ancora valido mentre scriviamo, riguarda la frontiera tra quanti hanno potu­to continuare a lavorare e quanti hanno invece dovuto interrompere la loro attività o lavoro, senza sapere se ci saranno le condizioni per rimetterli in piedi. Il secondo si riferisce alla linea divisoria tra quanti hanno potuto lavorare a distanza, perché i loro compiti lo consen­tivano, e quanti hanno potuto continuare a operare solo da vicino e fisicamente: dagli operai agli addetti ai supermercati ai fattorini delle consegne, ai tanti lavoratori dei servizi alla persona. Un terzo, piuttosto chiaro e nel contempo drammatico, investe quanti hanno continuato a godere della loro retribuzione (gli insiders a diverso ti­tolo) e tutti coloro che invece in tutto o in parte non sono stati tu­telati. I segmenti più deboli e vulnerabili – gli “esclusi” – non hanno ricevuto integrazioni e ristori, finendo spesso con l’ingrossare le fila della nuova povertà. Alcuni dei dati che abbiamo raccolto nei mesi scorsi2 ci consentono di osservare da vicino questi fenomeni e queste montanti diseguaglianze.

Intanto possiamo avanzare qualche considerazione. Come abbiamo notato sopra, cambiamento non equivale automaticamente a miglio­ramento. Le diseguaglianze e i dualismi che abbiamo ricordato non si sistemeranno in modo spontaneo grazie al driver delle tecnologie e alla forza del mercato. Da un lato l’occupazione, in particolare quella stabile e di qualità, non crescerà in modo accettabile in mancanza di un disegno pubblico di respiro e di incentivi mirati alle imprese. L’avanzata della digitalizzazione tende a erodere le figure intermedie del mercato del lavoro e, se non è governata da politiche pubbliche bene orientate, rischia di infliggere nuove perdite ai ceti medi.

Come abbiamo cercato di rendere evidente, l’ormai lunga fase che stiamo attraversando è stata segnata da innovazioni importanti, come pure da rilevanti differenziazioni. Gli aspetti positivi non si ap­plicano immediatamente a tutti i lavoratori, mentre quelli critici in­combono su tanti tra essi ancora per un periodo la cui durata non è dato sapere. Questo significa che le incertezze verso il futuro, che accompa­gnano i lavoratori, non solo italiani, da un lungo periodo – almeno dalla Grande recessione del 2008 – sono destinate a non essere facilmente superate, e certo non nell’immediato. Inoltre, come è naturale, senza adeguate politiche e un ruolo non meramente difensivo degli attori so­ciali e delle istituzioni pubbliche, anche la fine del Covid, quando avverrà, non si tradurrà mec­canicamente nel superamento dei problemi so­ciali e occupazionali. La condizione di disagio è diffusa: un terzo degli intervistati dichiara che la retribuzione da loro percepita non basta o basta a stento per vivere. Più di un terzo dichiara invece che il proprio lavoro è poco o per niente sicuro. E una percentuale ancora superiore, oltre il 40%, dichiara che non sa se troverà lavoro nel caso in cui dovesse perderlo.

Si tratta di numeri importanti che ci ricordano come nel nostro pa­ese dopo il 2008 – e il successivo mancato rilancio economico – i numeri dell’insicurezza sociale si siano allargati3 e abbiano toccato significativamente anche una parte di quanti lavorano: si è parlato infatti di “poveri con lavoro” con riferimento a coloro che hanno contratti brevi e/o orari corti, tali da portare a retribuzioni comples­sivamente modeste e inadeguate. Questa preesistente, e non risolta condizione di disagio, è stata sicuramente rafforzata dalla pandemia: la quale ha evidenziato la presenza di una quota non piccola di lavo­ratori “vulnerabili”, maggiormente esposti ai rischi della perdita del lavoro, e che si trovano per giunta spesso al di fuori dei confini delle misure di protezione sociale esistenti. Infatti, se si prova a costruire un indice di insicurezza “composto” e “sintetico”, come si può vedere sotto, appare possibile osservare come solo il 18% dei lavoratori si

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trova in una condizione di maggiore sicurezza (o bassa insicurezza). Cosa che equivale ad affermare che nella percezione dei lavoratori, tanto dipendenti che autonomi, il livello minaccioso di insicurezza verso il futuro resta la variabile centrale, sia pure con diverse grada­zioni, con cui fare i conti in prospettiva (Tabella 2).

La pandemia, e non poteva essere altrimenti, ha alimentato l’insi­curezza preesistente, mettendo a rischio tanti posti di lavoro ed evi­denziando la fragilità di alcuni settori produttivi e delle relative basi occupazionali. Resta il fatto che l’insicurezza si staglia attualmente come il dato e il sentimento prevalente, pur con diverse sfumature, nel mondo del lavoro (e di una parte delle attività produttive), fino ad attraversarlo nel suo insieme. Essa tocca le sue punte maggiori nei settori più vulnerabili, all’interno dei quali si evidenzia, rispetto al passato, la peculiare fragilità di alcune componenti dei piccoli datori di lavoro e dei lavoratori autonomi (non solo quelli tradizionalmente considerati di “comodo”), oltre che dei lavoratori “precari”.

Rispetto ad alcuni capitalismi più solidi, come quelli del Centro e del Nord Europa, il nostro presenta dunque una quota più elevata di lavoro “vulnerabile” e meno incluso nelle protezioni sociali. Questo dipende dal fatto che in quei paesi non solo funzionano sistemi di welfare più maturi e inclusivi, ma soprattutto la qualità dei lavoratori e delle imprese è in larga misura solida, più prossima alla “via alta alla competizione”: dunque in linea di tendenza imprese più forti e lavo­ratori meno facilmente surrogabili. Se solo il 18% degli intervistati nella nostra survey dichiara di sentirsi pienamente sicuro dobbiamo ritenere che questo voglia dire che la percezione e il sentimento di insicurezza siano largamente pervasivi e attraversino le diverse facce del mercato del lavoro. Tale dato significa, per giunta e in modo preoccupante, che nel nostro capitalismo, dove ricopre uno spazio troppo largo la “via bassa” alla competizione,4 i disagi economici e le insicurezze dei lavoratori non riguardano solo le componenti con qualifiche o livelli d’istruzione più bassi, ma tendono a toccare, in modo più o meno ampio e significativo, anche le fasce più elevate.

E tutto ciò non riguarda solo il nostro paese. Come mostrano i ri­sultati della recente indagine della Fondazione di Dublino “CO­VID-19: Implications for Employment and Working Life”, dati simili emergono per tutta l’Unione europea, rendendo evidente la necessità coordinata di interventi. E ancora, come riportato da un campione di 800 dirigenti intervistati da McKinsey nel giugno 2020 – “What 800 Executives Envision for the Postpandemic Workforce” –, l’improvvisa accelerazione sui luoghi di lavoro dei cambiamenti tec­nologici e organizzativi per la pandemia sta accentuando lo scarto tra l’occupabilità dei pochi che tenendo il passo possono accedere a lavori di qualità e i tanti che ne stanno restando esclusi.

La pandemia ha insomma esasperato problemi già noti e rischia di rendere spaccature stabili i vecchi e i nuovi dualismi. Le polarizzazio­ni sociali che hanno indebolito i ceti medi e favorito l’avanzata dei populismi non sono del tutto alle nostre spalle,5 e gli effetti del virus potrebbero persino radicalizzarle. Una parte dei lavoratori espulsi e insicuri non trova, e non si sa se troverà, impieghi più sicuri e resta intrappolata indefinitamente in una condizione marginale.

Questa è sicuramente la ragione che rende centrali nei prossimi mesi e nella fase del Recovery Plan le politiche del lavoro: il grande compi­to dei riformisti torna a essere quello di creare lavoro e di rafforzare il valore del lavoro. Altrimenti, dopo la “società dei due terzi”, si rischia di andare verso una “società dimezzata”, nella quale c’è inclusione solo per metà dei suoi cittadini.

 


 

[1] Il riferimento è all’uso del famoso titolo di Karl Polanyi fatto nel recente Annale Feltri­nelli E. Mingione (a cura di), Lavoro: la grande trasformazione. L’impatto sociale del cam­biamento del lavoro tra evoluzioni storiche e prospettive globali, Feltrinelli, Milano 2020.

[2] Queste informazioni si basano su una survey relativa a 1500 lavoratori dipendenti e autonomi: F. Pirro, Il lavoro al tempo del Coronavirus: la condizione lavorativa, in M. Carrieri, C. Damiano (a cura di), Come cambia il lavoro nell’era del Covid. Quarta indagine sui lavoratori italiani, Arcadia, Roma, in corso di pubblicazione.

[3] Come abbiamo mostrato in M. Carrieri, C. Damiano (a cura di), Il lavoro che cam­bia. Verso l’era digitale. Terza indagine sui lavoratori italiani, Ediesse, Roma 2019.

[4] Anche se la recente letteratura sui “regimi di crescita” tende a ritenere che la spinta alla competizione da costi sia più generalizzata e favorita dalla versione rigorista delle regole di bilancio europee.

[5] Spunti dall’intervista di Federico Rampini a Dani Rodrik, Attenti il populismo, non è morto, in “la Repubblica”, 13 febbraio 2021.