Luigi Sturzo: “il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno!”

Di Agostino Giovagnoli Lunedì 24 Ottobre 2011 15:20 Stampa

L’intervento di Luigi Sturzo che qui viene riproposto, svolto nel 1923 in occasione del quarto anniversario della fondazione del Partito popolare italiano, ripercorre le direttrici di quello che, a giudizio dello stesso autore, può divenire il “programma del risorgimento meridionale”: un’opera lunga, faticosa, che sta solo ai cittadini del Mezzogiorno realizzare contando sulla spinta offerta dall’evento storico dell’Unità d’Italia.

 

Il testo di Luigi Sturzo che viene qui riproposto è eccezionalmente ricco di osservazioni e giudizi che spaziano dalla storia alla sociologia, dall’economia alla politica. Si tratta di documento espressivo, da un lato, della sua vasta cultura e, dall’altro, di quella lucidità analitica applicata ai problemi pratici che hanno fatto di lui un grande politico e un amministratore fuori dal comune. Al di là del merito delle questioni affrontate, particolare interesse presenta l’approccio da lui proposto ai diversi problemi e il metodo con cui li affronta.

Sono in questo senso emblematiche le sue affermazioni iniziali sul Mezzogiorno come problema «nazionale». Negli ultimi decenni, tale affermazione è stata rifiutata da gran parte dei politici italiani, sulla base di una banalizzazione che esprime anche una incapacità di considerare congiuntamente interessi e problemi diversi. Gli interessi del Nord sono diversi da quelli del Sud e, di conseguenza, non spetta agli abitanti del Nord risolvere i problemi di quelli del Sud. Affermare il contrario, si è detto, comporterebbe anche una deresponsabilizzazione dei meridionali: è, dunque, pure per loro che si devono separare il più possibile le sorti del Nord e del Sud. Queste affermazioni semplicistiche sono state presentate come espressive di una visione liberale e rispettosa del mercato, ma in realtà producono una disarticolazione dei problemi che rende poi impossibile affrontarli. Sturzo guardava invece le cose in modo opposto. In primo luogo, egli afferma, “la questione del Mezzogiorno è un problema «nazionale»” perché “gli effetti dei problemi che la compongono si ripercuotono in tutta la nazione”. La capacità di tenere uniti situazioni e problemi diversi, interessi e forze differenti è la premessa della politica intesa come governo della polis e cioè come azione volta al perseguimento del bene comune. Infatti, dal carattere nazionale della questione meridionale discende che, “è dovere nazionale risolverlo nella sua intera portata”. Ma questa posizione, così impegnativa, non implica affatto una deresponsabilizzazione dei meridionali. Risolvere la questione meridionale, egli precisa immediatamente, “non sarà (…) possibile, se noi che siamo figli del Mezzogiorno e che nella politica nazionale diamo molto della nostra attività e dei nostri sentimenti, non ci formiamo una coscienza pubblica della «questione» nella sua portata sintetica e nella sua ragione politica, perché possa irradiarsi e diventare forza motrice di altre energie, locali e statali, economiche e morali di tutta la nazione”. Ai meridionali, cioè, Sturzo assegna anzitutto il compito di sviluppare e diffondere la consapevolezza che l’insieme dei problemi delle loro regioni è riconducibile ad una questione unitaria, da affrontare globalmente per mettere in moto una catena di energie positive in molteplici direzioni. Spetta ai meridionali, insomma, creare “un programma politico della questione meridionale, tale da divenire nostra convinzione, nostra formula, nostra forza (al disopra dei partiti politici che ci dividono) e farlo divenire, con la efficacia delle minoranze convinte, pensiero generale degli italiani”.

È questo il nocciolo di ciò che egli chiama “il programma del risorgimento meridionale”, non “opera momentanea e di pochi anni, o che dipenda da una qualsiasi legge, o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo; è un’opera lunga, vasta, di salda cooperazione nazionale”. A fondamento di una nuova coscienza pubblica dei meridionali e del programma che ne scaturisce egli pone l’evento storico dell’Unità d’Italia. “L’unità nazionale fu così la vera forza di salvezza del Mezzogiorno, creò ad esso una coscienza e politica e diede una spinta di forza economica”. L’Unità, infatti, ha permesso ai meridionali di affrontare in modo radicalmente nuovo anche problemi molto antichi e profondi. Sturzo respinge preliminarmente i molti luoghi comuni “astorici” secondo cui i problemi del Mezzogiorno sono “un effetto dell’indole, dei costumi, dell’indirizzo culturale, della mancanza di iniziativa e di coraggio da parte degli abitanti di queste belle e disgraziate regioni” o da affrontare senza una visione politica chiara “come una questione di lavori pubblici, specialmente locali, ai quali lo stato già provvede con una certa specialità di metodi e con concorsi finanziari più larghi che per altre regioni”. E pone l’evento dell’Unità a fondamento di una occasione storica per i meridionali, a patto che questi vadano fino in fondo nel trarre dall’unificazione nazionale tutte le conseguenze che essa implica, superando “la formula dualistica che pone in antitesi Mezzogiorno e governo, anzi Mezzogiorno e stato, come due entità diverse e in contrasto, come se noi meridionali non fossimo elementi e forze costitutive dello stesso governo e dello stato italiano”.

L’Unità, spiega Sturzo, ha messo fine ad un particolarismo che immobilizzava la società meridionale. “I partiti politici di ieri erano localistici, campanilistici, personali, frazionati; il contatto limitato fra le province meridionali isolava la vita cittadina; Napoli, Palermo, Bari, Cagliari non erano metropoli, perché anch’esse lontane dal ritmo economico, con partiti localizzati, tormentati da problemi finanziari, assillati dalla mafia e dalla camorra, di che si giovarono alternativamente i partiti locali e il governo centrale”. L’Unità ha permesso la formazione di partiti nazionali, la cui possibilità di operare è molto più vasta e profonda. “Oggi basta: i partiti nazionali debbono far sentire che la cerchia della vita politica è estesa dall’un campo all’altro d’Italia, che la solidarietà, invocata da Giustino Fortunato, non è un semplice ed assurdo altruismo di due popolazioni che abbiano interessi, mentalità, costumi diversi, ma una convergenza di politica e di economia, in uno sforzo restauratore della nostra vita nazionale”. I partiti, nella visione di Sturzo, non dividono ma unificano lo Stato nazionale, costituiscono elementi decisivi della sua esistenza e del suo sviluppo. Sono i partiti nazionali, infatti, che permettono ai meridionali di sviluppare la nuova coscienza da lui auspicata. “La redenzione comincia da noi! La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! Così il resto dell’Italia riconoscerà che il nostro problema è nazionale e unitario, basato sostanzialmente sulla chiara visione di una politica italiana mediterranea e di una valorizzazione delle nostre forze”.

 


IL MEZZOGIORNO E LA POLITICA ITALIANA [1]

 

Nel programma del Partito popolare italiano, fu messa sul piano politico, come affermazione fondamentale (per la prima volta in Italia) «la risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno». Così è detto al capo V; e nel primo congresso nazionale tenuto a Bologna nel giugno del 1919 fu riaffermato che il problema del Mezzogiorno è di carattere «nazionale». Questa impostazione data da noi a nome di un partito – e non più come opinione personale, alla ripresa dell’attività politica del dopoguerra –, passò ad altri partiti, che in varie forme fecero anch’essi simili affermazioni, benché non le avessero inserite nel loro programma; da ultimo anche il fascismo, che sembrava escludere affermazioni credute particolariste come questa, ha sentito che al problema del Mezzogiorno deve darsi portata nazionale.

Però mentre tale impostazione risponde ad una realtà profonda – che da noi meridionali è certo più sentita e meglio intuita – non ha avuto fin oggi che una semplice espressione esteriore e teorica, e ciò per la mancanza di una impostazione politica di tale problema, sì da poter creare un orientamento sintetico e convergente di tutti quegli aspetti, tecnici, finanziari, economici e morali, che con una frase significativa e sintetica vengono detti «questione meridionale».

Premetto che per Mezzogiorno intendiamo non solo quello continentale dall’Abruzzo alla Calabria, ma anche le isole di Sicilia e Sardegna. È naturale che così vasta regione, anzi agglomerato di regioni, abbia molti problemi da agitare e da risolvere. Ma la convergenza di tante condizioni quasi omogenee, la connessione di interessi e di economie, la simultaneità e univocità di cause e similarità di effetti – pur nel vario e diverso sviluppo politico che li assomma e li proietta nella visuale nazionale –, fanno dei tanti problemi un problema solo, formidabile, e premente sulla coscienza pubblica.

Quando noi diciamo che la questione del Mezzogiorno è un problema «nazionale», intendiamo ciò sotto un duplice aspetto: in quanto gli effetti dei problemi che la compongono si ripercuotono in tutta la nazione, e in quanto è dovere nazionale risolverlo nella sua intera portata. Ora non sarà ciò possibile, se noi che siamo figli del Mezzogiorno e che nella politica nazionale diamo molto della nostra attività e dei nostri sentimenti, non ci formiamo una coscienza pubblica della «questione» nella sua portata sintetica e nella sua ragione politica, perché possa irradiarsi e diventare forza motrice di altre energie, locali e statali, economiche e morali di tutta la nazione.

Il Partito popolare italiano si è prefisso questo compito fin dal suo inizio, e ne volle prendere impegno segnandolo nelle sue tavole programmatiche; e la sua azione e quella dei proprio uomini al governo non è stata priva di utili effetti, e le varie affermazioni alla camera non furono sterili e vane. Ed oggi, prendendo occasione dal quarto anniversario della costituzione del partito, in questa metropoli del Mezzogiorno – che ne ha tutti i fascini e che ne incentra tante energie – intendo riaffermare il programma del risorgimento meridionale, quale è nella sua natura complessa e nella sua ragione nazionale, parlando sul tema «Il Mezzogiorno e la politica italiana». Alla presenza di tante rappresentanze, venute dalle regioni più lontane, e di questa calda folla di vario sentire politico ma di un sol palpito per le nostre terre, a nome del Partito popolare italiano, intendo ripetere, in questo giorno, per noi fausto e pieno di speranze, quanto nell’aprile del 1920 il nostro secondo congresso qui a Napoli volle dimostrare di solidarietà e di comprensione dei nostri mali, ma con un piano reso dall’esperienza più maturo e più sicuro nelle linee ricostruttive, e con una volontà ferma e decisa di lavorare e cooperare alla soluzione per l’interesse e il bene della patria nostra. Questa patria, che non è solamente geografica né solamente politica, dalle Alpi al Lilibeo è tutta una unità inscindibile, ed è tutta in un travaglio morale, politico ed economico, per risolvere la sua crisi (della quale parte notevolissima è il Mezzogiorno) e riprendere il suo cammino di civiltà e di progresso.

Il coraggio

Stando e vivendo fuori dell’ambiente meridionale, – nel contatto con studiosi, uomini politici, economisti, finanzieri, persone dedite agli affari, giornalisti di qualche cultura e burocrati di discreta levatura – si ha l’impressione che il maggior numero di costoro consideri il problema meridionale anzitutto come un effetto dell’indole, dei costumi, dell’indirizzo culturale, della mancanza di iniziativa e di coraggio da parte degli abitanti di queste belle e disgraziate regioni; in secondo luogo come una questione di lavori pubblici, specialmente locali, ai quali lo stato già provvede con una certa specialità di metodi e con concorsi finanziari più larghi che per altre regioni, intervenendo anche di là da una equa misura per quelle condizioni speciali che veramente esistono, ma che spesso gli uomini politici del Mezzogiorno esagerano, per abitudine retorica e a scopo di facili clientele elettorali. Così la figura del meridionale è caratterizzata, nella opinione di molti, come quello che non fa, né sa fare quanto dovrebbe, per superare le difficoltà del proprio ambiente, e mendica dallo stato aiuti e favori, non sempre proporzionati o completamente utili, né sinceramente disinteressati.

Sì, è vero, vi sono problemi speciali, come quello degli agrumi e degli zolfi in Sicilia, quelli del terremoto a Messina, in Calabria, nella Marsica, la malaria, le arvicole, le frane in molte regioni, i porti di Bari, Palermo e Napoli, le bonifiche a Caserta, Salerno, Cosenza e Cagliari; ma in quali regioni non vi sono problemi locali di varia natura e di urgente soluzione?

Ogni provincia italiana, si può dire, ha il suo bene e il suo male; forse per questo si è mai parlato in Italia, come di questione permanente e immanente di politica generale, di una questione piemontese o ligure o lombarda o toscana o romagnola? I più benevoli, quelli che han viaggiato (son pochi gli italiani che viaggiano a scopo di studio e di politica oggettiva) hanno, sì, una impressione generica di vari problemi, come quelli della viabilità, dei trasporti, del latifondo, della pubblica sicurezza nelle campagne, e così via; ma per lo più deformati da preconcetti di una letteratura romantica che ci diffama, oppure da incomprensione degli stati d’animo della nostra popolazione; sentiti attraverso la coloritura sentimentale della nostra conversazione immaginosa e superficiale, che spesso fa deviare anche gli studiosi nelle loro inchieste ed analisi dei nostri mali.

Del resto è facile, in una conoscenza affrettata, misurare le nuove cose apprese col metro delle cose già conosciute in altri ambienti, e non comprenderle nelle loro ragion d’essere e nel loro profondo significato, onde viene eliso qualsiasi sforzo pratico da una dualità di modi di valutare e di apprezzare le stesse cose, che determinano due posizioni veramente diverse fra il Mezzogiorno e il resto dell’Italia. Pochi sono quelli che fuori della nostra terra conoscono il nostro problema, e non tutti sono in grado di far valere la loro esperienza. D’altra parte, bisogna convenire che la falsa impostazione politica della questione è dovuta a noi; siamo abituati oramai a domandare al governo, più che allo stato, ogni aiuto, ogni intervento diretto o indiretto, buono o cattivo, efficace o inutile, possibile o impossibile; e ciò senza che vi corrisponda, da parte nostra, una forma di attività, di preparazione risolutiva, di cooperazione efficace, di impostazione realistica e di solidarietà politica delle nostre forze. Onde è purtroppo doloroso dover constatare che da trent’anni che si parla apertamente di questione meridionale (prima se ne parlava sottovoce), non si è riusciti a rimuovere una sola delle cause fondamentali della nostra inferiorità; solo si è ottenuto (bontà degli eventi) quel tanto di azione statale quanto se ne sarebbe ottenuta senza parlare di questione meridionale, ma solo sostenendo (come si fa in ogni regione) quei particolari interessi o quelle necessarie provvidenze che rispondono a determinati problemi concreti. Chi mai si sarebbe opposto alla costruzione delle Calabro-Lucane, se venivano proposte con la stessa semplicità con cui si parlò della Cuneo-Ventimiglia o della Ovada-Genova? E quando si pensò alle bonifiche emiliane, forse si diede loro la stessa impostazione che all’eterno acquedotto pugliese? Del porto di Savona si fece meno rumore e più fatti che non di quello di Bari; e il porto di Palermo, già in costruzione, è insidiato assai più che non sia quello industriale di Venezia.

 

Voci isolate

Nessuno potrà affermare che, senza agitare la questione meridionale – come una paurosa e complessa tragedia di un popolo –, non si sarebbero ottenuti allo stesso modo quei provvedimenti e molti altri, nella più o meno equa e razionale distribuzione dei lavori pubblici. E mentre la letteratura sulla questione meridionale è larga e vasta (come raccolta di dati e studio di elementi), la impostazione politica del programma è stata tentata solo sporadicamente e senza efficacia da vari uomini nostri di qua e di là dal faro. Ma sono state voci isolate, inascoltate, alle quali ha fatto seguito la facile lamentela e la inefficace protesta, quasi mai un’azione concorde e forte; e tutti i provvedimenti adottati dallo stato hanno avuto una particolare importanza per curare qualche fenomeno del male, ma non affrontavano in pieno le causali del male.

Per arrivare a un risultato sicuro, occorre anzitutto rifare il nostro orientamento, superare la formula dualistica che pone in antitesi Mezzogiorno e governo, anzi Mezzogiorno e stato, come due entità diverse e in contrasto, come se noi meridionali non fossimo elementi e forze costitutive dello stesso governo e dello stato italiano. Anzi occorre fare un passo ancora più decisivo. Occorre superare il nostro stato psicologico che ci mette in condizioni di inferiorità, perché nell’accentuare questo contrasto e nel riportarlo alle condizioni diverse con le altre regioni d’Italia (specialmente del nord), sembra che si attenda un ausilio esterno, lontano, invocato, invece di creare noi un programma politico della questione meridionale, tale da divenire nostra convinzione, nostra formula, nostra forza (al disopra dei partiti politici che ci dividono) e farlo divenire, con la efficacia delle minoranze convinte, pensiero generale degli italiani.

È possibile ciò? Ci saranno questi uomini, questi partiti, questo «club» intellettuale che creerà nel Mezzogiorno la sua nuova coscienza e la sua nuova forza?

(…)

 

La sinistra

Il colera rivelò all’Italia meravigliata la parte coperta e oscura di Napoli bella, come la crisi zolfifera rivelò il «caruso» siciliano; i terremoti fecero conoscere le Calabrie prima che Reggio, Messina e la Marsica fossero distrutte; l’emigrazione come esodo di popolo abbattuto economicamente, impressionò ed allarmò governo e nazione; i fasci siciliani del ’93 e le inchieste – celebri per i nomi di Jacini, Sonnino, Franchetti, di San Giuliano – mostrarono il grado di inferiorità economica e sociale della grande agricoltura e del latifondo; Zanardelli corse alla scoperta della Basilicata; così dal ’76 al ‘902, eventi tragici e volontà di uomini politici fecero spuntare le legislazioni del Mezzogiorno; ma non venne per questo la unificazione spirituale; anzi fu accentuata la distanza dualistica fa Mezzogiorno e governo, fra sud e nord.

L’avvento della sinistra con la partecipazione del Mezzogiorno aveva aggravato la concezione parlamentarista e la sua gravitazione sulle masse elettorali, non ancora emancipate dalla influenza personalistica e di campanile. La necessità del gioco parlamentare, divenuto quindi vero metodo di governo, detto «trasformismo», fece largamente sfruttare i difetti di sentimentalismo, le condizioni di povertà economica, la impreparazione tecnica e politica del nostro Mezzogiorno.

(…)

 

Corruzione

Orbene, in questo pervertimento della vita politica parlamentare, proprio il Mezzogiorno e la questione meridionale figurano come «alibi» per una politica economica a favore delle industrie dell’alta e media Italia, e servono come base parlamentaristica ai governi trasformistici di Depretis e di Giolitti, i quali seppero penetrare ancora di più, e meglio dei precedenti governi, nelle divisioni locali delle nostre regioni, dominare con i favori e con le minacce. L’elemento estremo del Mezzogiorno, da Imbriani a Bovio, faceva della politica retorico-idealista; lo stesso Colaianni che diede valido contributo allo studio dei problemi meridionali, non seppe superare i forti pregiudizi delle sue origini anticlericali e repubblicane; e l’anticlericalismo meridionale servì assai bene al gioco politico. Di tradizione tanucciana, giurisdizionalista e statale, l’anticlericalismo prese facilmente le classi intellettuali e gli spiriti estremi, che in gran parte erano lontani dal pensiero e dalla pratica cristiana. Esso fu legato, nella cultura e nella concezione statale, allo spirito unitario e nazionale; cosa che coprì la merce avariata delle competizioni campanilistiche, dalla tolleranza della mafia e della camorra, alle clientele locali prepotenti e malversatrici; che il governo, con sapienza antica di dominazioni spagnolesche, seppe tollerare e favorire, e, a volte, anche, perché no?, minacciare, per il disinteressato scopo di avere le maggioranze sicure alla camera dei deputati, anche in provvedimenti che senza dirlo, ferivano interessi vitali del Mezzogiorno. E moltissimi votarono quelle leggi in buona fede; non ne penetrarono lo spirito, non ne previdero gli effetti, non ne conobbero la struttura, non ne valutarono la portata economica e la ragione politica.

Il dominio era ed è purtroppo in mano all’alta banca, e questa non è mai esistita nel Mezzogiorno; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia sono enti pubblici, che hanno un compito ben circoscritto e giustamente al di fuori dei giochi di speculazioni e di impieghi aleatori, ed hanno, non certo a loro vantaggio, la funzione di istituti di emissione, che ne limita ancora di più la vitalità e lo sviluppo e ne burocratizza la organizzazione. Comunque, l’azione di tali istituti è ben localizzata e poco influisce sul resto della economia nazionale e dell’orientamento statale. L’alta banca e l’alta finanza erano altrove, nella loro sede più naturale: influivano sulla vita politica – in quanto è espressione e spesso conseguenza del fenomeno economico – e ne determinavano lo sviluppo, in quanto la politica può, a sua volta, creare e sviluppare il fenomeno economico.

(…)

Le stesse industrie, a tipo domestico e artigiano, – che prima del 1860 avevano nel Mezzogiorno promettente sviluppo, non inferiore a quello del nord, quale la seta, la lana e il cotone – non potevano attirare l’attenzione dei finanzieri, perché vennero meno col cadere delle linee doganali interne e non poterono tentare la loro trasformazione industriale, perché lontane dal mercato generale. La stessa marina mercantile napoletana e siciliana – che primeggiava in confronto alle altre – con l’unificazione perdette la sua posizione; la Sicilia rimase ancora per parecchio tempo nel tentativo di trasformazione, e certo ne ebbe vantaggio, finché anche questa industria non si coordinò con quella ligure.

Il Mezzogiorno fu perciò considerato esclusivamente agricolo; di un’agricoltura arretrata, di poco rendimento, meno le zone vesuviane o etnee o della conca d’oro, le litoranee adriatiche e tirrene. Agricoltura del latifondo abbandonato dal proprietario, agricoltura di rapina del gabellotto o del subaffittuario, agricoltura afflitta dal brigantaggio di campagna, dalla mafia, dall’abigeato, dalla malaria e dal disboscamento. Chi avrebbe affidato i capitali a un tale Mezzogiorno senza istruzione e senza volontà, i cui mezzi finanziari non potevano rispondere al ritmo rigoglioso e orgoglioso della economia moderna? Intervenga lo stato e faccia quel che può; faccia strade, faccia scuole, faccia acquedotti, porti un po’ di civiltà; e poi il mondo finanziario accorrerà in aiuto del Mezzogiorno.

Questo è stato il grande errore di impostazione della «questione meridionale» e il processo storico e legislativo fino allo scoppio della guerra. Ma la guerra rivelò un Mezzogiorno ancora povero e ingenuo nei suoi figli, così robusto però moralmente, così sano spiritualmente, così pieno di energia e di resistenza fisica – pur sulle creste fredde di montagne nevoso, alle quali non era abituato – così devoto al sacrificio per la patria, da far pensare anche agli estranei che il Mezzogiorno non può essere guardato come una colonia economica, o come campo di sfruttamento politico, o come regione povera e frustra, alla quale lo stato fa la concessione di una particolare benevolenza. No, il Mezzogiorno è vivo come un’entità integrante la vita stessa nazionale, come una forza reale da sviluppare nella sintesi delle forze italiane; il suo travaglio economico e morale è il travaglio della intera nazione.

 

Egemonia

Poiché il fenomeno che abbiamo descritto è stato fin ieri costante; e poiché l’istinto economico, se vi fossero stati mutamenti sostanziali nelle correnti generali in rapporto al nostro problema, li avrebbe rivelati subito; è necessario renderci esatto conto delle ragioni sostanziali che, direi quasi, giustificano il fatto economico che si è svolto dal ’60 al ‘915, senza per questo giustificare il fatto politico, al quale tutt’al più si daranno, come dicono i giudici, delle attenuanti.

La lotta insinuata fra nord e sud non è, né può essere guardata come una lotta di egemonia politica ed economica; anche perché il sud non può dirsi che abbia lottato; ha mormorato, ha protestato, ha scritto libri ed opuscoli, ha fatto discorsi; manca in tutto ciò la sostanza e il terreno della lotta. C’è stato invece un naturale assorbimento di forze; dico «naturale», perché non saprei altrimenti definire questa azione di flusso economico verso il nord. Infatti, tutto lo sviluppo della economia europea, dall’epoca napoleonica in poi – sotto l’influenza della trasformazione della industria piccola e domestica in grande industria manifatturiera, dopo l’apertura di grandi traffici e la invenzione di mezzi rapidi e potenti di comunicazione – prima nella concezione liberista di marca inglese, e poi nel regime protezionista – superato il periodo di assestamento europeo con l’unificazione italiana e la costituzione dell’impero germanico, nella pace che seguì la guerra del ’70, lo sviluppo economico industriale e l’attività commerciale erano di fatto centro-europei. L’Italia, con il suo porto di Genova e l’hinterland lombardo, con le nuove comunicazioni rapide con la Francia, la Svizzera e la Germania; l’Austria-Ungheria con Trieste e Fiume e il vasto hinterland commerciale dell’ex-impero, formavano i campi di attrazione e trasformazione industriale e commerciale, verso cui doveva gravitare gran parte della economia del nostro paese. Era quindi naturale che in alta Italia si intensificassero i trasporti, che la rete ferroviaria fosse più densa, che le industrie fiorissero e che la popolazione, già favorita dalle migliori condizioni del suolo e dell’abitato, in un ritmo più accelerato del giro del denaro, potesse con minori difficoltà (che del resto non furono poche) superare la crisi del nuovo regno – nell’abbattimento di vecchie barriere e nella trasformazione dell’antico artigianato – conquistare una competenza tecnica, vincere nella lotta e divenire i forti industriali, i commercianti audaci, i finanzieri coraggiosi della nuova Italia. Sventura volle che alle iniziative sane si unissero quelle non sane, le parassite, e che queste divenissero centro di speculazioni politiche attorno al governo che mancava di una visione complessiva esatta, sia nel coordinamento di una politica economica nostrana con la politica estera. Qui sta il perno della crisi meridionale. Nel rigoglio di queste nuove forze e nel bisogno di protezione e di danaro, l’economia del nord, cioè tutta l’economia industriale dell’Italia, non poteva che rivolgersi al governo e alle banche, e, a mezzo di queste, esercitare la funzione (naturale anch’essa) di assorbire le energie minori, di utilizzare a proprio vantaggio altre forze, di orientare a sé il resto del proprio mondo; e come si comprava con i migliori salari la «connivenza» (non sempre nel senso buono) delle classi lavoratrici, orientate verso il socialismo, così si conquistava con i «premi politici» (dico così per pudico eufemismo) il consenso di «sfruttamento» (senza fini cattivi, anzi spesso senza averne la coscienza), dico, di sfruttamento delle energie e della condizioni del Mezzogiorno. Non vi fu perciò lotta egemonica, ma lento assorbimento, depauperamento, disintegrazione, irrigidimento nel campo dell’amministrazione locale e della ripercussione politico-parlamentare, nel campo dello sviluppo industriale e agricolo. Le forze del Mezzogiorno perdettero o meglio non acquistarono mai l’iniziativa politica – non ostante avessero avuto uomini validi al governo da Bonghi a Gianturco – e non ostante che per alcun tempo meridionali fossero a capo del governo, sopra tutti Crispi, che, pure tra grandi difetti e avversioni, ebbe almeno una concezione meridionale che fu insieme italiana. Infatti voi avete il diritto di domandarmi: c’era una concezione economico-politica meridionale che potesse coesistere con lo sviluppo industriale dell’alta Italia, sviluppo naturale, e perciò non sopprimibile né coercibile, al quale opportunamente, logicamente, si volsero le altre forze politiche e finanziarie del paese?

A questa domanda, che è la domanda centrale del problema, e come critica storica pel passato e come costruzione per l’avvenire, mi sforzerò di dare una risposta chiara e, spero, decisiva, per la migliore comprensione della «questione meridionale».

 

La guerra

Come l’alta Italia ha una zona naturale di commercio e di comunicazione che s’irradia nell’Europa centrale, specialmente del nord e dell’est, ed ha il suo sbocco a Genova – ed è bastata l’apertura delle Alpi prima e la triplice alleanza poi, a creare fino allo scoppio della guerra una economia che avesse per centro Milano – e in seguito alla guerra abbiamo meglio conosciuto il valore economico di Trieste e Fiume in rapporto al bacino danubiano; così il Mezzogiorno continentale e le isole hanno la loro zona nel Mediterraneo, e sono non solo il ponte gettato dalla natura fra le varie parti del continente europeo in rapporto alle coste africane ed asiatiche, ma il centro economico e civile più adatto allo sviluppo di forze produttive e commerciali e punto di interferenza degli scambi.

Il Mediterraneo fu sempre il bacino dell’Europa più denso di traffici; e la civiltà di vari millenni dimostra che sempre il Mediterraneo avrà una sua economia che non può venir meno, perché basata su necessità naturali.

(…)

Dopo la guerra l’Italia si è incantata nell’episodio fiumano nell’alto Adriatico, episodio sentimentale e doloroso, ma che poteva avere, in un quadro generale, una soluzione migliore di quella data oggi con i trattati di Rapallo e di Santa Margherita; e non tenne conto del Mediterraneo, del quale è parte viva l’Adriatico, non come un lago morto e per sé stante, ma come un braccio di mare teso dal sud al nord, in una vitalità di commercio col centro continentale.

Escludo che questa si chiami politica imperialistica, lontana dal pensiero e dalle convinzioni di noi popolari. Un paese che, come il nostro, ha esuberanza di braccia e necessità di espansione, non può, senza diffamare il proprio nome, fare una politica emigratoria di lavoratori senza capitali e con scarsa preparazione tecnica e intellettiva e inondare i mercati mondiali – determinando le ripercussioni di concorrenza nella mano d’opera e lo sfruttamento del lavoratore –; ma deve sforzarsi di divenire centro di una economia relativa alle proprie fonti produttive, e crearvi attorno una larga sfera di consensi e di attrazione; non solo per correggere il fenomeno emigratorio, ma per trasformare la sua stessa potenzialità produttiva in realtà di commerci e di industrie. Questo doveva essere il programma italiano della nostra politica mediterranea, l’indirizzo costante e intelligente, nelle difficoltà perenni e insidiose della politica estera.

Alcuni opinano che storicamente sia un errore credere che il sud Italia possa avere una sua floridezza, e quindi divenire un notevole centro economico del bacino mediterraneo, sì da determinarvi una politica realistica. Senza voler fare una discussione storica – che si allontanerebbe dalle linee di un discorso – credo che il tema della povertà naturale del Mezzogiorno abbia forzato la mano perfino ad uno studioso e profondo conoscitore del nostro problema quale Giustino Fortunato. Nessuno nega che le condizioni fisiche, demografiche ed economiche delle regioni del sud siano difficili e siano state aggravate dalle vicende storiche; ma sarebbe errore conchiudere per una inferiorità insanabile.

(…)

Giustino Fortunato, nel suo severo esame, confrontando nelle varie epoche le condizioni del nord con quelle del sud, arriva alla conclusione della superiorità delle prime sulle seconde per condizioni naturali profonde e insopprimibili. A parte la non completa valutazione storica e pur consentendo in molti rilievi economici, egli obbediva a preoccupazioni polemiche: quella di dimostrare che la unità italiana non ha danneggiato il Mezzogiorno (tesi che per noi è superata e dal fatto e dal valore che noi diamo all’unità nazionale, al disopra di qualsiasi altro interesse), e la preoccupazione di dimostrare che a un Mezzogiorno naturalmente povero, occorre la solidarietà nazionale per farlo risorgere, il che può diventare un errore di impostazione del nostro problema. Il Mezzogiorno, non ostante le sue povertà naturali, la contrarietà del suo clima e la sua deficiente organizzazione sociale e politica, ebbe periodi di floridezza; e questi coincisero con una politica mediterranea. Veramente la parola «politica» nel senso moderno non è punto esatta, perché più che linee e direttive di politica voluta e prestabilita (a parte il periodo romano), vi furono fenomeni e fatti politici sotto l’influsso delle economie prevalenti. Queste crearono città come Siracusa e Agrigento, Taranto e Bari, Pesto, Capua e Benevento, Amalfi e Salerno, Palermo e Napoli; cioè il Mezzogiorno della costa lussureggiante o della pianura ferace, a cui faceva capo la produzione agricola e pastorizia dell’interno, e la ricchezza mercanteggiata nel Mediterraneo. Il Mezzogiorno povero – che soffre di tutte le avversità del clima, di tutte le asprezze della terra, di tutte le oppressioni fiscali, delle incursioni barbariche, della rapacità straniera, che per essere difeso diventa feudo della Santa Sede – è quello che non ha potuto polarizzare la sua economia verso la costa, non ha potuto formare il ceto agrario libero e produttivo con l’enfiteusi, non ha potuto superare le difficoltà dei trasporti e avvicinarsi al mondo che pulsa negli affari e nella vita: lotta gigantesca di secoli per ogni popolo, nel flusso e riflusso della civiltà e della economia.

Quando la economia si sposta verso il nord e i banchieri toscani e genovesi tengono il mondo europeo in pugno; e le Americhe aprono al vecchio continente nuove attività; e il turco incalza in Oriente; il regno delle due Sicilie diventa un punto dello scacchiere delle grandi forze in gioco e in lotta, che è conteso per l’equilibrio europeo e per il dominio delle famiglie reali e imperiali; ma la sua decadenza è segnata, come la decadenza greca sotto l’impero romano, e le sue forze intime si irrigidiscono; finché, nel secolo XVIII, poté formarsi una nuova coscienza politica, e dare un primo impulso alla valorizzazione delle sulle sue forze, che nel secolo XIX prepararono il nostro risorgimento.

 

L’unità

L’unità nazionale fu così la vera forza di salvezza del Mezzogiorno, creò ad esso una coscienza e politica e diede una spinta nuova di forza economica. Occorreva trovare il suo centro di sviluppo e di vita, e questo centro è il Mediterraneo.

Si domanda da parecchi se è mai possibile che, nelle condizioni presenti, il Mezzogiorno possa superare le difficoltà economiche; e, sia pure favorito da un indirizzo politico prevalentemente mediterraneo, vincere la lotta della concorrenza e passare da un’economia quasi passiva a un’economia attiva.

Ora io affermo con ogni convinzione che questo Mezzogiorno povero, con condizioni fisiche aspre e difficili, che ha una ragione di permanente inferiorità agricola nella sua scarsa umidità, nelle lunghe siccità e nelle piogge irregolari, che ha da secoli accumulato rovine con i disboscamenti, con le frane, con la malaria; questo Mezzogiorno, non bonificato e senza una coscienza industriale, né un’attrezzatura commerciale, né una finanza bancaria forte e autonoma, può risorgere; se (badisi al se) la politica che la nazione italiana, non solo i governi ma la nazione italiana, saprà fare, sarà una politica forte e razionale, orientata al bacino mediterraneo, cioè atta a creare al Mezzogiorno un hinterland che va dall’Africa del nord all’Albania, dalla Spagna all’Asia Minore; se questo significherà apertura di traffici, circolazione di scambi, impiego di mano d’opera, colonizzazione sotto il controllo diretto dalla madre patria; perché tale fatto darà la spinta a creare nel Mezzogiorno un’agricoltura razionale e maggiore sviluppo di commerci, pari alla propria importanza produttiva.

Intendiamoci: il risorgimento meridionale non è opera momentanea e di pochi anni, o che dipenda da una qualsiasi legge, o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo; è opera lunga, vasta, di salda cooperazione nazionale; e che come spinta, orientamento, convinzione, parta dagli stessi meridionali. Quando perciò imposto il problema nella sua ragione fondamentale di politica economica ed estera, intendo riportarlo alla sua essenza, ma non credo che sia perciò risolvibile a tamburo battente.

Spiego anzitutto il termine di connessione. La spinta a una grande trasformazione economica deve essere data dalla certezza del vantaggio, e dalla sicurezza che sarà per quanto è possibile duratura. Per quante leggi si facciano, non si possono superare queste barriere della economia; né d’altro lato era possibile per il passato, e molto meno sarà possibile per l’avvenire, pretendere che lo stato abbia mezzi adeguati a concorrere utilmente ed efficacemente alla trasformazione economica del Mezzogiorno; né è a credere che lo stato possa impunemente violare le leggi economiche, e creare d’un tratto una forza produttiva ove non esista.

Lo sforzo politico deve essere, per la legge naturale, pari allo sforzo economico, necessario a vincere gli ostacoli che si frappongono ad avere una produzione rimunerativa. Qui sta il nodo del problema; qui debbono convergere le forze autonome, quelle nazionali e quelle statali; cioè quelle morali, quelle economiche e quelle politiche.

Commette un grave errore chi nega al Mezzogiorno lo sforzo di superamento, limitato a modeste energie, reso difficile da condizioni asperrime, a crearsi una agricoltura nazionale (nessuno dirà che l’agricoltura del 1860 e quella di oggi siano le stesse), a tentare la trasformazione dei prodotti propri. Lo sforzo è stato discontinuo, limitato ad alcune zone, provato da crisi fortissime, senza una vera assistenza da parte dello stato, la cui opera è stata deleteria principalmente per tre ragioni: per il regime doganale, per la pressione tributaria e per la uniformità di legislazione economica.

Non posso che limitarmi ad alcuni accenni rapidissimi, dato il tema di questo discorso.

Uno dei criteri fondamentali che doveva dirigere la politica dello stato italiano, fin dal 1860, doveva basarsi sul fatto che il Mezzogiorno era paese naturalmente povero, di scarsa potenzialità economica e in condizioni non favorevoli di espansione; invece, si magnificò retoricamente la bontà e l’ubertà della zona dove fiorisce l’arancio, si ricordò il giardino delle Esperidi, si esaltò il bel cielo, il sole fecondo, la terra ferace.

L’errore

Errore di prospettiva iniziale, che diede le prime delusioni, ma quando cominciò lo sforzo di produttività agricola, sotto il favorevole regime del trattato commerciale del 1863 stipulato con la Francia (verso la quale, in regime abbastanza libero, si orientò il Mezzogiorno); e già le migliorate condizioni dei trasporti, nella relatività di quel periodo cominciavano a destare le prime energie, dopo tanto tempo di torpore, ecco il primo colpo grave inferto al Mezzogiorno agricolo con le tariffe doganali del 1877. Con esse si inaugura il regime protezionista – voluto anche dagli stessi meridionali –, con la convinzione che anche noi potevamo creare la nostra industria, non pensando che, per creare un’industria che vinca la concorrenza, occorre almeno parità di condizioni: cosa che il Mezzogiorno non poteva ottenere, se non altro per la distanza e i costi di trasporto. Questi venivano per di più alterati dalla protezione siderurgica e dalla ripercussione sulla mano d’opera e sui consumi generali. Il circolo vizioso, che è legato alla protezione, fa pagar dalla stessa economia quel che si crede di vantaggio generale e che invece diviene il vantaggio di una economia privata.

Che dire poi quando l’industria protetta è anche, direttamente o indirettamente, sovvenzionata o premiata? Oltre il contributo che dà l’economia nazionale per la inferiorità della propria produzione da smerciare all’estero (ricordiamo, noi meridionali, che il trattato di commercio con la Francia, rinnovato nel 1881, fu denunziato nel 1887, e la guerra di tariffe che ne seguì sconvolse i nostri mercati), vi è anche il danno che ne soffre il contribuente, che paga le tasse allo stato, perché questo le trasformi in premi all’industria protetta. Con questo sistema di soffocamento i meridionali credettero di poter avere un’industria con il concorso statale, mentre il regime di protezioni e di premi giovava all’industria del nord e danneggiava il nostro mercato.

I trattati commerciali, specialmente con l’Austria e la Germania, del 1891 e 1892, giovarono in qualche modo all’agricoltura, ma allora l’emigrazione agricola andava prendendo grave e pernicioso sviluppo, e la crisi bancaria toglieva quella parte di risparmi che doveva essere destinata alla produzione. E pure lo sviluppo del commercio dell’olio, del vino, degli agrumi, degli ortaggi e frutta fresca e in conserva, crebbe notevolmente; quale mai sarebbe stata la spinta alla trasformazione agricola del sud, se il regime doganale fosse stato meno ingiusto? Si dice che in compenso si ebbe il dazio sul grano: vecchio errore già confutato dall’on. Colaianni. È facile dimostrare che, in rapporto alla popolazione meridionale, la produzione granaria del Mezzogiorno è insufficiente al consumo locale, quindi anche il Mezzogiorno è tributario all’estero e paga, o pagava, il suo dazio sul grano anche per le sue industrie granarie e le sue paste; per le quali è necessario lo scambio di qualità per le razionali miscele. Il dazio doganale servì allo stato come cespite d’entrata; e favorì i produttori di ogni regione, anzi più il nord che il sud, perché il costo di produzione granaria è meno alto nel settentrione. Del resto, tanto l’assenza di tale dazio quanto la sua permanenza dà luogo a speculazioni di mugnai o a guadagni di commercianti o a utili di latifondisti, nel gran crogiolo che è il traffico di simili derrate.

Il sistema doganale non ebbe miglioramenti, né mutamenti di indirizzo fino alla guerra. Nella discussione dei trattati doganali il contrasto fra economia agraria ed economia industriale ebbe rilievi degli economisti e sulla stampa; qualche vantaggio particolare, ottenuto per l’agricoltura, non modificò l’indirizzo protezionista industriale. Dopo la guerra, l’oscillazione della moneta e il regime proibitivo che sopravvisse, resero difficile la ripresa commerciale specialmente dei prodotti del Mezzogiorno. Austria, Russia e Germania, mercati della nostra agricoltura, non hanno, e per qualche tempo ancora non avranno, capacità di acquisto; la Francia è meglio servita dalla Spagna e tenta già la sua unione doganale con Tunisi; la tariffa doganale Alessio ha confermato e aggravato il vecchio regime protezionista, ferocemente voluto dalla pazza economia del dopo guerra da tutti gli stati e al quale regime l’Italia non poteva da sola sottrarsi. Oggi i trattati di commercio che si vanno stipulando potranno giovare al Mezzogiorno, se il Mezzogiorno saprà farsi valere.

Altro colpo forte all’economia nostra è stato dato dal sistema tributario.

(…)

Sono stati raccolti con diligenza i dati statistici di sperequazione tributaria fra nord e sud, che servivano a sfatare il pregiudizio (da qualcuno ancora oggi mantenuto, ma credo per ignoranza) cioè che il Mezzogiorno pagasse meno del resto d’Italia; fu dimostrato ad esuberanza che pagava di più, non solo relativamente, in quanto più povero, ma anche assolutamente, cioè nel rapporto di parità fra tutte le regioni. E pensare che quando fu deliberato il nuovo catasto, fu dai più ritenuto che tale legge di perequazione fondiaria dovesse essere un atto di giustizia verso l’agricoltura del nord, che si riteneva gravata molto di più di quella del sud. È bastato che il catasto si ultimasse (cosa che ormai può servire per la descrizione parcellare della proprietà, non mai per la riforma tributaria), per dimostrare tutto il contrario; tanto che Sonnino propose la riduzione del 50 per cento della fondiaria erariale a favore delle provincie nostre.

Il sistema proporzionale e non progressivo dei tributi sui terreni ha evidentemente danneggiato l’agricoltura meno ricca, come quella del Mezzogiorno; per giunta i nostri terreni sono quasi tutti gravati da oneri ipotecari, sì da potersi affermare che la proprietà meridionale rurale abbia due padroni; però nel fatto è il padrone primo – quello che coltiva e che nella maggior parte dei casi ha fatto tali debiti per coltivare e trasformare la sua terra – che è anche colpito dalla ricchezza mobile del mutuo; e senza speranza della presunta rivalsa. Ed è strano il fatto che mentre all’industria si deduce il passivo del debito, all’agricoltura non si deduce. Tutta la storia dell’imposta e della sovrimposta, con vecchio e col nuovo catasto, in rapporto al Mezzogiorno, è intessuta di errori e di danni, non riparati nemmeno oggi, anzi aggravati da una campagna furiosa, fatta dagli industriali a mezzo dei loro giornali per colpire di ricchezza mobile l’industria agricola diretta, che era stata esentata, allo scopo di sviluppare sempre meglio le energie agricole responsabili e trasformatrici in confronto alle altre. I recenti provvedimenti De Stefani possono avere una giustificazione nelle condizioni dell’erario, per quanto ci sia da dubitare assai di una possibilità organizzativa del contributo senza gravi sperequazioni e di una reale utilità della imposta stessa; certo che, come viene costruita, va a colpire ancora di più la nostra agricoltura meridionale.

Il danno

Chi non ricorda il danno notevole che viene a noi per il fatto dei nostri centri rurali agglomerati e densi di popolazione agricola, quali nelle Puglie, nell’interno della Sicilia e della Sardegna, e in quasi tutto l’interno del continente? Sono case di contadini che, considerate come abitazioni urbane, vengono regolarmente colpite. E questo fenomeno demografico e sociale, imposto da condizioni fisiche, storiche e politiche, e che è argomento di inferiorità economica, si ripercuote in tutto il regime fiscale ed economico dello stato. I comuni sono classificati in base alla popolazione, agli effetti del dazio di consumo e delle varie tasse comunali. Questa classificazione opera in senso inverso per i sussidi e gli aiuti finanziari dello stato, per le scuole, per gli acquedotti e per ogni altro provvedimento. Onde, a correggere questa sperequazione, sono state create leggi a favore, quali le leggi speciali per la Sardegna, per la Basilicata, per la Calabria, e la legge fondamentale del 1906 per tutto il Mezzogiorno. Ma mentre la pressione tributaria e il regime doganale operano con costanza e normalità, le leggi di favore non sono applicate: ovvero, nella loro applicazione, subiscono, e per i limiti del bilancio e per le ulteriori difficoltà finanziarie (dalla guerra libica ad oggi), una costante diminuzione, sicché il disquilibrio fra le regioni delle altre parti d’Italia e il nostro Mezzogiorno ne viene più che mai aggravato.

Questo accenno vale per la terza causa di inferiorità nostra, cioè la uniformità legislativa, specialmente nel campo economico. Questo errore iniziale del regno italiano è riconosciuto da tutti, ma non è affatto rimediato.

Le leggi non sono creazione aprioristica di cervelli – siano pure come quello di Giove, dal quale uscì Minerva -; sono invece, e hanno un vero valore, un processo di realtà vissuta e concreta che, in un determinato momento critico, trovano la loro espressone morale, legale e la loro formula scritta. Questo processo dinamico della realtà economica e amministrativa dovrebbe essere lasciato all’adattamento locale: come avviene in Inghilterra, come in parte era nella vecchia Austria, come, per il sistema federativo di un tempo, aveva il suo naturale fondamento anche nella Germania di ieri. Invece l’Italia prese per modello la Francia, la Francia di Napoleone e la Francia repubblicana, dove la vita centralistica di Parigi assorbe e polarizza tutta la Francia, e dove la tradizione storica e l’ampio respiro economico assorbono le energie di provincia e spesso le annullano. Così le leggi scritte, stilizzate fino all’ultima virgola, i regolamenti di esecuzione sino ai più minuti dettagli, partono dal centro, dall’unità di dominio e di interessi.

In Italia, questa unità di dominio e di interessi mancava. La diversità delle sue regioni e la dualità delle zone, di qua e di là del Tevere, davano vari centri, non un centro. Roma è centro storico, morale, non economico. L’Italia non poteva trovare una misura unica, che creasse una metropoli per tutta la sua lunga linea dalle Alpi al Lilibeo: doveva imitare l’Inghilterra, non la Francia, e dare il dinamismo legislativo alle sue forze varie, non la forza statica dei suoi regolamenti;

(…)

 

Un torto

L’elenco dei vari rami dell’economia e dell’amministrazione è molto lungo, e mi fermo: siamo tutti convinti che per l’Italia non solo la legge uniforme è un errore sostanziale, ma è anche errore la legge speciale, fatta con mentalità livellatrice e formalistica, avulsa dalla realtà pulsante e viva di coloro che sentono e operano nelle varie regioni.

È questo un torto la cui colpa è da attribuirsi specialmente ai meridionali. Quando i nostri uomini politici, i nostri industriali e agricoltori, i nostri burocratici sono fuori dell’ambiente e vanno a partecipare ai consessi politici o economici, mostrano una grande agilità di mente, spesso prontezza di comprensione e genialità, adattamento facile ed intuizione rapida; ma si lasciano inserire nel ritmo della politica, dell’economia e della legislazione, ispirata e metropolizzata nel nord; e quando essi prospettano incompleti, frammentari – in forma sentimentale e idealistica – i problemi del sud, li isolano, li riducono a forme concessive e di eccezione, e invece di risolverli, li fanno complicare e alterare nel crogiolo delle leggi e dei regolamenti.

Sotto questo aspetto deve guardarsi il problema delle spese pubbliche nel Mezzogiorno, che non sono semplici criteri di favori che lo stato elargisce, ma ragioni organiche di vita locale o mezzo e strumenti di sviluppo generale, che lo stato integra o assume a suo carico, per la rivalutazione di energie produttive.

Ma tutto ciò è impossibile se non si riforma il metodo, se l’Italia del sud non prende la sua posizione politica di saper fare e volere le sue leggi come elementi diretti della sua attività e del suo pensiero, e di saperle attuare con le sue forze organiche e con la sua caratteristica regionale. Oggi si può parlare di regione, senza violare il principio nazionale e unitario: ebbene, parliamone noi, che dobbiamo, meglio degli altri, conoscere i nostri bisogni e i nostri interessi, e che dobbiamo superare la nostra crisi, non domandando l’elemosina dei favori governativi, ma creando la nostra coscienza politica, nell’organismo della nostra vitalità e nel naturale sviluppo della nostra forza.

Così rispondo affermativamente al quesito, che assilla il pensiero italiano e meridionale, se il Mezzogiorno può trasformarsi da un regime economico passivo a un regime attivo – si intende, nella affermazione di una politica mediterranea –; ma a condizione che si superino le barriere poste dal regime doganale, dalla pressione tributaria, dalla legislazione uniforme e livellatrice.

Vi sono energie adeguate del Mezzogiorno per potere – sia pure con la linea politica così precisata nel triplice rapporto economico, tributario e amministrativo – affrontare il suo avvenire come centro mediterraneo? A questa domanda l’istinto mi dice di rispondere di sì; ma prima di rispondere, occorre analizzare i fattori sostanziali di questa rinascita.

Il primo è quello delle braccia dei nostri lavoratori meridionali. L’emigrazione è stata una penosa «via crucis» tanto dell’emigrante fuori patria, quanto della nostra economia e della nostra vitalità civile e domestica in patria.

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Ma questo fenomeno, ieri dannoso e oggi confortevole, ha mostrato che il nostro lavoratore meridionale ha volontà, energia, facilità di apprensione, forza di resistenza. Ora, perché non può in patria dimostrare quanto dimostra all’estero? È notevole questo fenomeno: trasportate il meridionale fuori del suo ambiente, mettetelo nel contrasto della vita, perché ne superi le difficoltà, toglietelo dalle impressioni scoraggianti di impotenza, e ne farete un altro uomo.

È l’ambiente nostro, che deve essere trasformato e vivificato. A far ciò occorrono i mezzi idonei. Il rilievo principale, che ho letto in molti libri che parlano del Mezzogiorno, è che non vi sono capitali e che il ritmo del denaro è tardo. Gli statisti daranno ragione a coloro che dicono che il Mezzogiorno non ha capitali; io dico che esso non ha fede nel suo capitale, e quindi gli altri non hanno fede in esso, non perché di fatto non vi siano dei capitali – benché in misura inferiore alla media generale per abitante italiano –; ma perché questo capitale o è messo nelle casse postali e di risparmio, ovvero in istituti che sviluppano la loro attività principale fuori del Mezzogiorno, e in imprese che poco di daranno in fatto di risorse e di compensi.

I padri

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Questa forza di risparmio e le agevolezze del credito agrario oggi, nella crisi economica generale, hanno limiti imposti o insormontabili; è la condizione generale del nostro paese, che ci fa invocare con opportune prudenze e precauzioni, il capitale straniero. Il tentativo di impianti idroelettrici, fra i quali primo e di grande importanza nazionale l’utilizzazione delle acque della Sila (il cui piano ha già avuto, oltre le agevolazioni di legge, parte del finanziamento); il programma di bonifica agraria e di irrigazione (primo e di enorme utilità quello della piana di Catania, in corso di concessione); il completamento della rete stradale agraria e comunale, esigono capitali ingenti; altri capitali occorrono per gl’impianti trasformatori dei prodotti agricoli, di cui abbonda il Mezzogiorno. La nostra capacità ed i limiti del nostro risparmio non sono adatti a simili imprese; i nostri banchi, i nostri istituti di risparmio non possono affrontare l’immobilizzo del denaro; ma basta che i nostri capitali mostrino di non rifuggire da tali imprese, per orientarvi fiducioso il capitale del nord e quell’altro straniero, che ha bisogno di sfogo e di utile impiego.

L’on. Luigi Luzzatti ammoniva nel 1901: «quale sarà l’avvenire del Mezzogiorno, tale sarà quello del regno, poiché se non si rialzano le sue sorti, esso impoverirà le altre parti d’Italia»; però, a destare questa solidarietà, il Mezzogiorno ha la potenzialità non solo nella facoltà di risparmio ancora forte, perché la vita da noi ha meno agi ed è più vivo il senso della parsimonia, ma nell’istinto di salvezza, che oggi è più imperioso, perché la crisi generale opera come stimolo decisivo.

Io ho fede nelle nostre forze naturali; perchè queste possano utilizzarsi, occorre una efficace preparazione, che sarà un’altra vigilia (come fu aspra vigilia l’emigrazione), cioè l’avviamento della gioventù alla sua formazione tecnica.

 

Miseria

Errore e miseria han portato una parte del ceto semiborghese, e anche del ceto operaio, verso l’impiego: l’istruzione secondaria di ginnasio, di scuole tecniche e anche (strano a dirsi) di scuole agrarie, han preparato una falange in cerca di posti.

Il piccolo impiego comunale di usciere, di commesso di segreteria, l’impiego della guardia di finanza, del carabiniere, della guardia di pubblica sicurezza, l’impiego burocratico dello stato danno una fortissima percentuale di meridionali. La non sufficiente rimunerazione (oggi che i costi sono così alti) e lo sfollamento burocratico serviranno (come è capitato alla guardia regia, che aveva almeno l’80 per cento di meridionali) a dare un colpo a questa concezione casalinga del modesto ma sicuro impiego, ricercato anche per una pretesa elevazione sociale nel poter lasciare i ferri del mestiere e indossare una divisa.

Occorre invece una preparazione e istruzione tecnica e professionale, per avere una nuova generazione che si orienti verso il mondo del lavoro utile e produttivo. Via le così dette scuole popolari tecniche; diamo al Mezzogiorno scuole professionali specializzate; formiamo veramente uomini preparati alla lotta, sia che vadano all’estero, sia che restino in patria. L’operaio italiano è preferito, non solo per l’assiduità del lavoro e la sua sobrietà (almeno in confronto con gli altri), ma per la sua facilità nell’apprendere e nell’adattarsi, e non solo perché costa meno, ma per il suo rendimento; onde per questo lato le nostre industrie possono bene affrontare e superare la concorrenza. Ma se questo geniale lavoratore fosse tecnicamente preparato, avrebbe una potenzialità assai maggiore, e potrebbe servire all’inquadramento e alla guida di quelle forze, che noi abbiamo, e che non sappiamo utilizzare.

(…)

Un problema

Un problema tecnico-sociale, che, per la sua vastità, può ben dirsi un problema meridionale (benché non tocchi tutte le nostre regioni) è quello dal latifondo, e si connette alle condizioni economiche, demografiche, sociali e morali del nostro contadino. Che egli agogni a due beni, il pezzo di terra e la casetta, è noto a tutti; ne sente intera la passione, che ha un fondamento domestico sano e razionale; una delle piaghe di zone come le Puglie e l’interno della Sicilia, è proprio il bracciante o il salariato, che vive nei centri urbani e non si interessa alla produzione della terra; il salario è il solo suo cespite per quei giorni lavorativi che il nostro clima consente. Chi ricorda le inchieste agrarie, i salari di fame, i patti angarici, giustifica l’emigrazione. Sarebbe un torto attribuire tutta la colpa al crudele padrone o al signore assenteista o al gabellotto strozzino, di che è piena la letteratura del problema; molte delle cause del male sono state tuttora naturali, economiche e politiche; l’azione degli uomini, però, vi ha la sua parte; e quando questi non hanno i freni sociali e morali, può degenerare fino al sopruso, fino alla violenza.

Ma si sa che gli eccessi si scontano; e il non aver voluto o potuto iniziare una soluzione onesta e razionale del problema terriero, ha dato luogo prima all’abbandono da parte del proprietario assenteista, che ha aggravato i latifondi di ipoteche; poi all’abbandono operaio per l’emigrazione; infine (dopo il ritorno di molti emigranti per la guerra e la difficoltà di una nuova emigrazione) ai tentativi legali ed illegali di occupazione e di esproprio, alla pressione economica dell’acquisto da parte di società di contadini, anche al disopra del prezzo normale. Tutto un periodo caotico, che prepara altri danni: quando, diminuite le asprezze del cambio che formano oggi barriera doganale, il prezzo del grano scenderà ancora, e la crisi agraria sarà acuita per le difficoltà della normalizzazione del mercato e l’incapacità di acquisto delle nazioni vinte. Ebbene, sarebbe da folli non vedere che questo problema del latifondo è nella fase dinamica, e deve avere un suo ciclo razionale.

I tentativi legislativi sono stati criticati, perché meccanizzavano la soluzione del problema e non davano i mezzi sufficienti alla soluzione. Non vengo qui a discutere la parte tecnica; sarebbe fuori tema. Solo dico che l’iniziativa statale creava tre vantaggi: primo, quello del concorso governativo alla spesa della bonifica agraria (case, corsi d’acqua, strade), che sono necessario inizio all’avviamento risolutivo dell’immane problema; secondo, quello del credito agrario per l’acquisto dei terreni, atti a cultura intensiva e a formare la proprietà familiare; terzo, quello della riforma dell’enfiteusi e della creazione dell’istituto di riscatto. Oggi la reazione agraria spazza di un colpo questo buon inizio, per la paura che i proprietari nutrivano dell’esproprio coattivo: forma già in azione con l’opera dei combattenti, che non ha perciò turbato il nostro regime di proprietà e la nostra agricoltura.

I meridionali non hanno compreso che dovevano imitare i bonificatori romagnoli, emiliani e veneti; questi – non preoccupandosi molto di certe questioni giuridiche sul regime di proprietà – si fecero aiutare dallo stato in tutti i modi per redimere i terreni dalla palude, renderli atti alla grande cultura, farne centri di abitati floridi e di colonie numerose. L’obbligatorietà del consorzio, la possibilità di esproprio, l’alea della spesa, che cosa sono di fronte al vantaggio capitalistico della grande industria agricola della bonifica? Non così i nostri misoneisti; invece di discutere, negarono; e lo stato risparmia i denari che avrebbe dovuto spendere nel sud. Se la crisi agraria verrà a battere alle nostre porte, avremo popolazioni turbolente, alle quali non si potrà dare il piombo invece del pane; oppure popolazioni che di nuovo si avviano all’estero, quantunque dure siano le sorti dell’emigrazione disorganizzata. Il problema del latifondo è immanente, è di carattere economico e sociale, ha riflessi politici; e l’attuale ministero non può ignorarlo, o riporlo nel dimenticatoio con una frase, come ha creduto di fare l’on. De Capitani.

La soluzione del problema agrario deve contribuire a formare quel ceto medio economico, che è molto limitato nel Mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società; e che – per il fatto di non essere né troppo piccolo né abbastanza ricco – sente meglio la spinta al lavoro, alle imprese, ai guadagni, e quindi è una forza dinamica di prim’ordine, molto maggiore di quelli che possiedono troppo, che sono lontani dal tumulto della vita che lavora, privi della ebrezza che dà il contatto con la natura, che si trasforma e si rinnova nelle sue forze produttive.

Un secolo di sforzi, dopo l’abolizione della feudalità, dopo la quotizzazione dei demani comunali, dopo la vendita del patrimonio ecclesiastico, con tutti gli errori commessi, è valso a formare una prima zona intermedia fra il semplice lavoratore salariato e il latifondista; ed è erroneo dire che non esista il ceto medio dell’agricoltura meridionale. Certo, in nessun posto, meno nelle zone litoranee (che fan così bella cortina alle asprezze dell’interno), il successo del ceto medio è alla pari di quello del Piemonte o della Liguria. Ma bisogna aggiungere che né la politica generale né la cultura scolastica, né l’avviamento professionale hanno contribuito assai a questa radicale trasformazione, che è tanto più difficile nel Mezzogiorno, quanto minore è il capitale circolante e quanto più avverse solo le condizioni della natura, che non possono essere vinte senza grande sforzo. Però questo sforzo è, e deve essere, veramente nostro: poggiato su basi tecniche, solide, di attività e di intelletto. Dico «intelletto», perché la nostra cultura scientifica e ideologica, deve mirare, nella sua generalità, a formare una base realistica ai nostri problemi economici, tecnici e politici; perché le idee sono la prima forza, sono quelle che determinano la volontà, che creano le energie, che formano la grande sintesi dell’attività umana.

La visione del nostro essere, delle nostre deficienze, dei bisogni, degli interessi, delle forze insite al nostro organismo, deve essere fatta da noi, ed essere completa. Così soltanto il Mezzogiorno sarà rivalutato con le altre regioni d’Italia, non come un ingombro pesante per la prosperità nazionale, ma come pari nelle responsabilità e nell’attività al resto della patria nostra.

(…)

 

I partiti

I partiti politici di ieri erano localistici, campanilistici, personali, frazionati; il contatto limitato fra le province meridionali isolava la vita cittadina; Napoli, Palermo, Bari, Cagliari non erano metropoli, perché anch’esse lontane dal ritmo economico, con partiti localizzati, tormentati da problemi finanziari, assillati dalla mafia e dalla camorra, di che si giovarono alternativamente i partiti locali e il governo centrale.

Oggi basta: i partiti nazionali debbono far sentire che la cerchia della vita politica è estesa dall’un campo all’altro d’Italia, che la solidarietà, invocata da Giustino Fortunato, non è un semplice ed assurdo altruismo di due popolazioni che abbiano interessi, mentalità, costumi diversi, ma una convergenza di politica e di economia, in uno sforzo restauratore della nostra vita nazionale.

Per questo noi neghiamo il diritto a ministri e a uomini politici di venire a scoprire le nostre regioni, a compatire le nostre miserie; domandiamo ai partiti e al governo di conoscere fin dove la politica nazionale trova la suo convergenza nello sviluppo degli interessi locali.

Per noi popolari il problema è sintetico; comincia col risanamento della nostra vita pubblica da ogni forma di parassitismo locale e di oppressione governativa, che crea l’abbiezione del pulcinellismo e del girellismo, lo sfruttamento delle basse voglie di partito, attenuando le attitudini a comprendere e a vivere la politica del paese. Noi vogliamo cooperare a far vivere il Mezzogiorno con la sua vita e la sua figura, non avulso dal ritmo della economia e della politica nazionale, ma come parte integrante dell’Italia una: una di spirito, di volontà, di interessi, di fede, di vita e di avvenire. Sprezza e calpesta il Mezzogiorno, chi ne sfrutta gli istinti e ne mantiene l’asservimento politico. Noi popolari, pochi, modesti, sinceri, diciamo una parola di verità e di amore al Mezzogiorno: tutti i popolari, non solo i meridionali, tutti i fratelli di ogni parte d’Italia, che stasera sono qui presenti in ispirito nel nome del nostro programma e della nostra idea.

Agli altri partiti non neghiamo il merito di avere agitato da tanti anni la questione meridionale, benché nello stesso tempo non abbiamo contribuito a formare una salda coscienza collettiva, per l’intristimento doloroso delle coalizioni e delle clientele. Ma noi popolari, arrivati da pochi anni nella vita politica, abbiamo avuto il merito della nuova impostazione, che oggi, in questo giorno che ricorda la nostra costituzione di partito, riaffermiamo, quale corollario degli sforzi fatti – alla camera e fuori, al sud e al nord – per destare fra noi e presso gli altri una vera coscienza della questione meridionale, in quanto problema nazionale e unitario.

Il socialismo meridionale non ha mai impostato il problema nel suo complesso; ha rilevato le condizioni sociali così depresse e il triste fenomeno del bracciantato agricolo o della disoccupazione urbana, e li ha sfruttati a fini politici. Per esso colonie, Mediterraneo, tariffe doganali non sono che strumenti borghesi: le popolazioni povere e i lavoratori stanchi di lotte e di speranze sono andati o vanno al socialismo, per un gesto di protesta o come per un’ultima speranza.

Il massonismo anticlericale delle nostre provincie ha allontanato le classi urbane e professioniste dalla fede e dalla pratica cristiana, prima in nome della nazione, poi in nome della scienza, ed ha rotto così i rapporti morali fra le classi alte e il popolo. Occorre che quel che il Partito popolare italiano fa nel campo politico, facciano gli organizzatori nel campo sociale e dell’azione cattolica, specialmente giovanile e femminile, per rinsaldare i vincoli sociali fra le varie classi in nome delle virtù cristiane, perché nostro male profondo è l’abisso che spesso separa le classi sociali, che si ignorano e si odiano, mentre la politica speso unisce coloro che sfruttano il popolo e se ne fanno sgabello.

I fascisti

Oggi, fascisti e nazionalisti si dividono l’entusiasmo e l’arrivismo meridionale. Non discutono la conversione di molti democratici e liberali di ieri, né dei socialisti, passati al fascismo e al nazionalismo; ma debbo onestamente auspicare che si sollevino dalla visione di interessi localistici e di preminenze personali, ad una visione più vasta della questione meridionale e della sua dinamica. Se una parola può venire da me al mio amato Mezzogiorno, alla mia Sicilia, lontana ma sempre presente al mio cuore, è che cessino i conflitti locali, che siano superate le competizioni di parte, che a tutte le energie si dia il diritto di vita e di lavoro. Non si aggiunga al vecchio tormento quello nuovo delle violenze, sicché la vita cittadina divenga intollerabile nella risurrezione di dominii proconsoleschi o di sopiti desideri di feudi politici.

La vecchia democrazia personalista è forte nel Mezzogiorno: sta in agguato, aspetta, si insinua nelle pieghe dei nuovi partiti, vive del suo bagaglio, del vecchio idealismo retorico, del procacciantismo parlamentare, dell’anticlericalismo locale. Essa non ha saputo elevarsi a forza motrice della vita del Mezzogiorno, perché la superato l’affarismo provinciale e non è mai divenuta un vero partito nazionale.

Il fascismo, come metodo, dovrebbe valere ad abbattere le vecchie costituzioni e impalcature che danneggiano e inquinano la nostra vita. Sarà da tanto? O non ripeterà l’errore di fare del Mezzogiorno il campo di speculazione politica e di clientele? non perderà qui la sua fisionomia, asservendosi alle consorterie? la gioventù nuova saprà superare le insidie delle volpi politiche e la tentazione di credersi dominatrice, senza esserlo? Il pericolo maggiore però sta altrove, non è una presa di possesso alla garibaldina, che muta il Mezzogiorno e lo fa rivivere; ma nessuno di noi si augura che, dietro al fascismo al potere, forte della sua gioventù, debole della sua inesperienza, si annidino la speculazione dell’alta banca, l’internazionalismo ebraico, la siderurgia del nord, e si ripeta per l’avvenire lo sfruttamento del passato. Sta al Mezzogiorno – cioè a tutte le forze politiche meridionali, nella solidarietà difficile, ma doverosa, della nostra terra e del nostro popolo – che la questione meridionale venga conosciuta, sentita, valutata e che si superino i vecchi e i nuovi ostacoli a risolverla.

La redenzione comincia da noi. Questo è canone fondamentale che noi popolari del Mezzogiorno proclamiamo, come un inizio di forza e di vitalità che deve conquistarci il dovuto posto nella vita italiana; la redenzione comincia da noi! La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! Così il resto dell’Italia riconoscerà che il nostro è problema nazionale e unitario, basato sostanzialmente sulla chiara visione di una politica italiana mediterranea e di una valorizzazione delle nostre forze.

Questa visione non deve essere monopolio di partito, ma coscienza politica della nostra gente, che seppe i dolori e le lacrime di ieri, che visse le più splendide civiltà, che dovette piegare allo straniero, ma rimase, nell’animo, latina, cristiana, meridionale: come il retaggio di tre civiltà in una, nella esuberanza di sentimenti e di idealismi, che splendono in Napoli bella e in Palermo ferace: come la visione di uno perpetuo sogno, come l’immagine di un futuro sperato e voluto, come il segno precursore del nostro risorgimento.

A questo risorgimento del Mezzogiorno noi – popolari meridionali – vogliamo cooperare, come ad una nuova forza sorgente per la saldezza e grandezza della patria italiana, che riaffermi, nel futuro domani, i vecchi e i nuovi diritti nel Mediterraneo.

 

 



[1] Discorso tenuto a Napoli nella Galleria Principe il 18 gennaio 1923, quarto anniversario della fondazione del Partito popolare italiano.