Il trionfo dei due populismi nel 2018 non appartiene a una vicenda solo italiana. Il momento populista indica una tendenza alla dissoluzione della “forma politica” del secondo Novecento che riguarda le diverse democrazie occidentali. I due sovversivismi, malgrado le differenze su singole questioni simboliche, trovano nel “contratto di governo” la coincidenza degli opposti perché, oltre i dissidi, esiste un nucleo solido di comunanza. Il “governo del contrasto” regge le sfide contingenti per la condivisione di una declinazione totalizzante del potere (persino il metodo di designazione della canzone vincente a Sanremo diventa una questione politica dirimente), per una avversione ai soggetti classici del conflitto sociale della modernità (lavoro e grande impresa), per una inclinazione plebea al disprezzo verso la cultura elevata, l’élite, per una venatura sovranista ostile alla rappresentanza e agli obblighi internazionali ed europei.
La stessa fenomenologia di decadenza del politico, visibile in una periferia mediterranea dell’Occidente, si avverte nel cuore centrale dell’impero. In America, uno dei tentativi più interessanti per comprendere il populismo di destra, che con Trump (che si presenta come leader di un “movimento del senso comune”) conquista il comando dell’impero, recupera l’arsenale dei “Quaderni”. Secondo l’antropologa Kate Crehan,1 senza il soccorso di Gramsci, non è possibile comprendere il populismo della tarda modernità e quindi attrezzarsi per costruire delle alternative efficaci.
«L’America del XXI secolo non è l’Italia del XX secolo e Trump non è Mussolini, nondimeno le rievocazioni dei “Quaderni” sull’appeal del populismo di destra, e di ciò che è necessario per sconfiggerlo, sembrano particolarmente risonanti nel nostro momento storico. Il concetto di senso comune di Gramsci può aiutarci a capire l’appello di Trump, e di come possa essere efficacemente sfidata la sua narrati va di “rendere di nuovo grande l’America”».2 Dinanzi a un imprenditore che indossa la maschera del politico-antipolitico e riceve una venerazione messianica, i liberal si illudono di graffiarlo rilevando le contraddizioni, gli errori grammaticali dei tweet, lo scarto tra promesse e realizzazioni possibili.
L’incoerenza è il punto di forza del senso comune, che nei suoi processi di socializzazione delle credenze rifugge dalle spiegazioni razionali e complesse. «Nelle democrazie moderne – spiega Crehan – il controllo del senso comune è un dominio cruciale. Ogni politico, non solo quelli di inclinazione populista, ama presentare le sue particolari “verità” come buonsenso, e le pone come tali al di là del dibattito. E questa è stata sicuramente la strategia di Trump. La stessa vaghezza e genericità del senso comune, che per Gramsci è un concetto che include aspetti contraddittori e mutevoli, fa riconoscere l’importanza della persuasione emotiva, e lo rende un modo illuminante per avvicinarsi al potere peculiare della narrativa di Trump».3
Il senso comune è al tempo stesso la forza e la debolezza del populismo. Con gli ingredienti eterogenei del senso comune, Trump, da “ex star della reality TV”, crea forti immagini del nemico (noi contro loro, cittadini ordinari contro élite) e con l’ostilità propria della retorica dell’odio (“Al diavolo la diversità: mantieni l’America americana”) e la demonizzazione riesce a sfondare in un blocco non omogeneo (conservatori tradizionali, alfieri del governo minimo, sensibilità anti-élite, credenze dell’antipolitica, nemici della invasione musulmana, pregiudizi contro gli immigrati irregolari che spacciano droga, abbassano le retribuzioni e rubano il lavoro).
Rispetto alla retorica “realista” e priva di forza di trascinamento sentimentale della Clinton, che elenca singoli punti programmatici, cerca di stare nello specifico con rapporti tra possibilità e condizioni effettive, la retorica “irrazionalista” di Trump prevale perché riesce a «collegarsi con una vasta schiera di americani arrabbiati con morsi sonori ripetuti all’infinito. Come ha osservato Gramsci, la ripetizione è il miglior mezzo didattico per lavorare sulla mentalità popolare».4 Nelle semplificazioni, nelle metafore blasfeme e politicamente scorrette di Trump, i seguaci «sentono articolate tutte le proprie frustrazioni e la rabbia per il disprezzo che percepiscono venire dalle élite metropolitane verso il loro modo di vivere, la loro visione del mondo. Che ciò provenisse da un magnate immobiliare di New York, nato nella ricchezza, non sembra importante. Ciò che importava era che Trump, cresciuto come una celebrità televisiva, stava dando voce alla rabbia dei suoi sostenitori in una lingua che riconoscevano: un linguaggio rozzo e grezzo ma apparentemente “autentico”. Coloro che credevano in lui, avvertivano la sensazione di tornare indietro nel tempo, senza il linguaggio sdolcinato degli esperti e degli spin doctor, ma nella forma inarticolata che suonava veritiera a coloro che si sentono esclusi e sminuiti dall’élite del potere di Washington. Il messaggio che è emerso chiaramente era che ciò che era stato, poteva e doveva venire di nuovo. I fedeli non avevano bisogno di ascoltare dei piani dettagliati su come la promessa potesse essere realizzata; la semplice correttezza del senso comune era una prova sufficiente».5
Quando il senso comune caotico, e perciò capace di ospitare gli opposti, dalla propaganda deve passare al governo, incontra difficoltà. Però è illusorio pensare che la presa della narcotizzazione populista si spezzi con la pura operazione razionalista che svela le incongruenze. «Dimostrare le inesattezze fattuali di Trump, fornendo la prova delle sue bugie, non ha speranza di smuovere la profonda sensazione dei suoi sostenitori che, a differenza dell’élite, proprio Trump coglie la realtà che i normali bianchi americani stanno vivendo».6 L’antidoto alla deviazione semantica del populismo, che sprigiona una narrazione suggestiva e potente, non risiede nella velleità di fabbricare, contro la narrazione trionfante, un populismo di segno contrario (avverte Crehan che Gramsci è «radicalmente estraneo a qualsiasi forma di populismo o di socialismo nazionale»).7
Per smontare il populismo di governo, che naviga nell’apparenza e nel simbolico, è indispensabile riportare le narrazioni al livello delle sofferenze materiali, delle esclusioni, delle diseguaglianze. Così si rende tangibile, sul piano dell’esperienza reale, il peso dell’esclusione e con la cultura critica si dà un quadro coerente. Sulla scia di Gramsci è possibile far crescere una “narrativa progressista” che demistifica le narrazioni dominanti con la condivisa percezione dei meccanismi di dominio e di sfruttamento. Il lavoro di critica incisiva delle potenze populiste è ostacolato dalla pervasiva azione della narrazione dominante che nella TV spazzatura, nella vita in diretta, nel reality, nel format del talk politico costruisce un senso comune che pare inattaccabile.
Il quadro italiano non differisce da quello americano. «Una conseguenza del declino della sinistra negli Stati Uniti, e del sempre più marginale ruolo dei sindacati, è stato un drammatico restringimento degli spazi in cui i resoconti del mondo che sfidano il capitale trionfante hanno spazio per emergere, svilupparsi, diventare senso comune. I media popolari si sono spostati verso destra negli ultimi decenni, e quindi le narrazioni popolari dominanti sono quelle trasmesse su Fox News e altre emittenti televisive di destra, nei talk show radiofonici e nel mondo dei social media sempre più segmentato. Tutti questi programmi tendono a echeggiare e amplificare una visione del mondo che è profondamente sospettosa nei confronti del governo, ed è convinta che le cose sarebbero gestite meglio se al comando ci fossero i dirigenti aziendali, e non i politici».8
Sulla scorta di Gramsci, Crehan suggerisce che solo una costruzione di spazi collettivi di esperienza che parli del disagio sociale occultato dalla narrazione dominante, unita alla cultura che ha il senso della complessità e dà unità e consapevolezza ai frammenti di resistenza, può decostruire l’immaginario populista con le sue deviazioni. «La nozione di senso comune di Gramsci può aiutarci a vedere oltre il fumo e gli specchi per scoprire come è stato fatto il trucco».9 Percepire i dati reali, ricostruire il senso delle cose a partire dal vissuto, dare coerenza e significato ai frammenti, è il percorso che Gramsci suggerisce per definire una politica capace di unificare i sensi, di ristabilire momenti di connessione emotiva, sentimentale.
Proprio perché “non è un populista”,10 Gramsci attribuisce alla cultura, insieme alla mobilitazione che parte dal campo dell’esperienza vissuta, il compito di costruire un nuovo senso comune, che se sorretto dall’indagine critica ribalta i trucchi della immaginazione dominante e conquista l’agire di massa. Le indicazioni che Crehan estrapola dai “Quaderni”, sono trasferibili al caso italiano che mostra la condivisione del potere da parte di un duplice populismo, che combina alto e basso, benestanti ed esclusi, territori ricchi e periferie marginali, micro-impresa diffusa e disoccupati, chi invoca meno tasse per i ricchi e chi richiede assistenza in deficit per i poveri.
Quando vince il doppio populismo, è prevedibile che le zone di resistenza iniziale siano quelle dei ceti più colti. A muovere i primi passi di ribellione, sono gli abitanti delle aree Ztl, professionisti, intellettuali, pubblico impiego che vengono demonizzati dagli apostoli immaginari dei ceti popolari che quasi avvertono come un oltraggio il voto d’opinione per la sinistra. Se dopo aver perso i consensi delle moltitudini, si smarriscono anche i sostegni dei ceti intellettuali, la sconfitta si tramuta in una irreparabile eclisse storica.
Dopo la manifestazione sindacale del 9 febbraio, l’opposizione al governo del cambiamento non è più soltanto la società civile colta che a piazza del Campidoglio protesta contro il degrado della capitale. Non sono solo i movimenti più sensibili sul piano etico-politico, i sindaci che lanciano l’obiezione di coscienza contro il decreto sicurezza ad avvertire il vento illiberale. Fino a quando il contrasto all’esecutivo populista viene dall’élite colta che, al pari dei liberal americani che si scagliano contro Trump, denuncia gli strafalcioni del capo politico Di Maio quasi nulla accade. Impotente è anche la cattiva imitazione del lessico patriottico-sovranista. La manifestazione di piazza San Giovanni indica che un’altra strada sta maturando, e che cresce dalla percezione che il governo giallo-verde, nella sua stessa composizione sociale antilavorista, annuncia rovine permanenti.
Dallo stato di narcotizzazione in cui è precipitata, dopo aver vissuto come un tradimento le scelte del governo a guida PD, la massa esce solo con un’esperienza collettiva che combatte i rischi imminenti e le perdite costose nei diritti. Quando avverte che il proprio destino, e il pericolo reale alla sua condizione, non sono i migranti sequestrati in mare in nome della sicurezza, il popolo esce dal letargo mentale ogni giorno blindato dal senso comune dei media, della TV di intrattenimento. Il motto “prima gli italiani” viene allora decodificato nel vissuto reale delle persone come una manipolazione concettuale, cioè come la certezza che l’Italia sovranista che rompe con la Francia, con l’Europa, con gli investitori annuncia burrasca. Per non ascoltare i numeri, che dicono il vero, il potere della manipolazione autoritaria castiga le istituzioni indipendenti e conquista l’Istat, aggredisce la Banca d’Italia, l’Inps, la Consob.
Il governo sta naufragando sul terreno sociale, con la produzione industriale che crolla insieme alle esportazioni e al PIL. E il sindacato avverte che la recessione è riconducibile alla contraddizione che è annidata nel governo ed è una vera sciagura per il mondo del lavoro. Questo è il primo governo che, nella sua coalizione sociale di riferimento, esclude in maniera completa il lavoro, lo costringe ad assistere al progetto folle di un’economia stagnante, con le risorse estratte dal lavoro e poi buttate a favore dei ricchi (con lo stesso reddito, il dipendente paga quasi il 45% di tasse, l’autonomo o l’imprenditore il 15) e dell’assistenza improduttiva elargita in deficit per reperire il consenso.
Il governo della stagnazione crolla nella percezione che si diffonde nella massa perché il lavoro sfruttato sente che non può tollerare, senza un impoverimento ulteriore, la spartizione del tutto improduttiva della ricchezza collettiva. Le risorse sperperate dal governo non recuperano politiche di cittadinanza. Il vero ritorno dello Stato oggi passa attraverso politiche industriali, e nel rilancio della sanità, della scuola, dei servizi, dell’amministrazione. I giovani, soprattutto quelli con più elevata scolarizzazione, ancora negli anni Novanta, per il 30% dei posti di lavoro ricoperti, trovavano impiego nel settore pubblico, oggi il pubblico ospita appena il 7% delle nuove occupazioni. Il reddito di cittadinanza è la negazione di ogni politica per il lavoro che avrebbe bisogno di più opportunità nel pubblico vista la scarsa propensione all’innovazione del nanocapitalismo del Nord che è centrale nella coalizione materiale dominante.
Il governo scivola nella considerazione di pezzi di società e comincia ad attirare l’odio della piazza perché la sua contraddizione (sociale e territoriale) è pagata a spese del lavoro. Manca però una chiara alternativa politica. Se una suggestione viene dalle elezioni abruzzesi, è che si può riorganizzare un campo largo della sinistra, a partire non già dalle sigle ormai esaurite nella loro funzione, ma dai movimenti sociali, dal sindacato, dai soggetti dispersi ai quali una accorta regia deve offrire un ponte politico per una nuova offerta politica e ideale.
Il sistema tripolare sta evolvendo in un partito trainante a destra. La Lega, proprio grazie all’esperienza consociativa con il M5S, scarica la forza antisistema del non-partito grillino e lo depotenzia come una forza alternativa. Prima del conflitto major con la destra a direzione leghista, va risolto il conflitto minor per chi deve occupare nello spazio politico il ruolo di secondo attore legittimato a contendere in futuro la guida del paese ai sovranisti. I risultati dell’Abruzzo smentiscono la possibilità di adoperare anche con il M5S la grammatica politica d’altri tempi, quando il sistema era stabile ed erano consentite le prove tattiche di sganciamento di spezzoni della maggioranza.
Per evitare il declino, la sinistra deve contendere al M5S il ruolo di coalizione alternativa alla destra. Il blocco di potere giallo-verde ha spezzato ogni incantesimo nel mondo del lavoro e la catastrofe sociale indotta dal governo della stagnazione condannerà presto proprio il M5S all’oblio e al disprezzo. A sinistra serve una coalizione plurale che, pronunciando una profonda e netta autocritica per le scelte dell’ultima legislatura, delinei un patto di programma anzitutto con il sindacato, con gli attori del civismo. Bisogna inventare ibridazioni, nuove formule organizzative, per saldare esperienze di lotta e cultura in un altro progetto politico.
[1] K. Crehan, The Common Sense of Donald J. Trump: A Gramscian Reading of Twenty-First Century Populist Rhetoric, in A. Jaramillo Torres, M. B. Sable (a cura di), Trump and Political Philosophy. Leadership, Statesmanship, and Tyranny, Palgrave Macmillan, Londra 2018.
[7] K. Crehan, Gramsci, Culture and Anthropology, Pluto Press, Londra 2002, p. 155.
[8] K. Crehan, The Common Sense of Donald J. Trump cit., p. 286.
[10] K. Crehan, Gramsci’s Common Sense. Inequality and Its Narratives, Duke University Press, Londra 2016, p. XII.