Il nuovo cleavage tra sovranisti ed europeisti

Di Massimiliano Panarari Martedì 12 Marzo 2019 15:35 Stampa


La politica dell’età contemporanea in Europa si è organizzata, come noto, intorno ad alcune fratture sociali (indagate dalle teorie dello sviluppo politico). Quelle da cui sono nati i partiti che hanno strut­turato i sistemi politici per come li abbiamo conosciuti, tra alti e bassi, sostanzialmente fino ai giorni nostri, e che hanno fornito la spina dorsale della politica razionale della modernità post-illumini­stica. Con la teoria dei cleavages, gli scienziati politici Stein Rokkan e Seymour Martin Lipset, nella seconda metà degli anni Sessanta, hanno spiegato la genesi e lo sviluppo delle formazioni partitiche incrociando due dimensioni in base all’asse del conflitto politico (territoriale o funzionale) e alla rivoluzione (nazionale e industriale), da cui hanno tratto origine le fratture centro-periferia, Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro. Questi cleavages hanno identificato molto nitidamente la natura dei conflitti sociali e la tipologia degli imprenditori politici che hanno dato loro voce e rappresentazione; ed è stato esattamente nel loro alveo che la “rivoluzione organizzati­va” della sinistra e del movimento operaio (dai partiti di massa, ideo­logici e di integrazione sociale ai sindacati) ha trovato compimento e la possibilità di un’affermazione.

Da tempo si stanno facendo largo alcune nuove fratture, che hanno sconvolto e tagliato trasversalmente l’asse (e la dicotomia) sinistra-destra, l’architrave della politica nel Moderno, scompaginando al­tresì quelle finora consolidate. Sono cleavages che promanano dalla fine delle ideologie otto-novecentesche e risentono del clima cultu­rale instaurato, ormai da quasi mezzo secolo, dal postmodernismo. E che risentono fortemente degli effetti prodotti sul corpo sociale delle nazioni occidentali dalla grande crisi finanziaria del 2008-11. Come quella marcatissima tra sovranisti e globalisti, sotto il cui segno si svolge la campagna elettorale per le europee del maggio 2019, primo grande trasferimento a livello continentale della tipologia di conflitti che animano il livello degli Stati-nazione. La frattura in questione si traduce nella contrapposizione tra il “pop-sov” o “sovran-populismo” (l’abbinata sovranismo-populismo) e il “global-cosmopolismo” (la coppia cosmopolitismo-globalismo); anche se va precisato che so­vranismo e populismo non risultano perfettamente sovrapponibili (come mostra la postmoderna sinistra neopopulista di Podemos, de­cisamente segnata dal pensiero di Ernesto Laclau,1 che è multicultu­rale). Derivante anche da responsabilità rilevanti delle classi dirigenti pro-integrazione (e da atteggiamenti e stili di condotta di taluni, al loro interno, che hanno prestato il fianco all’accusa di una “visio­ne oligarchica”), quello tra sovranisti ed europeisti, secondo Sergio Fabbrini, identifica precisamente il nuovo cleavage fondamentale e strutturale che ha ridefinito la politica continentale. Ed evidenzia, molto nitidamente, la sua natura di ulteriore minaccia antisistemica che si giustappone al già dissestato panorama dei sistemi politici li­beraldemocratici in questi primi decenni del Duemila.

Si tratta di un cleavage che si sovrappone, in buona misura, a quello tra partiti di sistema o di establishment e partiti antisistema o an­tiestablishment, una strettoia e una strozzatura nella quale si sono infilati, con una valutazione imprecisa e improvvida dei termini della questione (oltre che delle assai sfavorevoli implicazioni sotto il pro­filo del consenso elettorale), le organizzazioni politiche progressiste, effettuando l’ennesima adesione (consapevole o meno) alla – letale – massima thatcheriana “There Is No Alternative” (TINA). E da cui è scaturita una sotto-frattura, o frattura di secondo grado, che risulta all’opera in seno a vari partiti di sinistra tra pro Unione europea e anti UE (dove sotto l’ombrello UE si ricomprendono geometrie e obiettivi variabili, che vanno dalla Commissione europea al sistema di governance complessivo delle istituzioni sovranazionali, fino a sin­gole policies o trattati come il Fiscal Compact).

Ma è soprattutto dal piano delle narrazioni (e, frequentemente, delle meta-narrazioni) che i partiti-movimenti sovran-populisti attingono la loro forza in termini di consensus building, rendendo così molto pertinente e congrua l’etichetta di “sovranismo psichico”, coniata nel dicembre 2018 dal Censis. Così, tra i fattori che alimentano queste recenti fratture del conflitto politico va annoverata anche la spinta verso la disintermediazione degli ultimi decenni, che viene abitual­ mente traslata in un rapporto neoplebiscitario tra i leader-uomini forti sovranisti e il “loro” popolo, complici anche l’autocomunica­zione di massa e l’orizzontalizzazione connaturata ai social network. Dividere la sfera pubblica, infatti, costituisce una delle attività pri­marie dei politici e intellettuali neopopulisti che, mediante la fabbri­cazione di teorie del complotto e di racconti alternativi degli eventi, generano una cacofonia di voci e un elevatissimo rumore di fondo per minare e destabilizzare quella realtà condivisa che è essenziale per il funzionamento delle istituzioni all’interno di una democrazia liberale e di uno Stato costituzionale. In tal modo vengono edificati più campi del discorso pubblico che non prevedono comunicazione e interscambio reciproco, con i cittadini-elettori rigidamente ripartiti tra di essi, e quindi profondamente divisi (essendo spesso, peraltro, nella più totale buona fede).

LA POLITICA DELL’IDENTITÀ

A ridefinire fortemente alcuni settori e assi dei sistemi politici è, dunque, in ultima istanza la politica dell’identità. L’identità cultu­rale surroga l’ideologia (che era internazionalista, ovvero globale), e si esprime quindi nel conflitto tra chi la rivendica come un sistema chiuso e “non contaminabile” (i sovranisti), e chi, invece, la ritie­ne aperta e soggetta a ibridazioni e contaminazioni (i cosmopoli­ti). Colin Crouch, dopo avere fotografato con precisione una certa involuzione dei sistemi liberaldemocratici nella direzione della post democrazia, ha riflettuto sulla dimensione simbolica della violentis­sima tensione che li attraversa e sulla riedizione sotto altre spoglie, in seno alla postmodernità, del conflitto che ha inaugurato la fase del Moderno. Vale a dire la contrapposizione frontale fra il sistema di valori dell’Antico regime e quello dell’Illuminismo, la sicurezza offerta dai modelli della tradizione, della famiglia e dell’autorità in antitesi alle libertà (individuali e collettive) generate dalla ragione, dalla sperimentazione e dall’innovazione, con il primo paradigma incarnato dai neopopulismi o, come preferisce chiamarli il sociologo britannico, dai nazionalismi.2

Per vasti settori della popolazione mondiale – sulla base di presuppo­sti differenti – i processi di globalizzazione sono sempre più diventati un sinonimo di perdita di identità. Ed è precisamente una “logica emotiva” (opposta a quella razionale, e alla radice del già evocato “so­vranismo psichico”) a spiegare il ritorno in forze dei populismi, con la loro ideologia identitarista che rifiuta le idee di interdipendenza e convivenza tra identità alternative. I populismi rigettano la facoltà di scegliere tra identità multiple e operano per imporne una coatta, unitaria e forzosa, che si rivela potentissima dal punto di vista del­la costruzione del consenso politico all’interno di società complesse come quelle della tarda modernità; ed è, appunto, per questo (e per la stabilità valoriale offerta dai nuovi conservatori) che i ceti popolari votano a favore di Donald Trump. E, in tal modo, si saldano alleanze all’apparenza inusitate tra conservatorismo, de­stra nazionalista e neoliberismo (come avviene, difatti, sempre più di frequente).

Il panorama delle campagne elettorali odierne nelle nazioni occidentali si caratterizza per la net­ta preminenza del “paradigma del clima di opi­nione”, che sta riscrivendo in profondità le griglie e i quadri cognitivi della “credibilità percepita” dai destinatari (i cittadini-elettori), ma anche di quella “proiettata” dagli emittenti (le leadership). Ne deriva, per molti versi, il processo di sostitu­zione della costruzione mediatica dell’opinione pubblica mediante, giustappunto, l’edificazione di un clima di opinione imperniato sul frame culturale della figura sociale dell’ordinary people (la “gente comune”); un riorientamento dispiegato efficacemente proprio dalle piattaforme ideologiche e retorico-narrative della comunicazione di quei leader, partiti strutturati o movimenti fluidi o intermittenti che compongo­no la sempre più vasta offerta politica di tipo sovran-populista.

MAPPE E GEOPOLITICA DEL SOVRANISMO

La Francia rappresenta l’autentico incubatore del sovranismo in Oc­cidente, poiché alla sua origine si trova sostanzialmente la figura di Jean-Pierre Chevènement, compendio esemplare del modello fran­cese della patria identitaria contro l’impero globale. Il politico, già ripetutamente ministro con François Mitterrand, Pierre Mauroy, Laurent Fabius e Michel Rocard, abbandonò il Partito socialista nel 1993 per fondare il Mouvement des citoyens. Contrario alla guerra in Iraq e poi a quella in Kosovo, duramente avverso alla dottrina dell’interventismo umanitario e al cosiddetto “imperialismo dei di­ritti umani” della NATO, Chevènement divenne il punto di rife­rimento della gauche nationaliste e di quegli intellettuali che il set­timanale “Nouvel Observateur” ribattezzò, intorno alla metà degli anni Novanta, réac de gauche, tra cui personaggi noti come Régis Debray e Max Gallo. Un esperimento pionieristico che avrebbe avu­to un carattere seminale e si sarebbe convertito in un’onda via via montante nei primi anni del XXI secolo. L’aggettivo che meglio si addice, dal punto di vista del cromatismo politico, al sovranismo è dunque quello di “rossobruno”, nella cui fattispecie si rivelano am­piamente operative le “porte scorrevoli” tra una certa estrema destra e una certa estrema sinistra, dal momento che il sovranismo si fonda sulla visione-narrazione di una comunità organica di tipo nazionale, è antiliberale e non considera valori i diritti soggettivi e individuali.

Un legato, quello del souverainisme 1.0, che è stato prontamente adottato – e digitalizzato attraverso la “fasciosfera” – dal lepenismo, ed è trapassato oltre le Alpi, nell’Italia unico paese dell’Occidente governato da un esecutivo integralmente neopopulista, e che si pre­senta come laboratorio e testa d’ariete del contingente sovranista nel prossimo appuntamento elettorale europeo. Insieme alla forza d’urto che verrà dal Gruppo di Visegrad e dalle nazioni dell’Europa orien­tale, dove il passato che non passa del socialismo reale ha lasciato eredità avvelenate di rigetto del pluralismo e del dissenso di cui si sono agevolmente impadroniti i nuovi regimi di destra radicale e xenofoba.

L’EQUIVOCO (E L’IMPRATICABILITÀ) DEL “SOVRANISMO DI SINISTRA”

Per recuperare agibilità politica all’interno di queste fratture alcu­ni esponenti e movimenti della sinistra di matrice radicale hanno elaborato una versione domestica e differenziale del sovranismo. Il nume intellettuale tutelare del “sovranismo di sinistra” è Wolfgang Streeck,3 il quale ha mosso una dura contestazione alle teorie econo­mico-istituzionali che attribuiscono l’incremento del debito pubbli­co, a partire dagli anni Settanta, a una (diciamo così) inflazione di democrazia. Il processo di “hayekizzazione del capitalismo europeo e del suo sistema politico” troverebbe i suoi fulcri – e qui l’autore entra duramente in polemica con un altro erede “revisionista” della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas – nel mercato unico e nella strutturazione dell’architettura dell’Unione europea per come si è ve­nuta configurando. Streeck arriva a tessere l’elogio dell’indignazione morale e della più prosaica svalutazione monetaria, sino allo sman­tellamento dell’Unione monetaria per “difendere la democrazia”. Ma tra l’originale (il sovranismo di destra) e la copia (quello di sinistra), come insegna un’inossidabile legge di natura del comportamento elettorale, “ai voti” vince sempre il primo.

L’agenda dei progressisti europeisti potrebbe quindi trarre una as­sai più utile indicazione dalla proposta crouchiana di una globaliz­zazione moderata e limitata mediante le agenzie internazionali di regolamentazione. Il primo presupposto è che, compiendo una scelta di tipo razionale, svariati Stati-nazione optino per forme di associazione (sul modello di un’Unione europea rinnovata e rafforzata) che garantirebbero, in definitiva, un’espansione – e non una riduzione, come so­stengono illusoriamente i populsovranisti – della loro sovranità. E il secondo è che se ne faccia promotrice un’alleanza (“a tempo”, e collegata all’emergenza che viviamo) di forze di sinistra e destra moderate (pur senza nascondersi le pro­blematiche della formula delle “grandi coalizioni” rispetto alle pre­ferenze dell’opinione pubblica e agli effetti sulle politiche di gover­no). E, in ogni caso, assicura lo studioso inglese, le nuove forme di economia faranno inevitabilmente aumentare le figure professionali (e le platee di cittadini-elettori) che declinano insieme stili di vita e comportamenti di tipo liberale ed egualitario. E, dunque, in certo qual modo, tertium datur.

 


 

[1] E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.

[2] C. Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Laterza, Roma-Bari 2019.

[3] W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2014.