La politica dell’età contemporanea in Europa si è organizzata, come noto, intorno ad alcune fratture sociali (indagate dalle teorie dello sviluppo politico). Quelle da cui sono nati i partiti che hanno strutturato i sistemi politici per come li abbiamo conosciuti, tra alti e bassi, sostanzialmente fino ai giorni nostri, e che hanno fornito la spina dorsale della politica razionale della modernità post-illuministica. Con la teoria dei cleavages, gli scienziati politici Stein Rokkan e Seymour Martin Lipset, nella seconda metà degli anni Sessanta, hanno spiegato la genesi e lo sviluppo delle formazioni partitiche incrociando due dimensioni in base all’asse del conflitto politico (territoriale o funzionale) e alla rivoluzione (nazionale e industriale), da cui hanno tratto origine le fratture centro-periferia, Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro. Questi cleavages hanno identificato molto nitidamente la natura dei conflitti sociali e la tipologia degli imprenditori politici che hanno dato loro voce e rappresentazione; ed è stato esattamente nel loro alveo che la “rivoluzione organizzativa” della sinistra e del movimento operaio (dai partiti di massa, ideologici e di integrazione sociale ai sindacati) ha trovato compimento e la possibilità di un’affermazione.
Da tempo si stanno facendo largo alcune nuove fratture, che hanno sconvolto e tagliato trasversalmente l’asse (e la dicotomia) sinistra-destra, l’architrave della politica nel Moderno, scompaginando altresì quelle finora consolidate. Sono cleavages che promanano dalla fine delle ideologie otto-novecentesche e risentono del clima culturale instaurato, ormai da quasi mezzo secolo, dal postmodernismo. E che risentono fortemente degli effetti prodotti sul corpo sociale delle nazioni occidentali dalla grande crisi finanziaria del 2008-11. Come quella marcatissima tra sovranisti e globalisti, sotto il cui segno si svolge la campagna elettorale per le europee del maggio 2019, primo grande trasferimento a livello continentale della tipologia di conflitti che animano il livello degli Stati-nazione. La frattura in questione si traduce nella contrapposizione tra il “pop-sov” o “sovran-populismo” (l’abbinata sovranismo-populismo) e il “global-cosmopolismo” (la coppia cosmopolitismo-globalismo); anche se va precisato che sovranismo e populismo non risultano perfettamente sovrapponibili (come mostra la postmoderna sinistra neopopulista di Podemos, decisamente segnata dal pensiero di Ernesto Laclau,1 che è multiculturale). Derivante anche da responsabilità rilevanti delle classi dirigenti pro-integrazione (e da atteggiamenti e stili di condotta di taluni, al loro interno, che hanno prestato il fianco all’accusa di una “visione oligarchica”), quello tra sovranisti ed europeisti, secondo Sergio Fabbrini, identifica precisamente il nuovo cleavage fondamentale e strutturale che ha ridefinito la politica continentale. Ed evidenzia, molto nitidamente, la sua natura di ulteriore minaccia antisistemica che si giustappone al già dissestato panorama dei sistemi politici liberaldemocratici in questi primi decenni del Duemila.
Si tratta di un cleavage che si sovrappone, in buona misura, a quello tra partiti di sistema o di establishment e partiti antisistema o antiestablishment, una strettoia e una strozzatura nella quale si sono infilati, con una valutazione imprecisa e improvvida dei termini della questione (oltre che delle assai sfavorevoli implicazioni sotto il profilo del consenso elettorale), le organizzazioni politiche progressiste, effettuando l’ennesima adesione (consapevole o meno) alla – letale – massima thatcheriana “There Is No Alternative” (TINA). E da cui è scaturita una sotto-frattura, o frattura di secondo grado, che risulta all’opera in seno a vari partiti di sinistra tra pro Unione europea e anti UE (dove sotto l’ombrello UE si ricomprendono geometrie e obiettivi variabili, che vanno dalla Commissione europea al sistema di governance complessivo delle istituzioni sovranazionali, fino a singole policies o trattati come il Fiscal Compact).
Ma è soprattutto dal piano delle narrazioni (e, frequentemente, delle meta-narrazioni) che i partiti-movimenti sovran-populisti attingono la loro forza in termini di consensus building, rendendo così molto pertinente e congrua l’etichetta di “sovranismo psichico”, coniata nel dicembre 2018 dal Censis. Così, tra i fattori che alimentano queste recenti fratture del conflitto politico va annoverata anche la spinta verso la disintermediazione degli ultimi decenni, che viene abitual mente traslata in un rapporto neoplebiscitario tra i leader-uomini forti sovranisti e il “loro” popolo, complici anche l’autocomunicazione di massa e l’orizzontalizzazione connaturata ai social network. Dividere la sfera pubblica, infatti, costituisce una delle attività primarie dei politici e intellettuali neopopulisti che, mediante la fabbricazione di teorie del complotto e di racconti alternativi degli eventi, generano una cacofonia di voci e un elevatissimo rumore di fondo per minare e destabilizzare quella realtà condivisa che è essenziale per il funzionamento delle istituzioni all’interno di una democrazia liberale e di uno Stato costituzionale. In tal modo vengono edificati più campi del discorso pubblico che non prevedono comunicazione e interscambio reciproco, con i cittadini-elettori rigidamente ripartiti tra di essi, e quindi profondamente divisi (essendo spesso, peraltro, nella più totale buona fede).
LA POLITICA DELL’IDENTITÀ
A ridefinire fortemente alcuni settori e assi dei sistemi politici è, dunque, in ultima istanza la politica dell’identità. L’identità culturale surroga l’ideologia (che era internazionalista, ovvero globale), e si esprime quindi nel conflitto tra chi la rivendica come un sistema chiuso e “non contaminabile” (i sovranisti), e chi, invece, la ritiene aperta e soggetta a ibridazioni e contaminazioni (i cosmopoliti). Colin Crouch, dopo avere fotografato con precisione una certa involuzione dei sistemi liberaldemocratici nella direzione della post democrazia, ha riflettuto sulla dimensione simbolica della violentissima tensione che li attraversa e sulla riedizione sotto altre spoglie, in seno alla postmodernità, del conflitto che ha inaugurato la fase del Moderno. Vale a dire la contrapposizione frontale fra il sistema di valori dell’Antico regime e quello dell’Illuminismo, la sicurezza offerta dai modelli della tradizione, della famiglia e dell’autorità in antitesi alle libertà (individuali e collettive) generate dalla ragione, dalla sperimentazione e dall’innovazione, con il primo paradigma incarnato dai neopopulismi o, come preferisce chiamarli il sociologo britannico, dai nazionalismi.2
Per vasti settori della popolazione mondiale – sulla base di presupposti differenti – i processi di globalizzazione sono sempre più diventati un sinonimo di perdita di identità. Ed è precisamente una “logica emotiva” (opposta a quella razionale, e alla radice del già evocato “sovranismo psichico”) a spiegare il ritorno in forze dei populismi, con la loro ideologia identitarista che rifiuta le idee di interdipendenza e convivenza tra identità alternative. I populismi rigettano la facoltà di scegliere tra identità multiple e operano per imporne una coatta, unitaria e forzosa, che si rivela potentissima dal punto di vista della costruzione del consenso politico all’interno di società complesse come quelle della tarda modernità; ed è, appunto, per questo (e per la stabilità valoriale offerta dai nuovi conservatori) che i ceti popolari votano a favore di Donald Trump. E, in tal modo, si saldano alleanze all’apparenza inusitate tra conservatorismo, destra nazionalista e neoliberismo (come avviene, difatti, sempre più di frequente).
Il panorama delle campagne elettorali odierne nelle nazioni occidentali si caratterizza per la netta preminenza del “paradigma del clima di opinione”, che sta riscrivendo in profondità le griglie e i quadri cognitivi della “credibilità percepita” dai destinatari (i cittadini-elettori), ma anche di quella “proiettata” dagli emittenti (le leadership). Ne deriva, per molti versi, il processo di sostituzione della costruzione mediatica dell’opinione pubblica mediante, giustappunto, l’edificazione di un clima di opinione imperniato sul frame culturale della figura sociale dell’ordinary people (la “gente comune”); un riorientamento dispiegato efficacemente proprio dalle piattaforme ideologiche e retorico-narrative della comunicazione di quei leader, partiti strutturati o movimenti fluidi o intermittenti che compongono la sempre più vasta offerta politica di tipo sovran-populista.
MAPPE E GEOPOLITICA DEL SOVRANISMO
La Francia rappresenta l’autentico incubatore del sovranismo in Occidente, poiché alla sua origine si trova sostanzialmente la figura di Jean-Pierre Chevènement, compendio esemplare del modello francese della patria identitaria contro l’impero globale. Il politico, già ripetutamente ministro con François Mitterrand, Pierre Mauroy, Laurent Fabius e Michel Rocard, abbandonò il Partito socialista nel 1993 per fondare il Mouvement des citoyens. Contrario alla guerra in Iraq e poi a quella in Kosovo, duramente avverso alla dottrina dell’interventismo umanitario e al cosiddetto “imperialismo dei diritti umani” della NATO, Chevènement divenne il punto di riferimento della gauche nationaliste e di quegli intellettuali che il settimanale “Nouvel Observateur” ribattezzò, intorno alla metà degli anni Novanta, réac de gauche, tra cui personaggi noti come Régis Debray e Max Gallo. Un esperimento pionieristico che avrebbe avuto un carattere seminale e si sarebbe convertito in un’onda via via montante nei primi anni del XXI secolo. L’aggettivo che meglio si addice, dal punto di vista del cromatismo politico, al sovranismo è dunque quello di “rossobruno”, nella cui fattispecie si rivelano ampiamente operative le “porte scorrevoli” tra una certa estrema destra e una certa estrema sinistra, dal momento che il sovranismo si fonda sulla visione-narrazione di una comunità organica di tipo nazionale, è antiliberale e non considera valori i diritti soggettivi e individuali.
Un legato, quello del souverainisme 1.0, che è stato prontamente adottato – e digitalizzato attraverso la “fasciosfera” – dal lepenismo, ed è trapassato oltre le Alpi, nell’Italia unico paese dell’Occidente governato da un esecutivo integralmente neopopulista, e che si presenta come laboratorio e testa d’ariete del contingente sovranista nel prossimo appuntamento elettorale europeo. Insieme alla forza d’urto che verrà dal Gruppo di Visegrad e dalle nazioni dell’Europa orientale, dove il passato che non passa del socialismo reale ha lasciato eredità avvelenate di rigetto del pluralismo e del dissenso di cui si sono agevolmente impadroniti i nuovi regimi di destra radicale e xenofoba.
L’EQUIVOCO (E L’IMPRATICABILITÀ) DEL “SOVRANISMO DI SINISTRA”
Per recuperare agibilità politica all’interno di queste fratture alcuni esponenti e movimenti della sinistra di matrice radicale hanno elaborato una versione domestica e differenziale del sovranismo. Il nume intellettuale tutelare del “sovranismo di sinistra” è Wolfgang Streeck,3 il quale ha mosso una dura contestazione alle teorie economico-istituzionali che attribuiscono l’incremento del debito pubblico, a partire dagli anni Settanta, a una (diciamo così) inflazione di democrazia. Il processo di “hayekizzazione del capitalismo europeo e del suo sistema politico” troverebbe i suoi fulcri – e qui l’autore entra duramente in polemica con un altro erede “revisionista” della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas – nel mercato unico e nella strutturazione dell’architettura dell’Unione europea per come si è venuta configurando. Streeck arriva a tessere l’elogio dell’indignazione morale e della più prosaica svalutazione monetaria, sino allo smantellamento dell’Unione monetaria per “difendere la democrazia”. Ma tra l’originale (il sovranismo di destra) e la copia (quello di sinistra), come insegna un’inossidabile legge di natura del comportamento elettorale, “ai voti” vince sempre il primo.
L’agenda dei progressisti europeisti potrebbe quindi trarre una assai più utile indicazione dalla proposta crouchiana di una globalizzazione moderata e limitata mediante le agenzie internazionali di regolamentazione. Il primo presupposto è che, compiendo una scelta di tipo razionale, svariati Stati-nazione optino per forme di associazione (sul modello di un’Unione europea rinnovata e rafforzata) che garantirebbero, in definitiva, un’espansione – e non una riduzione, come sostengono illusoriamente i populsovranisti – della loro sovranità. E il secondo è che se ne faccia promotrice un’alleanza (“a tempo”, e collegata all’emergenza che viviamo) di forze di sinistra e destra moderate (pur senza nascondersi le problematiche della formula delle “grandi coalizioni” rispetto alle preferenze dell’opinione pubblica e agli effetti sulle politiche di governo). E, in ogni caso, assicura lo studioso inglese, le nuove forme di economia faranno inevitabilmente aumentare le figure professionali (e le platee di cittadini-elettori) che declinano insieme stili di vita e comportamenti di tipo liberale ed egualitario. E, dunque, in certo qual modo, tertium datur.
[1] E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.
[2] C. Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Laterza, Roma-Bari 2019.