Le diseguaglianze economiche sono generate da processi complessi, in cui interagiscono molteplici fattori.1 Per valutare la distribuzione del benessere economico in una popolazione bisogna guardare a come si distribuisce il reddito disponibile equivalente, che deriva dalla somma di tutti i redditi di mercato (da lavoro, capitale, rendite) percepiti da ogni membro di un nucleo familiare, al netto di imposte e contributi e includendo i trasferimenti del welfare state, con i redditi resi equivalenti mediante le apposite scale per consentire comparazioni fra individui che vivono in nuclei di diversa dimensione.
I redditi disponibili non sono però che l’ultimo passo del processo di formazione dei redditi – e, quindi, delle diseguaglianze – che si compone di tre stadi: nel primo, gli individui offrono il lavoro sul mercato e dal contratto che ottengono dipendono il salario, la durata dell’impiego, la frequenza dei periodi di disoccupazione; nel secondo, gli individui si compongono in nuclei familiari il cui reddito complessivo dipenderà non solo dai redditi di lavoro dei suoi componenti (e quindi, in modo cruciale, dal numero di percettori di salari), ma anche da altri eventuali redditi di mercato, come quelli che scaturiscono dal rendimento del capitale. L’ultimo anello è quello dell’intervento redistributivo dello Stato, che si concreta tramite imposte e trasferimenti.
Di seguito ci concentriamo sul primo stadio, ovvero sulla distribuzione delle retribuzioni individuali. A motivare questa scelta va considerato che il mercato del lavoro è il luogo in cui si forma la maggior parte delle diseguaglianze di reddito, in ragione del peso rilevante che le retribuzioni svolgono nella formazione dei redditi familiari.2
L’ANDAMENTO DELLA DISTRIBUZIONE DEI SALARI
Nell’analisi della diseguaglianza salariale si guarda solitamente a chi, nel periodo considerato (di solito l’anno), percepisce una retribuzione positiva (si escludono quindi dall’analisi disoccupati e inattivi). La dispersione delle retribuzioni annue dipende da tre fattori che interagiscono tra loro, generalmente aggravando le sperequazioni salariali fra individui: a) quanto si riceve per ora lavorata; b) il numero di ore a settimana in cui si riesce a prestare lavoro (lungo questa dimensione, risulta particolarmente svantaggiato chi svolge involontariamente un’attività part time); c) il numero di settimane lavorate nel corso di un anno (lungo questa dimensione, risulta particolarmente svantaggiato chi lavora con contratti a termine o atipici, caratterizzati da una maggior frequenza di interruzioni e periodi di disoccupazione).
I dati amministrativi raccolti dall’INPS – relativi alle dichiarazioni contributive dei dipendenti nel settore privato – consentono di osservare la tendenza della diseguaglianza salariale nel periodo 1985- 2016 in Italia distinguendo il ruolo dei tempi di lavoro e dei periodi di intermittenza lavorativa (si considerano di seguito le retribuzioni lorde, in cui è inclusa anche la quota di contributi sociali a carico del lavoratore).3 Di seguito, confrontiamo gli andamenti della diseguaglianza delle retribuzioni percepite nell’anno, di quelle settimanali – così depurando da possibili variazioni nella frequenza dei periodi di disoccupazione durante l’anno – e, come proxy dei salari orari (non registrati negli archivi INPS), delle retribuzioni settimanali dei soli lavoratori con contratto full time, così depurando anche da possibili variazioni nella diffusione del part time.
La Figura 1 mostra l’andamento dei valori medi delle diverse tipologie di retribuzione a prezzi costanti (fatta pari a 100 la retribuzione media del 1985): annuali, settimanali e settimanali per i full timers. Da tale figura emerge evidente come, dopo un periodo di intensa crescita delle retribuzioni reali fra il 1985 e il 1990, in seguito alle riforme
della contrattazione introdotte nel 1992-93 le retribuzioni medie reali abbiano iniziato a essere stabili, se si guarda alla proxy dei salari orari, o decrescenti, se si guarda alle retribuzioni annuali e settimanali. È altresì interessante osservare che se, da un lato, retribuzioni annuali e settimanali seguono esattamente lo stesso trend, la nostra proxy dei salari orari, dopo un lungo periodo di stagnazione, ha ripreso a crescere a partire dal 2004 e l’aumento non si è interrotto nemmeno durante gli anni della crisi (con l’eccezione del 2011 e 2012).
Un trend così divergente fra retribuzioni annuali e “orarie” si può spiegare con la variazione nel corso del tempo del numero di persone che riescono a lavorare l’intero anno con contratti a tempo pieno. Effettivamente, i dati a disposizione evidenziano in modo lampante come il principale cambiamento strutturale dell’economia italiana sia rappresentato dalla crescita esponenziale del part time (nella maggior parte dei casi involontario e che frequentemente nasconde forme di lavoro “grigio”) che costituisce ormai la tipologia contrattuale standard in molti settori: se il part time era di fatto inesistente nel 1985, la quota di dipendenti privati che ottengono da un rapporto a tempo parziale la loro retribuzione principale è aumentata in modo costante per l’intero periodo osservato fino a un valore del 29,1% nel 2016, e pari ad addirittura il 45,8% fra le donne (17,7% fra gli uomini). La crescita della proxy dei salari orari non deve quindi rassicurare sulla capacità del mercato del lavoro di generare retribuzioni crescenti, dato che la quota di dipendenti che riesce a lavorare a tempo pieno si è ridotta in modo sostanziale nel corso del tempo.
Guardare alla sola evoluzione delle retribuzioni medie è, tuttavia, del tutto insufficiente perché resta nascosta la possibile variazione dell’eterogeneità fra lavoratori. L’andamento dei principali percentili della distribuzione delle retribuzioni annue evidenzia chiaramente tale differenza (Figura 2): fino al 1992 le retribuzioni reali crescono per tutti i percentili, anche se in misura fortemente differenziata, favorendo i redditi più alti; dopo tale periodo, i lavoratori che si collocano nei percentili alti (dal 75° in poi) mantengono, seppur con qualche oscillazione, il loro tenore di vita reale, quelli mediani restano inizialmente sui valori del 1985, ma poi subiscono un sensibile arretramento (di circa 5 punti percentuali) dal 2010 in poi, mentre la coda bassa della distribuzione sperimenta una cospicua caduta dei redditi reali, come documentato dall’andamento del 10° e del 25° percentile.
Un andamento così differenziato dei diversi percentili si ripercuote, inevitabilmente, sulla diseguaglianza retributiva, che valutiamo in base all’indice di Gini, il cui valore aumenta costantemente lungo l’intero periodo di osservazione per quanto concerne le retribuzioni annuali e settimanali (Figura 3), anche se, come atteso, la diseguaglianza delle retribuzioni settimanali è minore di quella annuale, a conferma del fatto che i periodi di intermittenza lavorativa penalizzano soprattutto i lavoratori con minore retribuzione settimanale. Diversa è la tendenza relativa ai salari settimanali dei full timers – che, come detto, approssimano la tendenza dei salari orari –, la cui diseguaglianza cresce nella prima parte del periodo osservato, ma si mantiene sostanzialmente costante dal 1992 in poi.
Ma basta questo per affermare che il mercato del lavoro italiano non genera diseguaglianze crescenti? Purtroppo la risposta è necessariamente negativa per una duplice considerazione: in primo luogo, come detto, i lavoratori con contratti full time sono una quota sempre minore fra i dipendenti e, in secondo luogo, come già sottolineato, se vogliamo capire come il mercato del lavoro influenzi la dispersione del benessere economico fra i residenti in Italia non possiamo guardare semplicemente a una misura ideale di dispersione retributiva che depuri dall’influenza dei tempi di lavoro, che rappresentano, invece, una dimensione cruciale da cui dipende il tenore di vita dei dipendenti nel settore privato. Si aggiunga inoltre che – per ragioni di uniformità dei dati a disposizione – ci siamo focalizzati unicamente sui dipendenti privati, senza considerare chi lavora con forme contrattuali sovente ancora più penalizzate, come i parasubordinati e le “partite IVA involontarie”. In tutta probabilità, se includessimo nell’analisi anche questi lavoratori, il quadro di crescita delle diseguaglianze retributive sarebbe ben più accentuato.
DA COSA DERIVA LA CRESCITA DELLE DISEGUAGLIANZE RETRIBUTIVE?
La letteratura economica ha indagato l’evoluzione della diseguaglianza retributiva in mercati del lavoro molto differenziati, individuando cause diversificate, diversamente preoccupanti, fra le quali: una crescita del premio all’istruzione che sfavorisce chi ha un titolo di studio meno elevato o svolge mansioni di routine, più facilmente rimpiazzabili da robot e tecnologie informatiche; gli effetti di globalizzazione e delocalizzazione produttiva; l’indebolimento delle istituzioni del mercato del lavoro e dei rapporti di forza fra datori di lavoro e lavoratori, che porta all’ampliamento della dispersione retributiva; un aumento dell’eterogeneità delle forme contrattuali, che allarga le differenze fra chi riesce a lavorare l’intero anno e a tempo pieno rispetto a chi lavora part time e con contratti a termine di breve periodo; la crescita dell’occupazione nei servizi, in virtù del più ampio ventaglio di mansioni, e retributivo, tipico di questo settore.
Facendo riferimento soprattutto alle esperienze di Stati Uniti e Regno Unito, l’enfasi è stata posta in prevalenza sulla possibile crescita del premio salariale goduto da chi ha un alto titolo di studio, connessa a fenomeni relativi al progresso tecnico e alla globalizzazione. La visione della diseguaglianza che discende da tale interpretazione è, in una qualche misura, rassicurante: la crescita delle sperequazioni dipenderebbe, infatti, da aspetti legati alle abilità individuali e sarebbe determinata da meccanismi di mercato “naturali”, esogeni alle scelte di policy, quali il progresso tecnologico e la globalizzazione.
L’osservazione del caso italiano porta però a smentire con forza tale visione: in un recente lavoro con Maurizio Franzini mostriamo, infatti, che in Italia la quota di diseguaglianza salariale attribuibile al diverso titolo di studio dei lavoratori, anziché aumentare, si è ridotta costantemente nel corso del tempo.4 Inoltre, le tendenze della diseguaglianza non risultano attribuibili all’effetto esercitato da caratteristiche osservabili di individui e imprese (ad esempio, il genere, l’età, la Regione, il settore e la dimensione di impresa), ma sono legate ad aspetti non osservabili nei dati a disposizione, che necessitano di ulteriore indagine per capire quanto i meccanismi in atto discendano da processi che, oltre che iniqui, possono anche risultare inefficienti. A tale proposito, non si può tralasciare il fatto che sempre più diffuse sono, anche nel nostro paese, le “super retribuzioni”, tipiche, fra gli altri, di molti amministratori di imprese private, e tali super retribuzioni, più che il frutto di una competizione molto intensa che si risolve a vantaggio dei “migliori”, appaiono sovente legate anche, se non soprattutto, a “rendite da lavoro” connesse a posizioni di potere e a mal funzionamenti dei meccanismi di mercato.5
Emerge quindi chiaramente come il mercato del lavoro sia diventato in Italia un luogo in cui si formano sempre più disparità. Un’efficace strategia di contrasto delle diseguaglianze dovrebbe, pertanto, partire da questa evidenza e provare a incidere sui meccanismi che regolano la fissazione di retribuzioni e opportunità lavorative nei mercati, anziché limitarsi unicamente a immaginare, per via fiscale e redistributiva, interventi ex post che compensino le forme più estreme di disparità prodotte dai mercati.
[1] Si vedano, fra gli altri, A. Atkinson, Inequality. What can be done?, Cambridge University Press, Cambridge 2015; M. Franzini, M. Pianta, Explaining inequality, Routledge, Londra 2016.
[2] Sulla base dei calcoli di M. Raitano, L’evoluzione della diseguaglianza di reddito in Europa negli anni della crisi, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2/2017, in Italia nel 2014 il 62,2% del reddito familiare proveniva da redditi da lavoro (autonomo o dipendente) – e un altro 30,7% proveniva dalle pensioni, che in gran parte rappresentano reddito da lavoro differito – e il 76,8% della diseguaglianza dei redditi disponibili derivava dalla distribuzione ineguale dei redditi da lavoro.
[3] Nello specifico, si fa uso del campione longitudinale LOSAI (Longitudinal Sample INPS), che riporta informazioni dettagliate su ogni rapporto di lavoro intrapreso nel periodo 1985-2016 da un ampio campione di individui (pari a circa il 6,6% della popolazione dei dipendenti privati).
[4] Si veda M. Franzini, M. Raitano, Earnings inequality and workers’ skills in Italy, in “Structural Change and Economic Dynamics”, 51/2019, pp. 215-24.
[5] Su questi aspetti si veda M. Franzini, E. Granaglia, M. Raitano, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?, il Mulino, Bologna 2014.