Il vespaio iracheno

Di Carlo Pinzani Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

La guerra al terrorismo Negli anni Cinquanta del secolo scorso, in un libro meritatamente famoso, «Democrazia e definizioni», Giovanni Sartori compiva un’importante operazione di igiene linguistica, affrontando sul piano semantico il problema di definire la democrazia. Nell’infuocato clima della contrapposizione globale, il lavoro si proponeva anche di denunciare la propaganda sovietica che, muovendo dalla critica marxiana alla democrazia borghese come esclusivamente formale, asseriva la superiorità della democrazia socialista imposta dall’Unione Sovietica con metodi tutt’altro che democratici nei paesi dell’Europa orientale.

 

La guerra al terrorismo Negli anni Cinquanta del secolo scorso, in un libro meritatamente famoso, «Democrazia e definizioni», Giovanni Sartori compiva un’importante operazione di igiene linguistica, affrontando sul piano semantico il problema di definire la democrazia. Nell’infuocato clima della contrapposizione globale, il lavoro si proponeva anche di denunciare la propaganda sovietica che, muovendo dalla critica marxiana alla democrazia borghese come esclusivamente formale, asseriva la superiorità della democrazia socialista imposta dall’Unione Sovietica con metodi tutt’altro che democratici nei paesi dell’Europa orientale.

Per comprendere la realtà attuale dell’Iraq è opportuno ricorrere a un approccio del genere, pur avendo ben presente l’inutile abbondanza di analogie che ha accompagnato fin dall’inizio la politica irachena delle Amministrazioni di G.W. Bush. E la formula propagandistica da prendere ad oggetto dell’esercizio semantico è quella della «guerra al terrorismo». Si tratta sicuramente di una formula di successo dal momento che, dopo la catastrofe dell’11 settembre 2001, è impossibile nutrire una qualche indulgenza nei confronti del terrorismo. Ma tanto questo termine quanto quello di «guerra» vanno sottoposti ad un’analisi semantica più stringente.

Sembra certo che per terrorismo si debba intendere il ricorso, sistematico o episodico, a comportamenti che inducono terrore in chi ne è oggetto, al fine di soggiogarlo o, quanto meno, di sconfiggerlo. E se tali comportamenti hanno sempre accompagnato l’umanità nella sua storia millenaria, la teorizzazione aperta della loro utilità è alquanto recente ed è legata alla nascita e allo sviluppo dell’aviazione. Fino dagli anni Venti del Novecento la teoria militare, in particolare per l’opera di un italiano, Giulio Dohuet, aveva elaborato la concezione che le guerre future avrebbero potuto essere vinte con il ricorso massiccio al bombardamento aereo. Il terrore così diffuso negli eserciti e nelle popolazioni nemiche ne avrebbe fiaccato il morale, inducendole a imporre al loro governo la richiesta della pace.

Fin dall’inizio, queste teorie incontrarono numerose e fondate obiezioni sul piano tecnico. Nella pratica, tuttavia, il ricorso massiccio al bombardamento aereo si diffuse rapidamente. Fra l’altro, per una singolare coincidenza, uno dei primi esperimenti di bombardamento aereo sistematico fu condotto dalla RAF, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, proprio contro le tribù irachene che si ribellavano all’imposizione di una dinastia straniera alla guida del paese. Il bombardamento strategico si affermò definitivamente nella seconda guerra mondiale sia con gli esplosivi tradizionali sia utilizzando la nuovissima tecnologia nucleare. L’uso della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki si rivelò decisivo per concludere le ostilità in estremo oriente che, altrimenti, si sarebbero sensibilmente prolungate. E, non per nulla, dopo il 1945 fu escogitata l’efficace formula dell’«equilibrio del terrore» per giustificare l’assenza di conflitti generalizzati, pur in presenza della contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica acuta, permanente, planetaria e, soprattutto, corredata di arsenali nucleari.

La corretta accezione del termine terrorismo, dunque, comprende anche i comportamenti degli Stati che perseguono risultati politici o militari attraverso la diffusione del terrore nei confronti del nemico. La più recente tecnologia militare si è fatta carico di questo aspetto fortemente negativo del bombardamento aereo e i progressi tecnologici hanno consentito di produrre missili di precisione, che riducono i «danni collaterali» (come la semantica dell’eufemismo impone ormai siano chiamate le vittime civili dei bombardamenti). Questi sviluppi e la prevalenza degli apparati propagandistici degli Stati hanno ridotto la portata del termine terrorismo, limitandola ai comportamenti tenuti da soggetti diversi dagli Stati che per fini politici o militari diffondono il terrore.

Ma, se il terrorismo è divenuto appannaggio esclusivo di organizzazioni non statali, la formula della «guerra al terrorismo» diventa un ossimoro, dal momento che la guerra, a partire dalla individuazione internazionalistica del justus hostis delle teorie politiche seicentesche, può essere condotta soltanto tra Stati. Si può osservare, incidentalmente, che le teorie sul justus hostis furono elaborate anche al fine di superare le straordinarie durezze e crudeltà delle guerre europee di religione e che l’attuale superamento della distinzione tra «giusto nemico» e «ribelle» avviene ad opera di uno Stato e di un gruppo dirigente fortemente segnati da una connotazione religiosa, quali sono oggi gli Stati Uniti e l’Amministrazione Bush.1

 

La guerra in Iraq: i precedenti sul campo

Queste considerazioni sono utili per comprendere la vicenda della guerra condotta dagli Stati Uniti in Iraq, che, altrimenti, senza la sottolineatura degli aspetti ideologici, risulta difficilmente comprensibile. Vi sono infatti pochi precedenti nei quali le motivazioni e le finalità di una guerra hanno subito nel tempo tante variazioni quanto in questo caso. Va da sé che il motivo più solidamente accertato e sicuro è dato dal fatto che il conflitto si svolge in una regione strategicamente vitale: oggi il petrolio condiziona la vita e l’economia di tutto il mondo.

È dunque comprensibile che, sostituendo la Gran Bretagna nell’esercizio dell’egemonia nel Golfo Persico e più in generale nel Medio Oriente, gli Stati Uniti si siano preoccupati di evitare l’affermazione di egemonie regionali ostili all’influenza americana e potenzialmente nocive all’approvvigionamento petrolifero degli stessi Stati Uniti. Le dinastie al potere nell’area avevano positivamente accettato la transizione dall’influenza inglese a quella americana e la consideravano, anzi, una forma di tutela nei confronti dell’ascesa del panarabismo. Dopo che questo si era affermato in Egitto ed esteso alla Siria e all’Iraq, i nuovi regimi si rivelarono fortemente antiamericani (soprattutto per l’appoggio che gli Stati Uniti fornivano alla causa israeliana) e consentirono anche una certa penetrazione dell’Unione Sovietica nell’area. L’equilibrio di fondo era tuttavia assicurato dall’Iran, dove la scià Reza Pahlevi portava avanti con l’appoggio americano un deciso processo di modernizzazione, accompagnato dalla repressione durissima di qualsiasi dissenso. Alla fine del 1978, sotto la spinta di imponenti manifestazioni popolari ispirate e guidate dal clero sciita, il principale pilastro dell’egemonia americana nel Golfo Persico crollava rapidamente e l’Iran si trasformava nella maggiore preoccupazione per la diplomazia mediorientale degli Stati Uniti.

Dopo l’ascesa di Khomeini a Teheran tutte le attenzioni si spostarono su Bagdad, dove il potere era esercitato da un militare sunnita che doveva rivelarsi ben presto uno dei più spietati tiranni del Ventesimo secolo, che, pure, di tiranni non aveva certo difettato. Nel settembre del 1980, approfittando della tensione tra Teheran e Washington in seguito al sequestro dei diplomatici americani in Iran, l’Iraq di Saddam Hussein procedette all’aggressione della repubblica islamica iraniana, nella sostanziale neutralità dell’Amministrazione Carter. L’appoggio americano all’Iraq si manifestò con la prima Amministrazione Reagan, di fronte alla possibilità che nella crudelissima guerra tra i due Stati gli iraniani potessero affermarsi,2 la Casa Bianca fornì tutto il suo sostegno politico e militare al despota iracheno, fra l’altro abbandonando al suo destino per la seconda volta nel giro di pochi anni il popolo curdo.3

Chiusa nel 1988 la guerra irano-irachena con un compromesso che ne sanciva la tragica inutilità, Saddam Hussein continuò a fruire dell’appoggio americano, senza aver peraltro rinunciato ai suoi disegni di egemonia regionale. Iniziata nel periodo più confuso delle relazioni internazionali per l’improvviso e definitivo declino dell’Unione Sovietica, l’invasione del Kuwait pose gli Stati Uniti e l’Amministrazione di George Bush senior di fronte alla necessità di fermare le ambizioni del dittatore iracheno. E la reazione fu pronta ed efficace nella tutela degli interessi americani: in poche settimane un corpo di spedizione prevalentemente americano, ma sostenuto da un’ampia coalizione sotto l’egida delle Nazioni Unite, cacciava le forze d’occupazione irachene dal Kuwait, risolvendo poi negativamente il problema di proseguire la guerra fino alla sconfitta definitiva di Saddam e alla sua cacciata dal potere: una totale destabilizzazione dell’Iraq avrebbe potuto favorire la repubblica islamica iraniana.

La decisione doveva essere foriera di gravi conseguenze per i successivi sviluppi della questione irachena, che diveniva un’operazione non portata a temine. In realtà, un tentativo per chiudere la questione con il rovesciamento di Saddam fu effettuato, sollecitando le rivolte interne di curdi e sciiti nel Nord e nel Sud dell’Iraq nuovamente represse, con grande decisione. L’alternativa di procedere a un’invasione in piena regola non fu presa in seria considerazione anche per la consapevolezza diffusa della difficoltà del compito e si ripiegò, quindi, su soluzioni che ripetevano gli schemi della guerra fredda: quelle del contenimento e della deterrenza, giovandosi per entrambe, come fattore determinante, del persistente appoggio della comunità internazionale.

Già all’atto dell’invasione del Kuwait era stato istituito un sistema di sanzioni economiche che rendeva impossibile al governo iracheno di disporre liberamente delle risorse derivanti dal petrolio. Iniziato con estremo rigore, il regime sanzionatorio doveva allentarsi di fronte alle eccessive sofferenze popolari, mentre offriva al regime possibilità di evasione attraverso il contrabbando e di un più incisivo controllo sociale attraverso la gestione del commercio interno. Questo aspetto assunse ancora maggior rilevanza quando le Nazioni Unite decisero di rendere più blando il regime sanzionatorio con il programma «Oil for Food» che consentiva l’esportazione di petrolio per l’acquisto di prodotti alimentari, con procedure che garantivano il controllo delle stesse Nazioni Unite. Cominciò così il graduale sfaldamento del sistema delle sanzioni che raggiunse il suo apice nel 2001, quando il governo iracheno aumentò sensibilmente la quota di esportazioni clandestine a scapito di quella del programma «Oil for food», dimostrando quale fosse la sua preoccupazione per le sofferenze popolari.

Dopo la liberazione del Kuwait, nonostante la precedente distruzione da parte dei bombardieri israeliani del sito di Osirak, potenzialmente destinato allo sviluppo di una tecnologia nucleare irachena, sussistevano ancora diffuse preoccupazioni per la disponibilità da parte irachena di armi di distruzione di massa, che erano state utilizzate nella forma di armi chimiche, sia nel conflitto con l’Iran sia nella repressione interna. Per eliminare il rischio di ulteriori, pericolosi sviluppi in questa direzione venne istituito un regime di ispezioni internazionali gestito dalle Nazioni Unite, che peraltro si scontrò con l’intensa attività di dissimulazione delle autorità irachene. Le tormentate vicende della missione dell’UNSCOM (United Nations Special Commission for the Disarmament of Irak), culminate con la decisione di espulsione degli ispettori presa da Saddam nel 1998, non avevano portato a risultati decisivi, e, per quanto non si fossero trovate prove certe sull’attività irachena di sviluppo di quel tipo di armi, restavano margini di dubbio, alimentati da rivelazioni e smentite di personaggi del regime che periodicamente disertavano.

Un’altra misura di contenimento adottata fu il divieto di sorvolo delle regioni sciite e curde da parte dell’aviazione irachena. Le no-fly zones tendevano inizialmente a ridurre le possibilità di repressione delle rivolte delle due comunità, rendendo in qualche misura meno crudo il cinismo di abbandonare al loro destino le due comunità ribelli. Al tempo stesso, la necessità di assicurare il rispetto del divieto consentiva agli Stati Uniti e ai loro alleati di mantenere forze aeree rilevanti nello scacchiere che, insieme a quelle navali e terrestri permanentemente dislocate nell’area, costituivano anche il nocciolo della deterrenza anti irachena. Questa ebbe modo di esercitarsi ripetutamente di fronte ai tentativi di riprendere la repressione anti curda al nord del paese, o anche quando, nel 1994, Saddam ammassò nuovamente le sue migliori forze armate al confine del Kuwait, facendo presagire una nuova invasione dell’emirato.

Si trattò di una pressione militare aperta e prolungata, punteggiata da bombardamenti ripetuti con missili ad alta precisione che mantenevano l’apparato militare di Saddam Hussein sotto costante pressione, pur non riuscendo quasi mai ad evitare i «danni collaterali» e generando quindi il risentimento popolare antiamericano. Il quadro va completato con il ricorso ripetuto alle covert actions volte a liberarsi del dittatore, senza però mai raggiungere lo scopo, anche per l’intrinseca debolezza dell’opposizione irachena. Questa non riuscì mai a disporre di forze sufficienti perché alla caduta di Saddam si potesse giungere attraverso la pressione di forze interne, eventualmente sostenute dall’appoggio aereo angloamericano, come doveva avvenire poi nel 2002 in Afghanistan contro il regime dei talebani.

 

La guerra in Iraq: i precedenti a Washington

In definitiva, il decennio 1992-2002 fu caratterizzato da una situazione di guerra intermittente e da infinite schermaglie diplomatiche nelle quali si dissolse la solidarietà internazionale creatasi di fronte all’invasione del Kuweit. Questo risultato fu dovuto, oltre che agli interessi petroliferi di molti paesi, alle incertezze della politica degli Stati Uniti, gradualmente restati soli con l’indefettibile alleato britannico a gestire una situazione pericolosa.

Inizialmente, le motivazioni dell’incertezza dell’Amministrazione di Bush senior vanno ricercate nella complessità della situazione politica mondiale derivante dal crollo sovietico e nell’esigenza di procedere ad una ridefinizione complessiva della politica internazionale degli Stati Uniti. In questo contesto, la minaccia rappresentata dal regime iracheno per gli interessi economici e politici degli Stati Uniti in Medio Oriente veniva apprezzata diversamente e in relazione ai giudizi sulla sua gravità variavano le proposte per fronteggiarla. Certamente, come hanno confermato le posizioni assunte in seguito dagli esponenti di quella Amministrazione, nella decisione di non procedere oltre dopo la cacciata degli iracheni dal Kuwait ebbe un peso decisivo la consapevolezza delle difficoltà che si sarebbero dovute affrontare durante le ostilità, e ancor più nel dopoguerra.

Durante i due mandati di Bill Clinton la questione non fece grandi progressi: come avveniva solitamente nelle Amministrazioni democratiche, nel governo si formarono due scuole di pensiero che valutavano in modo profondamente diverso la questione irachena. Quella prevalente considerava possibile continuare ad utilizzare a tempo indefinito gli strumenti del contenimento e della deterrenza, tenuto conto anche delle altre numerose crisi che dovevano essere affrontate, dalla Bosnia alla Somalia, dal Kossovo ad Haiti, dal Rwanda all’incipiente minaccia dell’integralismo islamico con i ripetuti attentati agli interessi americani in Medio Oriente.

Pur patrocinata dal vicepresidente Al Gore, decisamente minoritaria era la corrente più incline alla durezza verso Saddam Hussein. Si trattava in ogni caso di una novità non trascurabile dal momento che per la prima volta dai tempi di Kennedy un’amministrazione democratica considerava l’ipotesi di un massiccio impegno militare in scacchieri lontani. D’altra parte, anche i falchi clintoniani erano consapevoli della impossibilità di ottenere sufficiente consenso nell’opinione pubblica degli Stati Uniti ad un’invasione dell’Iraq.4

Già nel 1992, tuttavia, nell’Amministrazione di Bush senior v’era chi non aveva incertezze né sull’Iraq né, più in generale, sulla politica estera americana del dopo-guerra fredda. L’8 marzo di quell’anno «The New York Times» pubblicava ampi stralci di un documento commissionato dal segretario alla difesa Cheney e redatto sotto la supervisione del sottosegretario Wolfowitz. Per quanto successivamente ritirato e rivisto dalla Casa Bianca, quel documento delineava una politica tesa a difendere la preminenza degli Stati Uniti di fronte a qualsiasi sfida esterna, specialmente se condotta con armi non convenzionali, senza alcuna preoccupazione per vincoli di alleanza stabili né per il sistema delle Nazioni Unite. Attorno a questa linea di politica internazionale, che riprendeva i toni allarmistici e sciovinisti del Committee on Present Danger degli anni di Reagan e si inseriva nell’onda lunga della ripresa conservatrice, si venne coagulando il gruppo dei neoconservatori, che, alla fine del secolo, avrebbero preso il sopravvento nel Partito Repubblicano. Riguardo all’Iraq, nel 1998, i neoconservatori, attraverso una prolungata azione di lobbying indussero il Congresso ad approvare l’Iraq Liberation Act che faceva del rovesciamento di Saddam Hussein e del regime baathista la politica ufficiale degli Stati Uniti.5

 

I neoconservatori e l’Iraq

Con la contrastata vittoria di G.W. Bush nelle elezioni del 2000 questo gruppo si trovò a dirigere la politica estera e militare degli Stati Uniti, guidato da un presidente particolarmente inesperto di politica internazionale, ma dotato di forti convincimenti ideologici convergenti con quelli dei suoi principali collaboratori. All’interno del gruppo sussistevano legami assai forti, cementati da prolungate collaborazioni in precedenti Amministrazioni repubblicane. Ciascuno dei principals, poi, era a sua volta legato a collaboratori di livello inferiore, in modo che si formò una rete vasta e sufficientemente coesa, nella quale peraltro non mancavano le differenziazioni.6

Non deve dunque destare meraviglia il fatto che pur nell’approccio sostanzialmente cauto della nuova Amministrazione ai problemi della politica internazionale, l’Iraq avesse una priorità assai elevata in quanto la sfida del regime baathista agli Stati Uniti si era trasformata nell’occasione migliore per affermare il nuovo ed assertivo unilateralismo americano. Già nelle prime riunioni del Consiglio di sicurezza nazionale, sulla base di una nota di Rumsfeld, si parlò di Iraq in un modo che ad uno dei partecipanti, estraneo al gruppo impegnato sulla politica internazionale, fece concludere che «l’improvvisa attenzione su Saddam Hussein aveva senso se si doveva adottare una più ampia ideologia – l’esigenza di dissuadere gli altri dal creare minacce asimmetriche».7

In realtà, l’ideologia era ancora più ampia: si trattava di rovesciare completamente l’approccio multilaterale impresso da Roosevelt alla politica internazionale degli Stati Uniti e mantenuto anche nei momenti più aspri della contrapposizione globale per sostituirlo con un rigoroso unilateralismo, fondato su una visione ristretta dell’interesse nazionale americano, sostanzialmente assai vicina alle premesse ideologiche del tradizionale isolazionismo repubblicano. Questo era ormai impossibile da praticare nel mondo globalizzato del nuovo secolo, nel quale non si poteva non essere internazionalisti. Tuttavia il perseguimento unilaterale della difesa dell’egemonia conseguente alla fine dalla guerra fredda si limitava ad aggiornare l’isolazionismo con la marcata e ristretta sottolineatura degli interessi nazionali e la diffidenza verso le organizzazioni internazionali.

Ottenere un consenso interno sufficientemente ampio e saldo su una svolta così radicale sarebbe stato impossibile senza l’ondata emotiva suscitata negli Stati Uniti e nel mondo dagli attentati dell’11 settembre 2001. In un certo senso, tuttavia, la minaccia del terrorismo islamico – sottovalutata secondo alcuni tanto nelle Amministrazioni Clinton quanto ed ancor più in quella di G.W. Bush8 – rappresentò una battuta d’arresto per i programmi anti-iracheni della nuova équipe dirigente americana. Si dovette prima predisporre e attuare rapidamente una risposta militare alle iniziative terroristiche di al Quaeda, che ricevette giustamente un vasto consenso internazionale, proprio per l’inaccettabilità dei metodi usati da questa componente dell’integralismo islamico. La distruzione del regime talebano in Afghanistan fu condotta col metodo che si era parzialmente tentato senza successo in Iraq, vale a dire con il ricorso alle forze di opposizione locali con il sostegno del bombardamento americano. L’operazione ebbe un rapido successo per la debolezza dei talebani e ancor più per l’appoggio internazionale di cui godette l’iniziativa americana.

Il successo in Afghanistan, pur meno completo di quello che apparve sul momento, fu sufficiente all’Amministrazione per enunciare apertamente la propria nuova strategia per la sicurezza nazionale, fondata sulla coscienza della forza planetaria degli Stati Uniti, sulla rinuncia al multilateralismo come metodo di governo delle relazioni internazionali e sulla decisa riaffermazione del diritto alla guerra preventiva in caso di gravi minacce agli Stati Uniti. Tutto questo, poi, veniva fatto rientrare nella formula della «guerra al terrorismo».

Il documento sulla sicurezza nazionale indirizzato al Congresso nel marzo 2006 riprende puntualmente i temi essenziali del 2002: «Il contesto di sicurezza che gli Stati Uniti debbono affrontare è radicalmente diverso da quello che abbiamo affrontato in passato. Tuttavia, il primo dovere del governo degli Stati Uniti resta quello che è sempre stato: proteggere il popolo e gli interessi americani. È perdurante principio americano ritenere che questo dovere obbliga il governo ad anticipare e contrastare le minacce utilizzando tutte le componenti della potenza nazionale, prima che le minacce possano causare gravi danni. Quanto più grave è la minaccia tanto maggiori sono i rischi dell’inazione e quindi più stringente la motivazione ad agire anticipatamente per difenderci, anche se restano dubbi sul tempo e sul luogo dell’attacco nemico. Poche minacce sono più gravi di un attacco terroristico condotto con armi di distruzione di massa. Per fermare o prevenire atti ostili di questo tipo da parte di nostri avversari, gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente per esercitare il proprio inalienabile diritto all’autodifesa. Non in tutti i casi gli Stati Uniti ricorreranno alla forza per prevenire minacce emergenti. La nostra preferenza va al successo di azioni non militari. E nessun paese dovrebbe mai usare la prevenzione come pretesto per l’aggressione. Contrastare la proliferazione di armi di distruzione di massa postula un’ampia strategia che comprende maggiori sforzi per negare questi strumenti di terrore e le connesse conoscenze tecniche a coloro che li ricercano; sforzi proattivi per difendere e rendere innocue le armi di distruzioni di massa e le minacce missilistiche prima che siano lanciate; una maggior protezione per ridurre le conseguenze dell’uso di queste armi. Ci prefiggiamo di convincere i nostri avversari che non possono conseguire i loro scopi con le armi di distruzione di massa, e quindi di usare nei loro confronti la deterrenza e la dissuasione per impedire loro di cercare di usare o anche soltanto di acquisire questo tipo di armi».9

Sia il documento del 2002 sia quello di quest’anno si soffermano anche lungamente sulla necessità di difendere e diffondere i valori universali della libertà e della democrazia, perseguiti in modo pragmatico. L’aspetto più significativo è però quello della prevenzione militare delle minacce asimmetriche. È evidente la connessione con il documento del 1992 che si è ricordato sopra: la posizione allora elaborata non riuscì a giungere allo stato di dichiarata politica degli Stati Uniti. Il fatto che, dopo dieci anni, i sostenitori dell’unilateralismo e della guerra di difesa preventiva siano divenuti gli artefici della politica internazionale degli Stati Uniti disponendo, per giunta, di un consenso massiccio, non impedisce che le loro tesi continuino ad essere prevalentemente ideologiche e prescindano quasi del tutto da un’analisi approfondita degli interessi degli Stati Uniti.

In buona sostanza, il nuovo gruppo dirigente continuava ad usare le logiche più intransigenti impiegate dalle Amministrazioni repubblicane nei confronti dell’Unione Sovietica, applicandole a ogni altro paese che apparisse nemico degli Stati Uniti, anche se ormai le minacce potevano essere soltanto asimmetriche. E ciò faceva dell’Iraq il primo obiettivo della strategia dei neoconservatori raccolti intorno a G.W. Bush,10 anche se i sospetti circa il possesso iracheno delle armi di distruzione di massa erano già assai affievoliti.

 

La guerra e il dopoguerra

L’11 settembre era dunque bastato ad acquisire il consenso interno alla nuova strategia. Per attuarla e dar luogo all’invasione dell’Iraq occorreva verificare, e possibilmente manipolare, il contesto internazionale: soltanto così si può spiegare il contraddittorio atteggiamento di aver già scelto una linea d’azione unilaterale e di volervi coinvolgere le Nazioni Unite. Le vicende diplomatiche e i processi decisionali che precedettero l’invasione,11 il rapido svolgimento delle operazioni militari, i deludenti risultati dell’inutile ricerca delle prove della disponibilità irachena di armi di distruzione di massa sono fatti ben noti e non richiedono ulteriori illustrazioni, se non questa considerazione, che già rischia di diventare profetica: «Il risultato finale degli sforzi d’intelligence e di ricerca delle armi di distruzione di massa irachene è stato quello di rafforzare coloro che si sono opposti alla guerra e che da allora hanno criticato o cercato di bloccare lo sforzo condotto dalla coalizione di creare uno Stato nazionale. Questo risultato minaccia anche di diventare uno spettro che perseguiterà ogni futuro sforzo americano ed alleato per affrontare la minaccia di proliferazione, specialmente nel conseguimento dell’appoggio politico interno e internazionale ad un’azione militare o preventiva».12

Ma, dopo il successo raggiunto con perdite limitate, a riprova del carattere prevalentemente ideologico della decisione bellica e della conseguente insufficienza della programmazione politica, i problemi si posero subito in forma acutissima per la coalizione anglo-americana. Gli iracheni, probabilmente in grande maggioranza, non ebbero il tempo di gioire della caduta del tiranno che nella capitale irachena si scatenarono gravissimi saccheggi e disordini che i militari americani non seppero o non vollero fermare, nonostante gli sforzi del primo amministratore civile, il generale Garner.

Il ricordo delle sanzioni e delle connesse sofferenze, i «danni collaterali» provocati dalla lunga pressione militare e dalla breve campagna della primavera del 2003, gli stessi disordini innescati dal disfacimento dello Stato baathista, l’assoluta impotenza degli esuli iracheni sui quali gli Stati Uniti avevano puntato impedirono fin dal primo momento che le truppe della «coalizione dei volenterosi» potessero essere considerate altrimenti che come truppe di occupazione. La stessa rapidità delle operazioni e la grande superiorità tecnologica delle forze anglo-americane non avevano distrutto in maniera sufficiente le forze armate irachene, la cui componente più fedele al vecchio regime cominciò subito a riorganizzarsi come movimento di guerriglia contro l’occupazione, ancora, almeno formalmente, guidato da Saddam Hussein.

Questa tendenza doveva essere rafforzata dalla drastica epurazione delle forze di polizia irachene decisa dal nuovo capo dell’amministrazione civile a Baghdad, l’ambasciatore Bremer, che costrinse a ricostruire completamente ex-novo l’apparato di sicurezza iracheno. Inoltre, Bremer continuò a cercare di governare in forme accentrate, senza riferimenti precisi alle altre zone del paese. Veniva così alla luce un altro limite fondamentale della politica americana, quello di considerare un paese articolato e complesso, caratterizzato da molteplici vincoli confessionali e tribali, come sufficientemente uniforme e in grado di ricevere un unico indirizzo politico.

Non v’è dubbio che ad alimentare la resistenza contro le truppe americane fosse anzitutto la comunità sunnita, tradizionalmente dominante e sulla quale si erano appoggiati tanto la monarchia hashemita quanto il regime baathista ancor prima di Saddam. Ben presto, però, anche la frazione più radicale e filoiraniana degli sciiti prese ad organizzarsi militarmente, dando luogo a intermittenti azioni di guerriglia antiamericane. La comunità curda, invece, poteva considerarsi soddisfatta dell’eliminazione di Saddam e del grado di autonomia di fatto da essa raggiunta: in realtà, è quella che per le complicazioni internazionali che comporta, può in prospettiva rappresentare il pericolo maggiore per gli ambiziosi e velleitari disegni mediorientali dei neoconservatori americani per le sue ormai quasi centenarie aspirazioni ad uno Stato nazionale curdo, promesso dagli occidentali fin dal 1920.

In un momento successivo, a questi elementi di grave instabilità, venne ad aggiungersi la componente estremista islamica straniera della nebulosa di Al Quaeda, uno sviluppo che avrebbe potuto essere previsto abbastanza facilmente. In questo modo, una guerra iniziata all’insegna della distruzione del terrorismo finiva per offrirgli ampie possibilità di sviluppo politico e militare.

Ovviamente, la resistenza armata all’occupazione militare non poteva e non può svolgersi in modi diversi da quelli usuali della guerriglia mediorientale, urbana o non, vale a dire con le imboscate e gli agguati, con i sequestri e gli omicidi singoli o di gruppo, con le esplosioni degli IED (Improvised Explosive Device) e, soprattutto, con gli attentati suicidi. Tutti metodi assolutamente orribili ma che, grazie alla manipolazione semantica di cui si è detto, mettono il terrore solo da una parte.

Queste, con poche varianti, sono le condizioni nelle quali operano gli Stati Uniti in Iraq da tre anni, nell’intento di «costruire una nazione», pagando un prezzo altissimo in termini economici e umani.

C’è francamente da essere incerti tra l’ammirazione e la riprovazione considerando la tenacia con la quale l’Amministrazione Bush persegue la sua politica di nation building in un contesto di occupazione militare.

 

Le prospettive

La risposta a questo dubbio si può trovare soltanto valutando le prospettive di successo di questa operazione. L’Iraq, nel corso del Ventesimo secolo, è gia stato oggetto di un tentativo di nation building da parte della Gran Bretagna, titolare di un mandato della Società delle Nazioni, che nel 1921 aveva affidato la corona dell’Iraq (che non era mai esistita) all’emiro Feisal, della dinastia hashemita, nell’intento di accelerare il processo di formazione di uno Stato iracheno e di ridurre i costi del mandato. Il governo fu affidato alla comunità sunnita chiamata a governare con l’aiuto dei bombardamenti della RAF sulle zone periferiche del paese.

Il contesto sociale generale era quello tipico di società ancora sostanzialmente feudali, con appartenenze e lealtà fondati sull’organizzazione tribale e sulla religione, largamente prevalenti sui movimenti e partiti politici. La comprensione di questo processo è fondamentale per valutare correttamente l’attuale situazione irachena, dal momento che anche gli sforzi compiuti dopo il 1960 ad opera delle dittatura baathista rientrano nella valutazione che è stata fornita in tempi non sospetti sul processo di formazione di un’identità nazionale irachena nel trentennio monarchico: «il trapianto in Mesopotamia di un concetto straniero di nazione, la ridefinizione dello stesso concetto in termini di risentimento nei confronti di chi lo ha introdotto, e l’ulteriore risentimento che in questo caso nasce all’interno del paese e si rivolge contro il governo».13

Che la situazione non sia sostanzialmente mutata risulta non solo dalle attuali lacerazioni interne all’Iraq che, probabilmente, sono più drammatiche del periodo immediatamente successivo alla guerra, se non altro perché più difficilmente decifrabili. In ogni caso, il dibattito ora in corso negli Stati Uniti tra l’Amministrazione ed i suoi critici se in Iraq si stia svolgendo o no una guerra civile non è solo nominalistico, ma grottesco, quale sia la definizione che si voglia dare della guerra civile.

In questo contesto devono essere valutate anche le ammirevoli prove di volontà partecipativa fornite dagli iracheni nelle occasioni in cui sono stati chiamati ad eleggere un’Assemblea costituente, ad approvare la Costituzione da questa elaborata e, infine, ad eleggere un parlamento che dovrebbe esprimere un nuovo e non più provvisorio governo. Ma, a parte ogni discorso sulla diversità dei livelli di partecipazione elettorale delle tre maggiori comunità, non v’è dubbio che la molla principale sia stata quella identitaria e che il voto espresso rispecchi non tanto le convinzioni politiche degli elettori sul futuro del paese ma la percezione degli interessi della propria comunità.

È intuitivo che la risposta più lineare a questi problemi sia l’istituzione di uno Stato federale nel quale le comunità maggiori possano pacificamente convivere, contemperando i propri interessi anche in relazione alla rendita petrolifera. Si tratta della strada che è già stata imboccata nella nuova Costituzione ma che è decisamente ardua, se non addirittura impossibile da percorrere. Scontata l’accettazione da parte dei curdi come tappa intermedia verso la costituzione di uno Stato nazionale unitario, la comunità sunnita potrebbe accettarla soltanto se in qualche misura rispettasse la propria tradizionale egemonia. Per quanto riguarda gli sciiti la federazione aggraverebbe le loro divisioni interne in relazione al contraddittorio rapporto con l’Iran: gli sciiti furono fedeli all’identità nazionale nei durissimi otto anni di guerra contro i correligionari iraniani, e violentemente ribelli tre anni dopo nella disperata insurrezione fomentata dall’Amministrazione di Bush senior. Non per nulla, gli Stati Uniti hanno di recente promosso contatti a questo fine con il «Grande Satana» iraniano, come si potrebbe dire rovesciando una celebre formula dell’ayatollah Khomeini.

Può anche darsi che, nel lungo periodo, il progetto federale possa funzionare. Oggi è certo che progressi in questa direzione potranno registrarsi soltanto in condizioni di ordine pubblico completamente diverse da quelle attuali e, soprattutto, in assenza della forza di occupazione della «coalizione dei volenterosi». A dispetto di ogni retorica, la strada della democrazia può essere percorsa soltanto dall’interno: la comunità internazionale nel suo complesso – e quindi, oggi, piaccia o non piaccia, le Nazioni Unite – non può che fungere da garante di questi processi, nelle forme meno invasive possibili. Ma anche questa è una soluzione estremamente difficile: tra le vittime dell’ideologismo neoconservatore, delle formule sulla «guerra al terrorismo» e sulle minacce asimmetriche derivanti dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa, la più cospicua è stata di sicuro l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

In ogni caso, sarebbe necessaria una svolta radicale nella strategia americana, della quale non c’è traccia, nonostante il terzo anniversario dell’invasione abbia visto negli Stati Uniti un drastico calo dell’appoggio all’operazione irachena e alla stessa presidenza repubblicana. Il documento del marzo 2006 sulla strategia per la sicurezza nazionale non mostra alcun ripensamento e la sola novità è rappresentata dalla enfatizzazione del disegno di diffusione della democrazia in Medio Oriente, del quale si sottolineano i risultati gia raggiunti che sono del tutto superficiali (che l’opposizione a Mubarak in Egitto abbia ottenuto una maggiore rappresentanza in Parlamento non sembra un trionfo della democrazia) o contraddittori (che un’organizzazione definita come terroristica qual è Hamas nella considerazione ufficiale non solo americana abbia prevalso in elezioni regolari in Palestina è un problema che dovrebbe essere spiegato).

In realtà, i neoconservatori che guidano la politica internazionale degli Stati Uniti intendono perseguire la politica decisa di prevenzione contro le minacce asimmetriche derivanti dalla proliferazione di armi di distruzione di massa. Basta a confermarlo il racconto semiserio della visita di Garner, fatta al presidente al termine del suo mandato in Iraq, insieme con Rumsfeld: «La conversazione durò quarantacinque minuti, e alla seconda parte del colloquio parteciparono Rice e Cheney; il presidente non approfittò dell’occasione per chiedere a Garner come andassero veramente le cose in Iraq, per sapere quali problemi si prospettassero per le prossime settimane o i prossimi mesi. Quando Garner era tornato dall’Iraq settentrionale nel 1991, dopo l’operazione «Provide Comfort» aveva risposto a domande per quattro o cinque giorni. Questa volta nessuno – né Bush, Cheney o Rumsfeld, né la Rice – mostrava alcun interesse per quello che aveva da dire. «Vuole occuparsi dell’Iran la prossima volta?» scherzò il presidente alla fine della riunione.«No, signore, io e i miei ragazzi ci riserviamo per Cuba». Bush rise e promise Cuba a Garner e ai suoi ragazzi.14

Il carattere chiaramente scherzoso della conversazione impedisce di considerare quello enunciato da Bush un vero e proprio programma di politica internazionale. L’episodio è tuttavia indicativo delle conseguenze psicologiche che si verificano quando un gruppo dirigente dalle incrollabili condizioni ideologiche diventa prigioniero della propria propaganda, tanto più se questa è viziata logicamente da formule del tipo della «guerra al terrorismo».

A questo punto è possibile rispondere con relativa certezza al quesito che ci siamo posti circa le possibilità di successo della attuale politica irachena e mediorientale degli Stati Uniti. E lo si può fare riprendendo le parole di un arabo americano esperto di politica internazionale, che sono interamente da condividere: «Ciò che è più difficile da accettare per chi abbia una qualche reale conoscenza della regione è l’evidente rifiuto dei dirigenti di Washington di accettare il fatto che in questa vasta regione del mondo gli Stati Uniti, consapevolmente o inconsapevolmente, stanno ricalcando i passi di precedenti potenze imperiali. E questo non può in nessun caso essere considerato un bene e non può mai essere “ben fatto”».15

Probabilmente, se fosse in vita, anche Roosevelt sottoscriverebbe questo giudizio, che ha contribuito anche alla scelta del titolo di questo articolo. La metafora del «vespaio» è ormai inusitata ed appartiene a un lessico superato. La si è ripresa ricordando la lunga battaglia condotta agli inizi del Ventesimo secolo da un grande socialista francese, Jean Jaurès, contro il «vespaio marocchino», il tentativo della Terza Repubblica francese di stabilire il proprio dominio coloniale sul Marocco. Un tentativo onerosissimo, mai completamente riuscito e, comunque, effimero. In fondo, che si voglia esportare la civiltà ovvero la democrazia (o anche, addirittura, il socialismo) non fa poi una grande differenza.

 

 

Note 

1 Si veda a questo proposito la prefazione al recentissimo libro dell’esperto analista politico conservatore Kevin Phillips, American Theocracy. The Peril and Politics of Radical Religion, Oil, and Borrowed Money in the 21st Century, Viking, New York 2006, pp. 8-16.

2 Sulla guerra irano-irachena e sulle sofferenze che essa inflisse ai due popoli si veda il monumentale lavoro di un giornalista britannico, per decenni corrispondente del giornale «The Independent» dal Medio Oriente. Cfr. R. Fisk, The Great War for Civilisation. The Conquest of the Middle East, Fourth Estate, New York 2005, pp. 139-293.

3 Già nel 1975, nel quadro dell’appoggio allo scià di Persia, Nixon e Kissinger avevano favorito la repressione dei curdi iraniani, con «(…) una delle più vergognose azioni compiute in segreto dalla Casa Bianca». Cfr. T. Szluc, The Illusion of Peace. Foreign Policy in the Nixon Years, Viking, New York 1978, pp. 582-583.

4 Per tutti questi sviluppi tanto sul terreno quanto a Washington si veda l’informatissima ed equilibrata ricostruzione di un esperto analista della politica americana nel Golfo Persico, sostenitore democratico della linea dura nei confronti di Saddam Hussein. Cfr. K. M. Pollack, The Threatening Storm. The Case for Invading Irak, Random House, New York 2002. Si tratta quindi di un lavoro successivo all’11 settembre 2001, che affronta anche le problematiche che più a lungo termine avrebbero potuto insorgere dopo un’invasione, rivelatesi peraltro assai più difficili anche di questa pur accurata previsione.

5 Clinton non poté opporre il veto a questa iniziativa, impegnato com’era ad evitare l’impeachment per il caso Lewinsky. Per tutti questi sviluppi si veda G. Packer, The Assassins’ Gate. America in Iraq, Farrar, Straus and Giroux, New York 2005, pp. 13-32. Anche Packer, giornalista del «New Yorker»,  era stato un sostenitore democratico della linea dura nei confronti dell’Iraq.

6 Il gruppo che, formalmente o informalmente, lavorò alla campagna elettorale di Bush jr si dette scherzosamente il nome di Vulcans, con riferimento ad una grande statua di Vulcano eretta in onore delle industrie siderurgiche della zona a Birmingham, Alabama, città natale di Condoleezza Rice. Sulla formazione e le esperienze comuni di questi esponenti politici nonché sulle loro idee risolutamente nazionalistiche e conservatrici, nelle quali confluivano le posizioni più intransigenti del periodo della guerra fredda e la consapevolezza dello strapotere americano nella fase successiva, si veda la sorta di biografia collettiva di J. Mann, Rise of the Vulcans. The History of Bush’s War Cabinet, Viking, New York 2004.

7 La testimonianza è del segretario al tesoro Paul O’Neil che doveva ben presto lasciare l’Amministrazione. Cfr. R. Suskind, The Price of Loyalty. George W. Bush, the White House and the Education of Paul O’Neil, Simon and Schuster, New York 2004, pp. 35-36.

8 Si veda in proposito R. A. Clarke, Against All Enemies. Inside America’s War on Terror, Free Press, New York 2004. Già all’indomani della distruzione delle Torri Gemelle e degli altri tragici fatti dell’11 settembre 2001, secondo la testimonianza di Clarke, il presidente gli chiese di controllare ogni cosa e di vedere «se Saddam ha fatto questo». Da altri elementi Clarke, che era stato nominato da Clinton coordinatore delle attività antiterrorismo e che Bush aveva confermato, trasse la convinzione «quasi provando un acuto dolore fisico, che Rumsfeld e Wolfowitz si apprestavano a trarre vantaggio da questa tragedia nazionale per portare avanti il loro programma sull’Iraq», pp. 30-33.

9 Cfr. The National Security Strategy of the United States of America, marzo 2006, p. 18.

10 Vale la pena di riportare il giudizio di Packer (op. cit., p. 38) sul gruppo neoconservatore: «Molti di questi funzionari avevano lavorato in posizioni intermedie sotto Reagan, condividendone l’idealismo aggressivo. La caduta del comunismo e l’assunzione da parte degli Stati Uniti del ruolo di unica superpotenza mondiale aveva dato loro un senso di vittoria storica. Avevano passato gli anni Novanta osservando la prima Amministrazione Bush tornare a un realismo limitato e l’Amministrazione Clinton passare di crisi in crisi, dissipando il trionfo di Reagan. Avevano compiuto la loro lunga marcia nei think tanks e nelle riviste politiche, affilando le loro idee e perfezionando i loro attacchi. Adesso tornavano al potere, disprezzando le burocrazie arroccate, i moderati più cauti del loro stesso partito (compreso il nuovo segretario di Stato Colin Powell) e i democratici stanchi e sconfitti. Avevano un’enorme fiducia in se stessi: tutto quello di cui avevano bisogno era una missione.»

11 La recentissima conferma proveniente da fonti britanniche che Bush e Blair avevano già concordato l’invasione alla fine del gennaio 2003 (cfr. «The New York Times» del 27 marzo 2006) si aggiunge alle ampie e non smentite ricostruzioni del processo che condusse alla guerra fatte da due «mostri sacri» del giornalismo americano Cfr. B. Woodward, Plan of Attack, Simon and Schuster, New York 2004 e S. Hersh, Catena di comando. Dall’11 settembre allo scandalo di Abu Ghraib, (tr. it.), Rizzoli, Milano 2004.

12 Si veda l’esauriente lavoro di uno dei maggiori esperti militari della regione del Golfo, A. H. Cordesman, The Iraq War. Strategy, Tactics, and Military Lessons, Westport, Londra 2003. In particolare per lo svolgimento delle operazioni militari le pp. 47-157 e per la questioni delle armi di distruzione di massa pp. 407-447. Per il giudizio sul metodo errato di affrontare il reale problema della proliferazione delle armi di distruzione di massa cfr. ivi, pp. 455-456.

13 Cfr. L. Lukitz, Irak. The Search for National Identity, Frank Cass, London 1995, p. 153.

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