L'Iraq oggi: tentativi di ricostruzione e crescente incertezza

Di Samy Femia Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Nel giorno in cui questo articolo viene scritto da Bagdad, o per essere più precisi dall’interno delle mura di fortificazione della «zone verde», il nuovo parlamento iracheno sta per essere convocato. Si tratta della prima assemblea eletta costituzionalmente e per un intero mandato di quattro anni. Ma la sessione sarà priva di lavori sostanziali. Non vi sarà l’elezione del presidente della camera, non verrà annunciata la nomina del presidente della Repubblica, non vi sarà accordo sul primo ministro incaricato, né sulla esatta composizione del consiglio dei ministri. Mentre il teatrino della «politica della zona verde» cerca di identificare le regole del gioco, la situazione della sicurezza del paese continua a precipitare vistosamente con un impatto drammatico sulle condizioni di vita dei cittadini.

Nel giorno in cui questo articolo viene scritto da Bagdad, o per essere più precisi dall’interno delle mura di fortificazione della «zone verde», il nuovo parlamento iracheno sta per essere convocato. Si tratta della prima assemblea eletta costituzionalmente e per un intero mandato di quattro anni. Ma la sessione sarà priva di lavori sostanziali. Non vi sarà l’elezione del presidente della camera, non verrà annunciata la nomina del presidente della Repubblica, non vi sarà accordo sul primo ministro incaricato, né sulla esatta composizione del consiglio dei ministri. Mentre il teatrino della «politica della zona verde» cerca di identificare le regole del gioco, la situazione della sicurezza del paese continua a precipitare vistosamente con un impatto drammatico sulle condizioni di vita dei cittadini.

 

Qualità della vita

La retorica politica delle forze di occupazione ci descrive una situazione oggettivamente difficile, ma sotto controllo e in graduale miglioramento. La retorica ci dice che la lotta contro il terrorismo internazionale in Iraq procede senza tregua, che gli insorgenti (guai a chiamarli resistenza) perdono terreno giorno dopo giorno, che gli integralisti islamici non riusciranno a ostacolare il cammino inesorabile della democrazia e della libertà. Tale retorica ha una sua consistenza politica e ideologica, promuove una visone del mondo e delle sue forze dialettiche che non possono che trovare smentita o deformazione a seconda dell’angolo di prospettiva. Questo vale tanto per il de-briefing del segretario alla difesa Rumsfeld che per i video dei sedicenti gruppi islamici armati. La prospettiva che si articola dalle grandi capitali del mondo e tra i cunicoli di Sadr City – il sovraffollato e più povero quartiere sciita della capitale irachena – tende a offuscare la realtà quotidiana del cittadino iracheno medio. Una parte relativamente grande dell’Iraq oggi vive in condizioni di anarchia generalizzata in cui non esiste uno Stato di diritto e uno spazio di tutela del cittadino. Nonostante centinaia di milioni di dollari di aiuti alla ricostruzione, l’accesso ai servizi e l’assistenza sociale di base – come gli ospedali, gli ambulatori, l’acqua potabile, l’energia elettrica, il gasolio per uso domestico, il sistema giudiziario – sono diminuiti vertiginosamente dal maggio del 2003. Oggi un abitante di Bagdad riceve una media di tre ore di elettricità al giorno senza sapere quando, beve acqua normalmente contaminata, assiste al graduale deterioramento dell’igiene pubblica nel proprio quartiere per via della mancanza di un sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, è costretto ad attingere ai propri risparmi o a vendere le sue proprietà per curarsi o per emigrare verso un paese amico. Ma soprattutto, vive nella paura per la propria incolumità e quella della propria famiglia. Il numero di sequestri a scopo di estorsione sfiora i 200 al giorno. Gli attentati e gli omicidi politici si registrano tutti i giorni a danno di esponenti di partiti e comunità religiose. I crimini per vendetta e regolamenti di conti che vengono riportati (quindi solo quando un corpo raggiunge un os pedale o una camera mortuaria) superano ormai la media di 50 al giorno nella sola capitale. Il cittadino medio ha paura di denunciare un crimine, ha paura di avvicinare un ufficiale di polizia nella strada, poiché spesso sono proprio gli ufficiali di polizia e delle forze dell’esercito a commettere i crimini più odiosi. Fare la fila per ritirare un salario, acquistare cibo al mercato, accedere ad un centro di reclutamento della polizia, sono ormai considerate attività ad altissimo rischio. Nel frattempo, in mancanza di una politica dei prezzi e di mercato, il costo della vita e l’inflazione sono saliti di più del 30%, di fronte ad un blocco totale dei salari e ad un tasso di disoccupazione della popolazione attiva di quasi il 35%. Il continuo deterioramento delle condizioni di vita, in confronto allo «spettacolo» della politica dei partiti, delle fazioni e delle milizie, ha creato in questi ultimi mesi un distacco profondo tra le ragioni della politica e le esigenze di base di un cittadino medio. Anche davanti al grande entusiasmo e alla inaspettata partecipazione di massa alle elezioni di questo ultimo anno, cresce tra la gente un forte senso di demoralizzazione e paura.

 

Guerra civile?

Il nuovo governo si troverà a dover fronteggiare una situazione economica, oltre che politica, estremamente difficile. Gli aiuti bilaterali degli americani non sono fino ad ora riusciti a riattivare la produzione di greggio fino agli obiettivi previsti di 2,5 milioni di barili al giorno per esportazione. Al contrario, abbiamo assistito al declino della produzione giornaliera dovuto agli attacchi di gruppi armati agli oleodotti e al deterioramento delle infrastrutture. A ciò si aggiunge la mancanza di una chiara strategia governativa per lo sfruttamento delle risorse di gas e per una rete di distribuzione adeguata, e una politica dei sussidi che distorce il mercato e il sistema degli incentivi. Allo stesso tempo, il sistema legale è praticamente paralizzato e quindi incapace di regolare le transazioni economiche e finanziare al fine di poter attirare un flusso sufficiente di FDI (Foreign direct investment). Anche il contesto istituzionale resta ancora da definire. La nuova costituzione assegna la proprietà delle risorse naturali al «popolo iracheno» e affida la responsabilità dello sfruttamento delle risorse esistenti e future (vaste aree con alto potenziale non ancora esplorate) sia al governo federale che a quello provinciale (le attuali 18 province). Tuttavia, così come nel caso più generale della distribuzione di competenze e responsabilità tra centro e province in un modello di federalismo fiscale, le competenze specifiche non vengono definite, lasciando ampio spazio ad un lungo periodo di political bargaining. Il controllo delle risorse avrà chiaramente un impatto politico fondamentale nella formazione (o meno) di un Iraq federale ma unito, o di un potenziale sgretolamento istituzionale in regioni autonome ma di fatto indipendenti sotto la temuta influenza di diversi «potentati» stranieri. Ecco quindi delinearsi uno scenario cosiddetto allo «libanese» che durante il periodo 1975-2000 si trasformò in una forma di guerra civile a geometria variabile, cioè un scontro dalle dinamiche e alleanze fluide con il supporto di potenze straniere focalizzate su grandi interessi geopolitici regionali.

Sono in moltissimi in questi giorni a chiedersi se si possa già parlare di guerra civile in Iraq. Tutto a questo punto dipende dai canoni che si vogliono utilizzare per definire «guerra civile» Le mie personalissime impressioni, che si nutrono dei miei limitati spostamenti in Iraq e del contatto quotidiano nella capitale con un gran numero di amici e colleghi iracheni, soprattutto nel periodo successivo all’attacco al mausoleo sciita dell’Imam Ali a Samarra, mi portano a fare alcune considerazioni.

Mentre l’interesse politico delle forze di occupazione porta con sé il rifiuto fisiologico di definire l’attuale status quo come un guerra civile di fatto, gli iracheni vivono ormai in una condizione di assoluta insicurezza, troppo spesso legata alla loro origine o alla loro appartenenza confessionale. Per esempio, ci sono stati grandi movimenti di popolazione tra quartieri di Bagdad una volta misti, i matrimoni misti (prima praticamente la norma soprattutto nei centri urbani) sono in vistoso declino, mentre non mancano i casi in cui vecchi colleghi di lavoro (ne abbiamo osservato qualche caso all’interno delle amministrazioni pubbliche e in alcuni giornali) ormai preferiscono lavorare solo accanto a colleghi della propria confessione. A questo si aggiunge il pessimo esempio di «lottizzazione» dei ministeri, troppo spesso seguito da vere e proprie campagne di «epurazione» da parte della nuova leadership attraverso cui molte competenze interne ai ministeri sono state allontanate per dare spazio a gente «di fiducia» del ministro, spesso membri della propria famiglia o del proprio clan (è evidente il caso del ministro per la società civile, ex responsabile della sicurezza dello sciita Muqtada al Sadr, che ha nominato la moglie some suo deputy). Per un paese come l’Iraq, che per diversi anni ha vantato un grande e sofisticato sistema di pubblica amministrazione, una tale situazione ha un impatto quasi devastante sulla capacità reale dell’attuale amministrazione di gestire sia il proprio bilancio che gli aiuti dei paesi donatori e fornire servizi essenziali alla popolazione. Questo processo di lottizzazione acquisisce forme ancora più gravi nel caso dei ministeri della difesa, dell’interno e della giustizia. È ormai noto come il ministero dell’interno controllato dallo sciita Jabr, in teoria ex capo delle milizie Badr, sia dietro molti dei casi di violenza, torture e omicidi portati a termine da gruppi paramilitari controllati dal ministero.

Secondo, la dinamica degli attentati è ormai cambiata. Mentre si registrano ancora attacchi mirati alle forze multinazionali di occupazione, il numero di attacchi contro la popolazione civile in quartieri a specifica appartenenza religiosa, e il numero di sequestri e di omicidi a chiaro scopo di vendetta indicano un cambiamento tattico dei gruppi armati, sia sciiti che sunniti, verso due obiettivi congiunti: il primo, quello di una ingovernabilità totale e quindi anche di un lento ma constante logoramento dell’opinione pubblica dei paese occidentali; il secondo, quello del ricorso alla violenza legata al calcolo politico e al gioco di forza tra le attuali parti.

Tale situazione ci porta da una terza considerazione, che diviene di fatto condizione necessaria (anche se non sufficiente) per la trasformazione di un conflitto cosiddetto a bassa intensità verso una forma di guerra civile: la polizia e l’esercito non hanno praticamente alcun controllo del territorio, quindi lo Stato, inteso come istituzione unitaria (e non si tratta del caso dell’Iraq di oggi) non detiene il legittimo uso della forza. La forza nell’Iraq di oggi è detenuta ed è esercitata dalle milizie, siano esse curde (come nel caso dei pashmerga), sunnite o sciite (ad esempio la milizia al Mahdi di Muqtda al Sadr). Anche le stesse forze di polizia sono ormai ritenute compromesse da un’infiltrazione ramificata di al Qaida e di «manovali» delle singole milizie. Ogni settimana all’obitorio centrale di Bagdad vengono «registrati» circa mille cadaveri, la maggior parte dei quali presentano segni evidenti di tortura e violenza prima dell’esecuzione. Questo senza considerare tutti quei casi di omicidio che non vengono riportati ufficialmente e che quindi sfuggono al macabro conto delle stime ufficiali.

L’insieme di questi fattori e considerazioni ci portano a definire l’attuale situazione come uno stato di guerra civile latente. Questo non vuol dire che si sia passato definitivamente il Rubicone e che non vi siano più possibilità di «ritorno». Bisogna anche dire che le comunità religiose, anche grazie alle autorevolissime esortazioni di figure come il grande ayatollah Sistani, hanno dato prova di grande autocontrollo e che nell’insieme la popolazione non è caduta nella trappola del settarismo. Questa affermazione può apparire in contraddizione con quanto detto finora. Tuttavia, se si affronta il discorso sulle stato di guerra civile in Iraq con un approccio a «geometria variabile» e sotto diversi livelli, ci si accorge che «la guerra civile latente» è tale proprio perché anche in questa occasione rimane confinata alle «elites», in questo caso i vari gruppi armati, le milizie, i gruppi paramilitari e le associazione a stampo «mafioso», cioè gruppi armati di criminali che si nutrono dello stato di anarchia generalizzata che regna almeno in alcune parti del paese. Quando si studiano i dati sul numero e la natura degli attacchi giornalieri, bisogna poi tenere in considerazione il fattore di distribuzione della popolazione sul territorio. La mappa dell’Iraq di oggi ci delinea zone sociologicamente omogenee – come ad esempio il Kurdistan e almeno sei delle province del Sud – in cui esistono collageni sociali dettati dall’appartenenza allo stessa struttura tribale ed etnica, in clan esteso in molti casi, o alla comune affiliazione religiosa. Ad esempio, i curdi sono a maggioranza sunnita, ma il fattore affiliativo primario, nel senso dell’identificazione, di imagined commnuities (per dirla alla Anderson) è l’origine curda piuttosto che l’appartenenza religiosa. Nel Sud, al contrario, esistono comunità diverse di origine araba, persiana e appartenenti a clan diversi. Tuttavia, il fattore unificante rimane l’appartenenza alla comunità sciita, che rappresenta in linea di massima il 60% della popolazione totale dell’Iraq, ma quasi il 95% delle sei province del Sud prese in considerazione. Ciò non si traduce automaticamente in una situazione politica priva di conflitti e di tensioni nel Sud del paese, dato che i fattori di divisione vergono su questioni legate al ruolo dello Stato, al controllo delle risorse (alcune province sono ricche di petrolio, altre invece prive di risorse naturali), all’influenza dell’Iran e quindi ad una «questione identitaria» che si scontra con l’identità araba piuttosto che prettamente sciita del Sud del paese.

 

The way forward

Scrivo questo non per confondere le idee al lettore, ma semplicemente per spezzare il catenaccio dei miti e delle interpretazioni semplicistiche che vengono riprodotte dai media e dalla «comunicazione » delle forze multinazionali e che vorrebbero l’Iraq semplicemente in balia di una grande lotta tra sciiti, sunniti e curdi.

Dunque, cosa potrebbe arrestare questa vertiginosa caduta verso un intensificarsi della latente forma di guerra civile attualmente in corso? L’attuale formazione del nuovo governo sembra per adesso aver raggiunto uno stallo apparente. Il primo ministro uscente Jaafari è il candidato designato dalla coalizione sciita, che gode di maggioranza quasi assoluta nel nuovo parlamento, ma non dei due terzi necessari e prescritti dalla Costituzione per affrontare il cammino delle riforme. Chiunque sia il prossimo primo ministro, una delle questioni più problematiche per intraprendere un cammino di riconciliazione nazionale rimane la mancanza di una vera figura politica nazionale, cioè di un personaggio che non venga identificato con interessi di parte, settari o identitari. Tale situazione è aggravata dal fatto che la grande maggioranza delle attuali elite politiche sono, per utilizzare un’espressione adottata spesso da amici iracheni, «d’importazione», esuli rientrati in patria con mire di potere e spesso considerati portatori di interessi di vari «sponsor stranieri». Non mancano gli esempi nell’attuale governo ad interim e nella nuova assemblea di ministri e deputati con cittadinanza inglese, svedese, canadese e americana. Sono in moltissimi tra la popolazione ad avvertire un forte distacco con l’attuale elite politica nazionale. Questo non fa altro che rafforzare coloro che sono rimasti più radicati sul territorio, magari anche a livello locale, ma che gradualmente assumono una rilevanza politica nazionale, come nel caso dell’Iman sciita Muqtada al Sadr, il quale, da ricercato numero uno degli americani poco più di un anno fa, si ritrova oggi a giocare il ruolo di cosiddetto «king maker», come dimostra il caso di Jaafari, nominato come aspirante primo ministro proprio grazie al voto determinante di al Sadr.

Detto ciò, rimane il fatto che in queste ore i vari gruppi siano immersi in frenetiche negoziazioni per definire la composizione del nuovo governo. Le Nazioni Unite e la comunità internazionale hanno spesso esortato la classe politica a lavorare verso la formazione di un governo di unità nazionale che rappresenti tutte le forze politiche. Il problema tuttavia non è tanto nella rappresentazione più o meno proporzionale dei vari gruppi, ma piuttosto nella «visione politica» del governo che si esprime attraverso la figura del primo ministro e l’assegnazione di specifici dicasteri. Ad esempio, i gruppi sunniti insistono nel riprendere il controllo del ministero degli interni e della giustizia per ovvi motivi di sicurezza.

A prescindere da chi guiderà il nuovo governo, vi sono delle questioni che andranno affrontate con urgenza: la sicurezza, attraverso la formazione di un esercito e di una forza di polizia professionale e il disarmo delle milizie; il modello di federalismo da adottare, con la definizione di ruoli esclusivi delle province e del governo centrale; il modello di management e di distribuzione delle risorse naturali; la questione di Kirkuk, che rimane per adesso una potenziale polveriera che potrebbe far esplodere un conflitto armato tra i curdi e le comunità arabe e turcomanne, per non parlare dell’ostilità della Turchia; le riforme economiche, come nel caso del PDS (Public distribution system), cioè la distribuzione gratuita di un paniere di beni di consumo alimentare (sistema Oil for Food) distribuito a tutta la popolazione ma sulla quale dipendono per la sopravvivenza quotidiana almeno il 20% della popolazione; un calendario per la ritirata delle forze multinazionali concordato con tutte le parti politiche e approvato anche dal parlamento; un accordo politico con i governi regionali, indispensabile per raggiungere stabilità politica nel paese e predisporre un pacchetto di riforme politiche ed economiche (l’influenza dell’Iran nell’Iraq di oggi tocca ormai tutti gli aspetti della sicurezza e sovranità nazionale); la cancellazione del debito e delle riparazioni (Kuwait e Arabia Saudita); l’instaurazione di un sistema giudiziario basato sul diritto e la trasparenza; il ripristino dei servirsi di assistenza di base alla popolazione (ospedali, scuole, elettricità, acqua potabile, sistema fognario, ecc).

Queste sono solo alcune delle problematiche che dovranno essere affrontate con urgenza dal nuovo governo. Tutto ciò richiederà uno sforzo ciclopico e il coraggio di fare politica al di là del proprio interesse particolare. Basti ricordare che il 60% della popolazione irachena ha meno di trent’anni per capire come diverse generazioni di giovani siano cresciute con modelli di riferimento civici, politici e sociali dominati dalla violenza, dall’intimidazione, dalla paura e dal sospetto e come sia quindi naturale il ricorso alla famiglia, al clan e alla moschea per trovare una minima forma di protezione e rifugio, piuttosto che il ricorso alle istituzioni dello Stato. Per non parlare poi della macabra conta del cosiddetto collateral damage, cioè di 40.000 civili iracheni morti come conseguenza diretta di tre anni di guerra e occupazione militare. La democrazia e la cultura democratica non si esportano con le bombe, ma si sostengono e si incoraggiano con la giustizia. La democrazia non può essere imposta sulla base di modelli prettamente occidentali, senza tener conto di culture, tradizioni e abitudini locali. La democrazia non si costruisce solo attraverso il rispetto di un forzato calendario politico ed elettorale. E soprattutto, la democrazia non si costruisce con l’illegalità, il rifiuto ideologico di accettare le norme del diritto internazionale, l’impunità e l’abuso dei diritti dell’uomo. L’Iraq che vedo oggi, tutti i giorni, non è solo il prodotto di una perversa maturazione decennale legata all’autoritarismo di Saddam. L’Iraq di oggi è purtroppo anche il riflesso di una gravissima decadenza delle politiche del mondo ricco e occidentale. Quanto a l’Italia, preferisco non pronunciarmi. Ci terrei tuttavia a precisare che, al contrario di quanto più volte affermato dal governo, le forze italiane non sono in missione di pace, non fanno parte di una missione di pace sancita dal Consiglio di sicurezza dell’ONU come tale, ma sono invece pedine di una più grande operazione politico-militare delle forze multinazionali di occupazione. Mi limito a sottolineare che la politica estera di una media potenza non si costruisce sulla base di abbracci e «foto di famiglia» nelle residenze estive dei potenti della terra. 

Altre Informazioni

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  • Articolo Generico - Testata: Medio Oriente

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