La risposta alla domanda del titolo dipende da due ordini di argomenti, dei quali uno solo è oggetto dei frequenti dibattiti che si svolgono su questo tema. Si discute infatti della perdurante utilità (o meno) delle innovazioni contenute in quel testo e dei modi per ottenerne l’approvazione, in particolare delle modifiche, mutilazioni e integrazioni che possono agevolarla negli Stati che l’hanno inizialmente rifiutata o che ancora non vi hanno provveduto. Non si discute invece delle condizioni politiche di cui c’è bisogno per una tale approvazione e quindi del grado di consenso e di omogeneità politica attorno al futuro comune europeo in ciascuno dei nostri paesi; un argomento in più casi sgradevole, che i politici preferiscono ignorare e che né i tecnici né i retori dell’ingegneria costituzionale frequentano quanto servirebbe per far loro percepire le mine che ne vengono sui percorsi da loro disegnati. È dunque essenziale soffermarsi sul primo ordine di argomenti (anche perché alcune delle più radicate resistenze politiche si nascondono dietro di essi), ma è non meno essenziale guardare in faccia anche gli altri.
Da alcuni anni ormai le principali istituzioni economiche internazionali segnalano che il crescente deficit della bilancia dei pagamenti corrente degli Stati Uniti rappresenta il principale e più pericoloso squilibrio dell’economia mondiale. Tale deficit non è di origine recente, è nato all’inizio degli anni Ottanta nel corso della grande ristrutturazione economica avviata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher che ha ridato alle economie anglosassoni, e in particolare a quella statunitense, il ruolo di traino dell’economia mondiale. Da allora esso è diventato strutturale, è persistito anche durante gli anni di Clinton nonostante la politica di rigore fiscale seguita da quella Amministrazione. Se tuttavia si considera la sua evoluzione nel tempo e soprattutto il passaggio dagli anni Novanta al XXI secolo, la storia di quel deficit mostra che il rapporto dell’economia statunitense con quella mondiale è cambiato.
L’Unione economica e monetaria (UEM) è il progetto più importante e coraggioso mai intrapreso nell’Unione europea. Il successo dell’euro non è soltanto cruciale per la salute economica di Eurolandia e dei suoi membri, ma anche per la credibilità dell’UE nella sua totalità. Le economie europee hanno maggiore possibilità di successo in un’economia globale se dotate di un mercato unico, con una moneta unica e mercati dei capitali integrati. Sfortunatamente, è troppo presto per affermare che l’UEM sia un evento positivo. La moneta unica doveva teoricamente unire l’Europa, ma invece rischia di creare intralci a livello economico e di diventare una fonte di divisione a livello politico. Tra gli Stati membri persistono ancora differenze significative e le economie in Eurolandia stanno divergendo in maniera seria e preoccupante. L’euro è indubbiamente, da molti punti di vista, una moneta alla ricerca di un mercato.
Italianieuropei Dopo il rapido processo di consolidamento degli anni Novanta, il sistema bancario italiano sembrava essersi bloccato. Invece, di recente, vi sono state nuove aggregazioni. Che cosa è cambiato?
Marcello Messori Credo che vi siano state almeno due novità di rilievo. Innanzitutto, a metà del 2005 uno dei maggiori gruppi bancari italiani (Unicredit), che già aveva acquisito una posizione di leadership nei mercati dell’Europa dell’Est grazie a lungimiranti acquisizioni di importanti banche in molti di quei paesi e che già vantava una dimensione internazionale nelle attività di asset management, specie grazie all’acquisto di società statunitensi, si è trasformato in uno dei maggiori player bancari europei mediante l’incorporazione del secondo gruppo bancario tedesco per dimensione dell’attivo (cioè HVB). In secondo luogo, a seguito del fallito tentativo di difendere l’italianità di Antonveneta e di BNL a scapito della trasparenza e del corretto funzionamento dei mercati, a metà dicembre 2005 si è dimesso il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Oltre a permettere la ridefinizione della governance della nostra banca centrale, ciò ha portato – dopo molti anni – alla nomina di un governatore (Mario Draghi), che non era un membro del direttorio della banca stessa e che ha posto fine a uno stile molto intrusivo di vigilanza bancaria.
Le politiche industriali dei governi del mondo occidentale sono sempre state condizionate da una fondamentale domanda di sistema. Fidarsi o non fidarsi del libero mercato? Fidarsi o non fidarsi della capacità dell’insieme di cittadini e imprese che costituiscono il mercato, quella immateriale entità composta da tutti coloro che contribuiscono alla produzione e allo scambio di beni e servizi, di regolarsi autonomamente verso la migliore allocazione e il miglior sfruttamento delle risorse al fine di soddisfare al meglio i bisogni economici di tutti, a breve così come a lungo termine?
Nella sua audizione presso le commissioni esteri riunite di camera e senato, il ministro degli esteri Massimo D’Alema, riaffermando l’esigenza di valorizzare la dimensione multilaterale della nostra politica estera, ha annoverato tra i nuovi grandi protagonisti mondiali a livello continentale l’Asia e l’America Latina, e a livello dei singoli paesi con in sé un potenziale «subcontinentale», la Cina, l’India e il Brasile. Inoltre, esprimendo l’opinione che la politica estera italiana, nei cinque anni passati, non abbia operato a sufficienza in questa dimensione globale, ha indicato la necessità di lavorare per allargare gli orizzonti della nostra politica estera e consolidare i rapporti con le aree e i paesi citati, anche come risposta a fondamentali interessi economici italiani. Il presidente del consiglio Romano Prodi ha ribadito lo stesso concetto davanti a oltre duecento imprenditori brasiliani convenuti a Roma, ai quali ha annunciato il suo prossimo viaggio in Brasile.
Provate a domandare ad un campione rappresentativo di italiani se preferiscono un lavoro sicuro ma meno redditizio ad uno meno sicuro ma con prospettive di reddito più interessanti. Provate a domandare agli stessi italiani se eventuali aumenti salariali dovrebbero essere distribuiti in maniera uguale a tutti i dipendenti di una data impresa o se invece dovrebbero essere concentrati sui dipendenti a più elevata produttività. E ancora se, guardando in avanti, immaginano orizzonti piatti o profili di vita dinamici e frontiere che si spostano incessantemente in avanti. E provate a leggere le risposte a queste domande, guardando alla composizione per età del campione.
Un’origine «difensiva» Come sovente avviene, le basi fondative delle aggregazioni di tipo regionale devono essere ricercate in motivi prevalentemente difensivi. Così, in parte, è stato per la Comunità europea, oggi trasformatasi in Unione, nata con l’iniziale obiettivo di realizzare un’area di pace e stabilità in un continente da poco uscito dal conflitto mondiale. E così è stato, circa trent’anni più tardi, per la prima organizzazione comunitaria il cui scopo era riunire i principali paesi dell’Africa australe. Il primo aprile del 1980, a Lusaka (Zambia), nove paesi di questa importante regione dell’Africa (Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe) hanno dato vita alla Southern African Development Co-ordination Conference (SADCC). Tra questi non c’era il Sudafrica (allora e sino al 1994 stretto nella morsa dell’apartheid), un attore geopolitico di fondamentale importanza per minare i deboli equilibri interni di paesi che erano usciti da poco da decenni di più o meno dura colonizzazione.