Il contratto unico a tempo indeterminato

Di Tito Boeri e Pietro Garibaldi Mercoledì 16 Settembre 2009 14:05 Stampa

Una riforma organica del mercato del lavoro do­vrebbe comporsi di tre pilastri: un salario minimo nazionale, un contratto unico a tutele progressive e un sussidio unico di disoccupazione. In questa sede ci concentreremo sul contratto unico, la pro­posta che forse più delle altre ha suscitato dibat­tito. Si ripercorrerà innanzitutto il cammino delle riforme del mercato del lavoro, per poi elencarne i problemi attuali, derivanti da un processo di revi­sione largamente incompleto. Si illustrerà, quindi, il contratto unico a tempo indeterminato e, infine, si cercherà di rispondere alle molte obiezioni e ri­chieste di chiarimento legate alla nostra proposta.

Il cammino interrotto delle riforme1

Le riforme del mercato del lavoro in Italia rappresentano una storia lunga e frammentata, spesso dettata da direttive europee. Ma anche una storia incompiuta. La più innovativa delle riforme del mercato del lavoro realizzate in Italia negli ultimi anni è senza dubbio il cosiddetto Pacchetto Treu, varato nel 1997 dal primo governo Prodi. Ma, in realtà, il primo tassello dello sviluppo del mercato “marginale” del lavoro risale agli anni Ottanta, quando sono stati introdotti il contratto di formazione lavoro e il parttime, rispettivamente nel 1983 e nel 1984. I contratti di formazione lavoro (CFL) rappresentano il primo esempio di occupazione atipica a tempo determinato. Poi, con il Pacchetto Treu di oltre un decennio dopo, anche il lavoro interinale, vietato sino ad allora, e la collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.), una tipologia di lavoro atipico utilizzata poco e regolata male, sono entrate a far parte dell’ordinamento italiano. Quel provvedimento ha, inoltre, allentato i vincoli e il regime sanzionatorio per il lavoro temporaneo e ha rivisto e migliorato i CFL. L’introduzione del lavoro interinale ha offerto alle aziende l’opportunità di chiedere a un’impresa fornitrice, un’agenzia, uno o più lavoratori “in affitto” per un periodo di tempo delimitato. L’azienda che

impiega per un certo periodo di tempo il lavoratore paga all’agenzia il salario, ma anche un onere contributivo del 4% (destinato in teoria alla formazione) e paga un sovrapprezzo per i servizi resi dall’agenzia. Nonostante i suoi costi spesso elevati, il lavoro interinale è letteralmente esploso nelle regioni del Centro e del Nord. Ma è stata soprattutto la migliore codificazione dei co.co.co. a modificare il panorama del lavoro in Italia. Negli anni successivi c’è stato un vero e proprio boom di questa forma di lavoro atipico. In un articolo del 2005, il “padre” della riforma, Tiziano Treu, ne ha ricordato la ratio e ne ha elencato con grande onestà anche i difetti. Nel 1997 il lavoro interinale «era già diffuso, senza regole e spesso in nero», ha precisato l’ex ministro del Lavoro. Il Pacchetto lo ha dunque disciplinato severamente, venendo incontro ai bisogni particolari delle aziende e riconoscendo ai lavoratori «parità di diritti». Gli abusi registrati successivamente, spiegava sempre Treu, «non riguardano tanto la quantità. I numeri dell’interinale sono limitati, ma è il ricorso reiterato a questo strumento che perpetua situazioni di precarietà e che colpisce soprattutto i giovani. È lo stesso abuso che si registra nella reiterazione dei contratti a termine; uno strumento non inventato nel 1997, ma esistente da sempre». Tuttavia gli abusi sono aumentati soprattutto per i co.co.co., ammetteva Treu nello stesso articolo. E il motivo è semplice: «Finché sul lavoro subordinato grava il 33% di contributi sociali e sui co.co.co. il 18%, la tentazione a mascherare il lavoratore dipendente da co.co.co. sarà difficilmente superabile». In effetti, quando la riforma Dini del 1995 relativa alle pensioni ha imposto un contributo previdenziale del 12% ai co.co.co., il mercato si è sentito legittimato a ricorrere a queste forme di contratti, che costavano allora, in termini di oneri pensionistici, un terzo rispetto al lavoro stabile e garantivano flessibilità in entrata e in uscita. Successivamente, i contributi dei co.co.co. sono stati ritoccati all’insù più volte, di recente anche dal governo Prodi, ma continuano a essere più bassi di quelli riconosciuti ai lavoratori stabili. L’ex ministro del Lavoro tocca dunque due nodi problematici dei contratti coordinati e conti - nuativi e dei contratti atipici. Il primo è che quelle forme di impiego, oltre a essere limitate nel tempo e quasi prive di tutele, per il datore di lavoro sono molto allettanti sul versante contributivo. Ovvio che se il co.co.co. “costa” il 18% invece che il 33%, come i lavoratori dipendenti, all’azienda converrà assumere il primo e rinnovargli quel contratto il più a lungo possibile. Il secondo problema è direttamente connesso a questo: con quei contributi e con la reiterazione di quei contratti per anni e anni, le future pensioni di questi lavoratori rischiano concretamente di essere al di sotto del livello di povertà. La legge Treu ha anche esteso al Sud le agevolazioni fiscali del contratto di formazione, portandole a tre anni rispetto ai due previsti sino ad allora, e ha ampliato la sua applicazione a tutti i settori dell’attività economica, compresa l’agricoltura, regolamentando l’apprendistato. Quanto al part-time, è vero che esiste dal 1984, ma nel 2000 è intervenuta una novità importante. Recependo una direttiva europea del 1997, il decreto Salvi ne ha riscritto le regole, rendendolo più appetibile, sia per le imprese sia per i lavoratori. Lo scopo della direttiva era quello di garantire per tutti gli Stati membri l’eliminazione degli ostacoli di natura giuridica o amministrativa che limitassero l’impiego e lo sviluppo del lavoro a tempo parziale e di evitare la discriminazione di questi lavoratori rispetto a quelli a tempo pieno. Il decreto ha, dunque, soppresso alcuni vincoli previsti da vecchie leggi che di fatto rendevano il part-time assolutamente non flessibile, come il tetto posto alle assunzioni a tempo parziale e, soprattutto, il divieto di ricorso al lavoro supplementare e l’impossibilità di cambiare l’orario di lavoro dopo la firma del contratto. Inoltre, il decreto stabiliva che i lavoratori a tempo parziale non dovevano essere discriminati rispetto a quelli a tempo pieno. Il principio del lavoro a termine, sin dal 1962, cioè dalla legge che lo aveva introdotto, era chiaro: doveva essere considerato un’eccezione rispetto al lavoro stabile. Di conseguenza, le deroghe all’occupazione a tempo indeterminato erano minuziosamente elencate. Si poteva far firmare un contratto a termine per un lavoro stagionale o per una sostituzione di assenti o per compiti straordinari ecc. Un primo allargamento del raggio di applicazione di questi contratti è stato concesso nel 1987, quando si è stabilito che i sindacati e i datori di lavoro potevano negoziare, nell’ambito della contrattazione collettiva, nuove deroghe al contratto a termine. Tuttavia restava confermato il principio di fondo: il rapporto di lavoro standard continuava a essere a tempo indeterminato, al di fuori di quelle eccezioni. Qualsiasi violazione di quel principio obbligava il datore di lavoro all’assunzione a tempo indeterminato. Il Pacchetto Treu ha mantenuto intatto il principio sanzionatorio, ma ha consentito un prolungamento tacito del contratto per venti/trenta giorni dopo la sua scadenza. La novità più rilevante relativa al lavoro a termine, dopo il Pacchetto Treu, è quella arrivata nell’autunno del 2001, ancora una volta attraverso il recepimento di una direttiva europea. La nuova normativa ha rovesciato sostanzialmente il principio precedente. Invece di essere obbligati a muoversi nello stretto recinto delle eccezioni previste sino ad allora, i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di giustificare la scadenza di un contratto «a fronte di ragioni di carattere tecnico pro - duttivo, organizzativo o sostitutivo». L’unico limite posto dal legislatore è stato l’obbligo di specificare le ragioni menzionandole per iscritto, al momento della firma del contratto. Il decreto legislativo del 2001 ha cercato quindi di semplificare il sistema basato su una selva sempre più folta di eccezioni alla legge del 1962, ma non l’ha liberalizzato. Del resto, l’idea delle eccezioni è anche il limite della direttiva europea. I contratti a tempo indeterminato, sostiene la direttiva, restano «la forma comune di rapporto di lavoro». Anche nel 2003, con l’approvazione della legge Biagi, quando sono state introdotte ulteriori tipologie di lavoro atipico, il principio è stato una volta di più quello di arricchire il mercato marginale e flessibile, senza affrontare il problema dello scarto enorme e irrisolto tra queste forme d’impiego e il mercato tradizionale degli “ipertutelati”. Con la legge 30/03 è stato introdotto lo staff leasing, ossia la possibilità per le aziende, tramite delle agenzie di lavoro interinale, di chiedere manodopera professionale, a termine o a tempo indeterminato, per coprire determinati servizi o attività. Il lavoratore dipende tuttavia dall’agenzia, quindi per l’azienda che ne ha richiesto il servizio non scatterà mai l’obbligo di assunzione. È stato istituito inoltre il lavoro a chiamata, grazie al quale un’azienda può richiedere un lavoratore in qualsiasi momento per impiegarlo un’ora, due settimane o un mese – insomma un arco di tempo circoscritto – dietro pagamento di un’“indennità di disponibilità” a fronte delle ore effettivamente lavorate. È una delle forme di contratto più contestate, subito ribattezzato dalla sinistra radicale “lavoro-squillo”. La legge Biagi ha anche introdotto il lavoro a ripartizione, che consente la suddivisione di una prestazione lavorativa tra due o più lavoratori, secondo modalità stabilite dagli stessi. Con la legge 30 sono cambiate pure le regole per i co.co.co., rinominati co.co.pro. (a progetto), cui vengono riconosciute la malattia, l’assicurazione contro gli infortuni e la maternità. Inoltre, è diventato – in teoria – più difficile reiterare questi contratti ad libitum, perché sono stati vincolati, come dice il nome, a un progetto. In molti casi si è trattato tuttavia di un cambiamento cosmetico: talvolta, i progetti consistevano infatti nel “tenere i rapporti con la clientela”! Sin qui il sindacato si è poco occupato di queste nuove tipologie di contratto atipico codificate a partire dalla metà degli anni Novanta. I rappresentanti dei lavoratori negoziano tradizionalmente aumenti di salario e nuove regole per le categorie “classiche” dei metalmeccanici, dei tessili, dei chimici ecc., ogni due o quattro anni, ma, al di là di retorici richiami al dramma del precariato, intervengono male sull’emergenza sempre più evidente dei lavoratori atipici, che non hanno minimi di salario, né scatti di anzianità stabiliti dai contratti nazionali, né godono delle tutele tradizionali. I sindacati se ne occupano in genere per chiedere garanzie sul fatto che, prima o poi, a questi la voratori vengano riconosciuti contratti a tempo indeterminato, permettendo loro di entrare a far parte del bel mondo antico del lavoro stabile, pre sidiato dai sindacati medesimi. Ma proprio le crescenti asimmetrie fra i due regimi rendono più difficile questo passaggio. Questa storia incompiuta ci ha lasciato in gestione un mercato dual, in cui chi ha contratti temporanei rischia moltissimo ed è poco pagato. Lo abbiamo visto con questa crisi. I contratti temporanei sono diminuiti di circa il 10%. Quelli permanenti sono addirittura aumentati.

Le patologie del rimanere in mezzo al guado

L’esplosione di nuove forme contrattuali e l’opportunità di inserirne altre possono essere analizzate sotto almeno tre diversi punti di vista. Il primo è quello dell’efficienza economica e del ruolo che tali forme contrattuali hanno avuto e potranno avere per aumentare il tasso di occupazione. Il secondo è quello dell’equità e dell’opportunità di avere un mercato in cui prestazioni lavorative identiche vengono svolte da lavoratori con protezioni molto diverse tra loro. Il terzo è quello della complessità delle regole e dell’opportunità di continuare ad aumentare il numero di figure contrattuali, con un processo che non sembra avere fine. Dell’efficienza e del ruolo che le forme contrattuali hanno giocato nella recente crescita dell’occupazione abbiamo già detto in precedenza. Dal punto di vista dell’equità, la situazione del mercato del lavoro è imbarazzante. La posizione dei co.co.pro. è del tutto paradossale. Mansioni di lavoro identiche vengono spesso effettuate da lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e da parasubordinati, dove l’unica differenza tra i due è il fatto che questi ultimi sono più giovani, e quindi non assunti come lavoratori dipendenti. Come spiegato precedentemente, i co.co.pro. sono stati introdotti nel 2003 per sostituire i co.co.co. che, inizialmente, non avevano alcuna aliquota previdenziale. Fortunatamente, anche il legislatore si è accorto di queste incongruenze e, seppur con un certo ritardo, ha reagito alle iniquità più ovvie. Nel 1995 è stato istituito un apposito fondo previdenziale e, dall’aprile 1996, i datori di lavoro sono obbligati a versare come aliquota contributiva il 12% del reddito lordo del dipendente. Successivamente, tale aliquota è stata elevata gradualmente dal 12 al 14% tra il 1998 e il 2003, al 17,8% nel 2004, per raggiungere progressivamente il 19%, il 23,5% nel 2007 e il 24,72% nel 2008. Ma gli stessi lavoratori rimangono ancora senza diritto di preavviso in caso di recesso e senza diritto alle ferie. Salvo imprevisti, alcuni diritti minimi verranno inseriti nella legge delega in via di approvazione. Vi è comunque sempre la possibilità e il rischio che nuove forme contrattuali vengano introdotte. Fino a quando il legislatore continuerà a rincorrere il mercato, perderà sempre. La legislazione sarà sempre in ritardo, il mercato del lavoro sarà sempre in grado di generare nuove forme contrattuali non previste dall’ordinamento vigente, e quindi non soggette a particolari obblighi. Di questo passo, non dobbiamo sorprenderci se tra qualche anno le forme di contratto di lavoro saranno 380 e non 44, con una complessità istituzionale con pochi paragoni al mondo. C’è solo un modo per uscire da questa giungla, ed è quello di stabilire dei diritti minimi garantiti a ciascun lavoratore e lasciare che il mercato e la contrattazione collettiva creino qualsivoglia figura contrattuale, che sarà considerata lecita fino a quando i diritti minimi verranno rispettati. Governo e parti sociali decidano insieme quali sono gli standard minimi di garanzia da dare a un lavoratore: ferie, preavviso di recesso, protezione per gli infortuni sul lavoro, diritti previdenziali ecc. Questo permetterebbe di creare uno “zoccolo duro” minimo per i diritti dei lavoratori e consentirebbe al sistema capitalistico di fare il suo compito, che è quello di inventare continuamente nuovi prodotti e non nuove figure contrattuali. Prestazioni di lavoro identiche, come abbiamo illustrato, vengono svolte da lavoratori con protezioni molto diverse tra loro. Per tutelare questi lavoratori che non godono dell’ombrello dei sindacati e delle tutele stabilite per legge, bisognerebbe fissare degli standard minimi, da applicare a tutti i posti di lavoro indipendentemente delle caratteristiche. La dualità del sistema è il vero problema. Inoltre il mercato del lavoro è oggi un sistema troppo complesso in Italia. Da dieci anni non si sta facendo altro che aggiungere figure contrattuali, senza affrontare il problema alla radice di un mercato inefficiente in nuce. Molte di queste figure, come il job sharing, non vengono praticamente mai utilizzate. Finora l’ingegneria contrattuale è stata inarrestabile: il mercato aveva bisogno di una nuova figura di lavoro in base alle esigenze del momento e la politica la recepiva e la codificava attraverso una nuova legge, com’è avvenuto per la riforma Treu o quella che porta il nome di Marco Biagi. Gli unici a beneficiare veramente della situazione attuale sono i consulenti del lavoro. Qualunque piccola azienda, prima di assumere un lavoratore, è costretta a chiedere una consulenza per capire se nuove forme contrattuali sono state introdotte o se i termini posti nel contratto sono leciti. L’ingegneria contrattuale non si fermerà mai. Se si mantiene l’impostazione attuale, il legislatore dovrà adeguare le leggi al mercato per standardizzare i nuovi rapporti di lavoro. Una strada sbagliata e inefficace. Inoltre, il sistema potrebbe diventare insostenibile. I contributi previdenziali dei lavoratori duali rischiano di generare negli anni a venire pensioni non lontane dalla soglia di povertà. Una situazione, di fatto, molto grave per un paese come l’Italia. I contributi previdenziali dei contratti atipici stanno via via crescendo, ma è necessaria una progressiva convergenza nei contributi di tutti i lavoratori. Non ci devono essere differenze nella copertura previdenziale pubblica. Infine, si tratta di un sistema che alla lunga potrebbe non far aumentare l’occupazione. Man mano che i lavoratori stabili vanno in pensione ci si accorge che i parasubordinati hanno spesso una funzione sostitutiva, non integrativa. E il motivo è molto semplice: è aumentata la flessibilità in entrata ma quella in uscita è rimasta inalterata. Ecco una delle cause del boom dell’occupazione a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni del Duemila: gli imprenditori, non potendo “aggiustare” lo stock di lavoratori regolari e permanenti anche se improduttivi, hanno assunto nuovi lavoratori parasubordinati in attesa che quelli vecchi andassero in pensione. Con il passare del tempo, l’effetto “luna di miele” («un milione di nuovi posti di lavoro») tenderà ad attenuarsi e di conseguenza l’aumento dell’occupazione potrebbe arrestarsi. Gli ultimi dati trimestrali su occupazione e prodotto non lasciano ben sperare. Per offrire tutele vere ai lavoratori e insieme semplificare la normativa è meglio quindi specificare standard minimi applicabili universalmente e consentire che gli attori del mercato elaborino qualsivoglia forma contrattuale, che sarà considerata lecita nella misura in cui risulti compatibile con gli standard minimi. Ciò non significa che si debbano cancellare tutte le figure contrattuali oggi codificate, ma soltanto interrompere un meccanismo che, ai livelli attuali, sta producendo fiumi di carta (come i fantomatici progetti definiti per poter mantenere in piedi le vecchie collaborazioni coordinate e continuative). Bisognerà poi intensificare il controllo amministrativo e sociale per assicurare che gli standard minimi siano rispettati ovunque.

Il contratto unico a tempo indeterminato

Un piano di riforma di lungo periodo, ragionevole e credibile, dovrebbe offrire ai giovani che lavorano un percorso verso la stabilità ben definito. Attualmente, una volta arrivato a scadenza, un contratto atipico, o comunque a tempo, non offre alcuna prospettiva di lungo periodo. L’orizzonte ostacola qualsiasi possibilità di fare programmi di vita seri. Si pensi ad esempio alla maternità: è vero, è stata ora riconosciuta anche per le tipologie atipiche come i contratti a progetto. Ma è piuttosto irrealistico pensare che una donna si prenda cinque mesi di maternità se il contratto le dura un anno e non ha garanzie sul periodo successivo. La soluzione è dunque introdurre un contratto unico a tempo indeterminato, per tutti, che garantisca un sentiero graduale, a tappe, verso la stabilità. Il contratto unico deve prevedere due fasi: l’inserimento e la stabilità. La fase di inserimento dura per i primi tre anni di vita del contratto. Durante questa fase il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria, fatta salva l’ipotesi di licenziamento per giusta causa. Nei casi in cui esso sia determinato da motivi discriminatori si applica la tutela prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La compensazione monetaria, durante la fase di inserimento, aumenta secondo un ammontare pari a quindici giorni di retribuzione per ogni trimestre di lavoro. A titolo di esempio, un contratto unico interrotto dopo sei mesi di lavoro richiede una compensazione monetaria pari a un mese di retribuzione. Dopo tre anni di lavoro, la compensazione è pari a sei mensilità. Superata la fase di inserimento, il contratto unico viene regolato dalla disciplina dei licenziamenti oggi vigente. Per le aziende con più di quindici dipendenti, si applica quindi la tutela reale prevista dall’ordinamento esistente. Per le aziende con meno di quindici dipendenti, si applica la disciplina relativa alla tutela obbligatoria. È bene ricordare qui le principali caratteristiche di questo contratto. Innanzitutto il contratto unico è a tempo indeterminato. Cosa significa? Semplicemente che nel contratto non vi è una scadenza. Lo psicodramma individuale della scadenza del contratto viene così superata. I lavoratori vengono assunti con un contratto “aperto”. Avere un contratto a tempo indeterminato non significa però che esso non possa essere interrotto. Vi è spesso grande confusione su questa differenza. Il matrimonio è un contratto tra due persone a tempo indeterminato. Quando ci si sposa non si mette mai un termine all’unione. Tuttavia il matrimonio, pur essendo a tempo indeterminato, può essere interrotto. Il divorzio, una circostanza che nessuno si augura, rappresenta l’interruzione di un contratto a tempo indeterminato. Anche il nostro contratto unico può quindi essere interrotto. L’idea è che quando l’impresa decide di interrompere, specialmente nei primi tre anni, deve corrispondere ai lavoratori un indennizzo monetario, che in questo primo triennio aumenta con l’anzianità aziendale. Quello dell’indennizzo monetario non è un dettaglio irrilevante, specialmente se paragonato alla situazione esistente: oggi né gli atipici né gli occupati a tempo determinato hanno diritto ad alcun indennizzo alla scadenza del contratto. Altro dettaglio importante: contrariamente all’apprendistato, il contratto unico è applicabile a tutti, non soltanto agli under 30, quindi facilita l’ingresso delle donne dopo il periodo di maternità e il reintegro di lavoratori più anziani. E non prevede riduzioni dei contributi previdenziali, come avviene per l’apprendistato. Il periodo di inserimento assorbe anche il periodo di prova. Oggi, durante il periodo di prova (che può durare fino a sei mesi), si può essere licenziati senza preavviso e senza alcun indennizzo. In caso di interruzione involontaria del rapporto di lavoro il contratto unico prevede un indennizzo monetario fin da subito. Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall’articolo 18 dello Statuto dei la - voratori per quanto riguarda il licenziamento di - sciplinare e discriminatorio, ma soltanto dalla protezione indennitaria (che gli riconoscerebbe da due a sei mesi di salario, e non la reintegrazione nell’azienda) nel caso di licenziamento economico. Alla fine del terzo anno, la tutela reale, cioè il reintegro nel caso di licenziamento, viene estesa anche al licenziamento economico se il lavoratore è assunto in un’impresa con più di quindici addetti. A questo punto per l’azienda, che ha già investito molto nel capitale umano del lavoratore, sarebbe comunque molto costoso interrompere il rapporto di lavoro. Il contratto unico dovrebbe assorbire la stragrande maggioranza delle assunzioni. Tutto ciò senza la necessità di abolire i contratti flessibili oggi esistenti. Questi rimarranno a condizione che rispettino gli standard di base, sia in termini di salario minimo orario, sia in termini di contributi previdenziali obbligatori. Lavoratore e datore di lavoro sceglieranno il contratto unico semplicemente perché è conveniente. Sarà comunque opportuno stabilire una durata massima per il contrat - to a tempo determinato più stringente di quella attuale, per esempio due anni. Il contratto a tem po determinato dovrebbe coprire soltanto le prestazioni che sono davvero temporanee, come i lavori stagionali e altre prestazioni di natura transitoria. Per scongiurare i rischi di un abuso dei contratti a tempo determinato e per far partecipare i datori di lavoro agli eventuali costi per la collettività derivanti dal mancato rinnovo del contratto alla scadenza, sarebbe anche opportuno aumentare i contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione versati da chi assume con questi contratti. Bisogna infine stabilire che chi, alla scadenza del contratto, trasforma questi contratti in assunzioni stabili non possa fruire del periodo di inserimento previsto dal contratto unico. In altre parole, il contratto a tempo determinato è un’alternativa per l’azienda al periodo di inserimento previsto dal contratto unico a tempo indeterminato.

Alcuni chiarimenti

Da quando è stato proposto il contratto unico su “laVoce.info” (nel 2003) si è sviluppato un dibattito molto ricco. I leader sindacali hanno espresso sul sito la loro opinione in materia. La proposta legislativa formulata da Pietro Ichino, ora deputato per il PD al Par lamento italiano, incorpora l’idea del contratto unico. Vediamo gli interrogativi più importanti che sono stati posti e le risposte che a questi sono state fornite. Oltre al contratto unico, rimane tutto come prima? No. Una strategia vincente contro il dualismo deve imporre standard minimi che valgano per tutti i tipi di contratto. Altrimenti ci saranno sempre delle asimmetrie. Per questo, riteniamo fondamentale che, oltre al contratto unico, venga anche introdotto un salario minimo orario che valga per ogni tipo di prestazione subordinata offerta nel nostro paese. Per tutelare il futuro previdenziale dei giovani, tutti i contratti alle dipendenze dovrebbero, inoltre, garantire lo stesso livello di contributi previdenziali. Infine, per dissuadere da un uso eccessivo dei contratti a tempo determinato, si ritiene che chi assume con contratti a termine debba pagare contributi più alti per le assicurazioni contro la disoccupazione, dato che più forte è il rischio che il contratto sfoci in un periodo di non lavoro. Come può il contratto unico conciliare flessi - bilità e tutele? Il contratto unico permette alle imprese un’assunzione flessibile, aumentando gradualmente le tutele del lavoratore, senza forti discontinuità. La nostra proposta prevede due fasi del contratto: l’inserimento e la stabilità. Durante l’inserimento l’indennità in caso di licenziamento aumenta in modo progressivo fino al terzo anno. L’indennizzo crescente, contenuto nei primi mesi, serve a non scoraggiare il datore di lavoro, che vuole essere garantito circa le qualità del lavoratore. Ovviamente, durante la fase di inserimento, l’indennizzo si applica solo per interruzioni di lavoro legate a motivi economici, mentre il lavoratore deve essere reintegrato in azienda nel caso di licenziamento discriminatorio o lesivo di diritti fondamentali. In questo periodo di inserimento, datore di lavoro e lavoratore investono in capitale umano. Al termine del terzo anno, con l’avvio della fase di stabilità, l’obbligo di reintegra (la cosiddetta “tutela reale”) viene esteso anche ai licenziamenti economici senza giusta causa.

Tre anni non sono troppi? Per rispondere a questa domanda dobbiamo riflettere sulla situazione attuale. Oggi i lavoratori a progetto non hanno diritto ad alcun indennizzo e i contratti a tempo determinato hanno sempre una scadenza, al termine della quale non vi è alcuna compensazione monetaria nel caso in cui il rapporto di lavoro si interrompa. Nel contratto unico vi è sempre quantomeno un indennizzo monetario. In questo senso, la nostra proposta è decisamente migliorativa.  

Ma non c’è già l’apprendistato? Il contratto unico a tempo indeterminato può essere offerto a tutti, non solo ai lavoratori con meno di trent’anni, per facilitare il reingresso nel mercato del lavoro delle donne, dopo il periodo di maternità, e dei lavoratori più anziani. Non ha limiti di durata e non prevede riduzioni dei contributi previdenziali, come oggi avviene, invece, per l’apprendistato. Inoltre, la nostra proposta non comporta oneri per il contribuente, come previsto al contrario dall’apprendistato. Quindi le differenze sono evidenti.  

Il contratto unico è la stessa cosa del Contrat de Première Embauche (CPE) che ha scatenato le proteste nelle piazze francesi? Niente affatto. Semmai, il contratto unico ha qualche similitudine con il Contrat Nouvelles Embauches (CNE) in vigore in Francia dal 2005, che ha contribuito a stabilizzare i rapporti di lavoro. A differenza del CPE, il contratto unico non riguarda solo i giovani. Nel caso di licenziamento economico durante il periodo di inserimento, il datore di lavoro è comunque tenuto a fornire una motivazione e a offrire un risarcimento crescente nella durata dell’impiego, cosa non prevista nel CPE secondo il quale, per i primi due anni, il licenziamento non richiede alcuna giustificazione e solo due mesi di indennità. Cosa succede agli altri contratti? Rimangono, ma devono essere compatibili con gli standard minimi, ad esempio in termini di salario minimo orario e di contributi previdenziali obbligatori. Cosa impedisce a un datore di lavoro di allungare il periodo flessibile? Se un datore di lavoro assume una persona con un contratto a tempo determinato (o un contratto a progetto) e, al termine di questo contratto, vuole assumere il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato, il contratto partirà dal periodo di stabilità, non potrà contemplare né periodo di inserimento né periodo di prova.  

Cosa impedisce a un datore di lavoro di interrompere il rapporto di lavoro prima dell’inizio della seconda fase? L’impresa che vuole interrompere il rapporto di lavoro nel periodo di inserimento dovrà compensare il lavoratore offrendogli fino a sei mensilità. L’inserimento ingloba anche il periodo di prova. Quindi l’indennità viene percepita subito, a differenza della situazione attuale, per tutti i tipi di contratto. Nei contratti a progetto e a tempo determinato giunti alla scadenza non vi è alcuna indennità. In altre parole, con il contratto unico nei primi tre anni aumenta la protezione dei lavoratori rispetto all’attuale situazione, cioè alla modalità di gran lunga dominante di assunzione dei lavoratori con meno di quarant’anni.  

In che cosa si differenzia la nostra proposta da quella elaborata da Pietro Ichino? Ci fa molto piacere che un profondo conoscitore del mercato del lavoro e delle normative in Italia come Pietro Ichino abbia a sua volta formulato una proposta di contratto unico che ha non poche affinità con la nostra. La proposta di contratto unico di Ichino è più radicale di questa, in quanto prevede l’abolizione della cosiddetta “reintegra” cioè dell’obbligo del datore di lavoro di un’azienda con più di quindici dipendenti di reintegrare il lavoratore licenziato senza giustificato motivo. A differenza della proposta Ichino, che vuole riformare le normative sui licenziamenti, la nostra proposta si concentra sulla fase di ingresso nel mercato del lavoro, dunque sui primi tre anni dall’assunzione. Nei primi tre anni l’imprenditore può valutare le qualità del lavoratore e investire nella sua formazione. A quel punto sarebbe comunque costoso per il datore di lavoro licenziare il dipendente e formare un altro lavoratore. Dunque le protezioni previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non sono più un deterrente all’assunzione con un contratto a tempo indeterminato fin dall’inizio. La proposta di Ichino prevede, allo stesso tempo, di rimodulare anche gli ammortizzatori sociali e i sussidi di disoccupazione, all’insegna della bilateralità. Coerentemente con la filosofia del contratto unico, noi riteniamo fondamentale cominciare dal definire trattamenti universali, cioè basati su regole d’accesso uguali per tutti i lavoratori, come un sussidio unico di disoccupazione.

Ci sono altre proposte affini alla nostra? Marco Leonardi e Massimo Pallini hanno proposto di attivare un meccanismo di conciliazione fra le parti prima dell’intervento del giudice. È un’ipotesi meno radicale della proposta Ichino, ma interviene anch’essa sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La nostra, invece, mantiene in vigore a tutti gli effetti questo dispositivo a tre anni dall’assunzione. A quel punto, il datore di lavoro ha già investito nella formazione del proprio dipendente e, quindi, avrebbe in ogni caso costi molto alti da sostenere per licenziare il lavoratore, perché si perderebbero gli investimenti fatti nel capitale umano. La formazione del dipendente, incentivata dal fatto di avere un contratto fin da subito a tempo indeterminato, è a nostro giudizio la migliore forma di protezione dell’impiego.

Perché è una riforma da attuare subito? La nostra è una proposta di riforma a costo zero per le casse dello Stato e rivolta al percorso di ingresso nel mercato del lavoro. Il governo continua anche a sostenere che non è il momento di riformare i percorsi di ingresso nel mercato del lavoro, nel mezzo della recessione. Si sbaglia: durante le crisi le imprese continuano ad assumere. Meno che in tempi normali, ma continuano ad assumere. Se non si cambiano le regole in ingresso, vista l’incertezza sulla congiuntura, assumeranno solo con contratti temporanei. Rischiamo perciò di uscire da questa crisi non solo con una disoccupazione gonfiata dai licenziamenti dei lavoratori precari – a costo zero per le imprese – ma anche con una quota più alta di lavoratori con contratti temporanei. È quello che è successo negli anni Novanta in Giappone e Svezia, due paesi che hanno vissuto una lunga recessione originata, come questa, nei mercati finanziari. Siamo ancora in tempo per evitare che questo succeda anche da noi. Ma non possiamo aspettare oltre.

 

 


 

[1] Questo articolo riprende i temi più ampiamente sviluppati in T. Boeri, P. Garibaldi, Un nuovo contratto per tutti, Chiarelettere, Milano 2008.