Il presidente Obama cambia strategia. Un anno decisivo per l'Afghanistan

Di Giuliano Francesco Giovedì 02 Luglio 2009 17:48 Stampa

La revisione della strategia statunitense per l’Afghanistan e i rinforzi che stanno affluendo in quel teatro segnano l’avvio di una nuova fase: la gestione del conflitto si americanizzerà nei numeri e nelle idee, comprimendo il ruolo degli alleati europei della NATO. I dubbi sul nuovo corso riguardano le condizioni dell’apertura negoziale ai movimenti armati che si oppongono al governo di Kabul e, soprattutto, le modalità di uso della forza sul terreno. Il modello utilizzato dal generale Petraeus in Iraq difficilmente potrà essere riprodotto in Afghanistan.

L’americanizzazione del conflitto

Sin dai tempi della campagna elettorale, Barack Obama aveva annunciato la propria intenzione di fare dell’Afghanistan e del Pakistan il principale teatro degli sforzi americani contro l’integralismo jihadista. Le prime misure adottate dalla sua Amministrazione hanno pienamente confermato questo proponimento, anche se permangono alcune aree di incertezza circa le modalità di applicazione della nuova strategia appena varata e i suoi reali obiettivi politico-strategici.

La nuova centralità afgano-pakistana risulta tanto dal surge appena approvato, che sta incanalando verso il fronte centroasiatico altri 21.000 soldati, quanto dalla parallela riduzione delle risorse destinate agli impegni in Iraq. E avrà un impatto notevolissimo sia sul terreno che nei rapporti con i paesi alleati.

Il maggior impegno di Washington, infatti, è destinato a consolidare, con la supremazia dei numeri e delle idee, la già evidente preponderanza degli Stati Uniti sia nella pianificazione che nella conduzione delle operazioni, con il prevedibile effetto di relegare nuovamente ad un ruolo secondario l’Alleanza atlantica, che a partire dal 2003 aveva tentato di fare proprio della ricostruzione e della stabilizzazione dell’Afghanistan l’elemento portante del suo rilancio, dopo la marginalizzazione subita in seguito alla decisione della Casa Bianca di non utilizzarne le capacità all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001.

L’accentuazione del carattere americano del conflitto è nei fatti. A dispetto dei rinforzi promessi dalla Gran Bretagna, dalla Germania, dalla stessa Italia e in varia misura anche dagli altri alleati, infatti, una volta completato il piano deciso da Obama, le truppe statunitensi sul campo rappresenteranno più di due terzi dei militari occidentali complessivamente presenti in Afghanistan: 62.000 su un totale di circa 90.000.1 Per quanto significativi, inoltre, questi dati quantitativi non danno pienamente conto del ruolo dominante che gli Stati Uniti si avviano ad assumere: un aspetto non meno importante dell’americanizzazione in atto è infatti quello connesso al processo di revisione della strategia recentemente completato, al quale gli alleati europei della NATO non hanno dato alcun apprezzabile contributo.

Stando alle ricostruzioni fornite dalla stampa d’oltreoceano in varie occasioni, insediandosi alla Casa Bianca il presidente Obama avrebbe trovato tre documenti diversi: uno predisposto da un team guidato dal generale David H. Petraeus, attualmente a capo del Comando centrale statunitense; un secondo elaborato dal generale Douglas Lute e un terzo prodotto dall’allora comandante supremo delle forze alleate in Europa, il generale John Craddock, e ciò malgrado mai discusso formalmente a Bruxelles. A queste tre ipotesi, per iniziativa di Obama se ne sarebbe aggiunta una quarta, commissionata direttamente a Bruce Riedel, un esperto della Brookings Institution: il testo sul quale sarebbe poi ricaduta la scelta finale del presidente.2

Non si può dire però che in questo percorso la nuova Amministrazione americana non abbia fatto il possibile per coinvolgere i propri alleati europei: al contrario, tanto il segretario di Stato Hillary Clinton quanto il vicepresidente Joseph Biden hanno più volte attraversato l’oceano, per recarsi al quartier generale dell’Alleanza al fine di consultare i suoi vertici e i rappresentanti degli Stati membri, ottenendo tuttavia poco o nulla. Nessun alleato risulta infatti aver espresso visioni alternative a quelle in discussione a Washington.

È necessario essere onesti. Per questa subalternità agli Stati Uniti gli europei non possono rimproverare altri che se stessi, la propria complessiva passività, i limiti della loro cultura politico-strategica e l’insufficienza delle risorse allocate ai ricercatori indipendenti e ai think tank presenti sul continente per sviluppare idee diverse sulla campagna in atto e sugli obiettivi realisticamente perseguibili in Afghanistan. È dal complesso di questi fattori che dipende l’ormai evidente tendenza degli Stati europei membri della NATO a definire “adattativamente” e reattivamente il proprio atteggiamento sia nei confronti di Washington che di quanto accade materialmente sul suolo afgano.

Non sono stati gli europei a sollevare il problema della quantità ottimale di truppe da schierare in Afghanistan, né quello del ruolo da attribuire eventualmente alle milizie tribali locali, né, tanto meno, quello legato al futuro politico del presidente Hamid Karzai, al di là degli astratti proclami sulla difesa del metodo democratico e della sovranità degli afgani. Lo stesso vale per i limiti insuperabili entro cui si dovrebbe proseguire il processo di riconciliazione nazionale, cioè il negoziato con le varie articolazioni della guerriglia che sarebbe da tempo in corso. Sono stati invece gli americani a farlo, generando comunque qualche inquietudine.

L’arrivo di cospicui rinforzi statunitensi nel - l’Helmand, ad esempio, ha creato nei britannici il sospetto che Washington desiderasse sottrarre a Londra il controllo di quanto fanno i reggimenti di Sua Maestà nella cruciale area di loro competenza. Preoccupazioni simili sono affiorate anche in Italia, come prova il fatto che la Difesa abbia deciso di disporre il rischieramento più a Nord dei soldati stanziati negli avamposti al confine con la provincia meridionale di Nimroz, come la base avanzata di Delaram. Se ne è discusso il 22 aprile scorso anche in Parlamento, in occasione delle comunicazioni rese dal ministro Ignazio La Russa alle commissioni Difesa di Camera e Senato.

 

I dubbi sulla svolta

Il nuovo corso deciso dall’Amministrazione Obama, quindi, non convince del tutto. Del resto, le ragioni per coltivare qualche dubbio sulle reali intenzioni di Washington non mancano.

Intanto, le caratteristiche e gli obiettivi finali della nuova strategia adottata dalla Casa Bianca non sono del tutto evidenti. Alcuni elementi della sofisticata dottrina anti-insurrezionale, elaborata sulla base degli insegnamenti di David Galula3 dal generale David H. Petraeus e da questi testata con successo in Iraq, sono stati incorporati nel nuovo approccio, ma non tutti.

Il presidente Obama ha deliberato un incremento delle truppe, ma non pari a quello che il responsabile del comando centrale, uomo notoriamente prudente, giudicava indispensabile. Si è aperta la porta al reclutamento di milizie tribali e anche a trattative con gli elementi dell’opposizione armata al governo di Kabul, subordinandone certo i progressi alla loro dissociazione dal movimento jihadista internazionale, ma ipso facto legittimandone anche la discutibile agenda di politica interna. Si è altresì preso definitivamente atto del fatto che Afghanistan e Pakistan costituiscono un teatro d’operazioni unico: segno evidente dell’influenza esercitata sul processo di revisione strategica da analisti indipendenti e quotati come Ahmed Rashid e Barnett Rubin. Ma un punto di cruciale importanza non è stato chiarito. Ed è quello concernente le modalità concrete di applicazione della forza.

L’arrivo di Petraeus ha suscitato la speranza di ripetere nell’Hindo Kush il miracolo compiuto in Mesopotamia. Tuttavia, un certo scetticismo è d’obbligo. La svolta maturata l’anno scorso in Iraq è giunta infatti in seguito al rovesciamento dell’approccio che aveva privilegiato l’autodifesa delle truppe occidentali rispetto alla protezione della popolazione civile locale, il cui appoggio è la vera posta in palio delle guerre di guerriglia.4

Il surge in Afghanistan non sembra essere stato pensato in funzione degli stessi obiettivi. Hanno contribuito ad impedire che lo fosse anche le notevoli differenze di fondo tra i due teatri: la popolazione afgana, ad esempio, contrariamente a quella dell’Iraq, è dispersa nelle aree rurali. Ciò significa che non sarà possibile generare in Afghanistan il medesimo effetto strategico ottenuto dalla campagna condotta vittoriosamente a Baghdad da Petraeus. Le lezioni della storia recente ci dicono anzi che è vero esattamente il contrario: il controllo di Kabul e dei centri urbani della Ring Road non ha mai garantito il successo finale a chi lo esercitava.

Il destino delle operazioni in Afghanistan si deciderà invece ancora una volta negli oltre 40.000 villaggi di cui è costellato il suo impervio territorio: spesso poco più di piccole agglomerazioni di case fangose, la cui protezione puntuale esigerebbe un numero di soldati di gran lunga superiore a quello di cui si potrà mai disporre. Il conflitto si vincerà o si perderà lì, dove occorrerà convincere i cosiddetti fence-sitters, coloro cioè che stanno in disparte a guardare, che i talebani e i loro alleati possono essere sconfitti ed è possibile difendersi dalle loro intimidazioni.

A questa delicatissima funzione dovrebbero essere adibite prevalentemente delle affidabili forze di polizia nazionale, ma quelle al momento esistenti lasciano molto a desiderare e la strada per migliorarne capacità e personale si profila molto lunga.5 Non è quindi sorprendente che da aprile ad oggi le modalità tattiche di impiego della forza non siano affatto cambiate. Si sta invece assistendo ad una significativa escalation della violenza, che prevedibilmente toccherà l’apice nei prossimi mesi di agosto e settembre, come è accaduto negli ultimi anni.

Il fatto stesso che in Afghanistan continuino a morire, per cause legate al conflitto in corso, mediamente quindici persone al giorno, ma meno di un soldato occidentale ogni ventiquattro ore, prova che l’obiettivo perseguito dal grosso delle truppe non s’identifica ancora con la protezione della popolazione, ma con l’autotutela dei singoli contingenti: che svolgono sempre meno pattugliamenti a piedi, preferendo la confortevole sicurezza garantita dai più avanzati mezzi blindati disponibili, come il Lince italiano, che gli stessi talebani hanno soprannominato “il mostro”. La prudenza prevale e pervade il processo decisionale a tutti i livelli: il crepitio di alcune armi automatiche a circa due chilometri da Camp Arena, ad esempio, è bastato il 14 maggio scorso a far ordinare la consegna nella base di Herat di tutto il nostro personale militare per diverse ore.

Nessuno chiede ovviamente ai soldati dell’ISAF o dell’Operazione Enduring Freedom di immolarsi senza ragione, né tanto meno di esporsi ad inutili rischi: ma questa postura operativa non avvicina di un millimetro l’intervento militare occidentale alle finalità di stabilizzazione che gli sono state attribuite dai politici. Paradossalmente, non attenua l’insicurezza, ma l’accentua. Allo stesso modo, non sembra andare nella giusta direzione neanche la proposta, ventilata recentemente dal sindaco di Kabul, di creare nella capitale afgana una zona verde sul modello di quella allestita a Baghdad, per isolare e di fendere meglio le ambasciate e i vari comandi militari presenti.

Per quanto riguarda l’ambizione di reclutare nuove milizie tribali oltre a quelle già impiegate, quale surrogato delle insufficienti e inefficienti forze di polizia dello Stato, gli esperimenti finora condotti nella provincia di Wardak non hanno dato esiti esaltanti: tagiki e hazara hanno infatti risposto con un certo entusiasmo, ma i pashtun non hanno aderito, forse per il timore di subire rappresaglie da parte del movimento talebano.6 Di qui, forse, la freddezza dimostrata nei confronti di questo aspetto della nuova strategia dal generale David McKiernan, probabilmente costatagli anzitempo il posto, malgrado influenti consiglieri dell’Amministrazione democratica si fossero più volte dichiarati contrari ad una politica di controllo del territorio fondata sugli uomini al soldo dei signori della guerra, in quanto pregiudizievole della già debole autorità dello Stato afgano.

 

La valenza politica del surge

Ècertamente più promettente il fatto che Washington preveda nel nuovo corso di moltiplicare i tentativi di promuovere una riconciliazione con le varie articolazioni politiche della guerriglia, nell’intento di farne emergere le linee di frattura latenti e cooptare nell’ordine costituzionale afgano tutti coloro che siano disponibili a recidere ogni legame con al Qaida. Verosimilmente, è proprio attraverso questa apertura negoziale che va letta l’intera architettura della strategia appena adottata dagli Stati Uniti: probabilmente, infatti, il surge servirà soprattutto a preparare un miglior terreno per le trattative che ad un certo punto dovranno entrare nel vivo.

Non è neanche da escludere che, per facilitarne il decollo, gli Stati Uniti intraprendano anche una campagna di esecuzioni mirate contro le “primule verdi” che si nascondono nel Baluchistan pakistano o nelle zone tribali contigue alla Linea Durand: come il Mullah Omar, il dottor Ayman Al Zawahiri e lo stesso Osama bin Laden, se ancora in vita. Induce anzi a ritenerlo probabile il fatto che, nella sostituzione di McKiernan, la scelta del Pentagono sia caduta sul generale Stanley McChrystal, distintosi soprattutto alla testa delle forze speciali incaricate di condurre operazioni di commando, come quelle che hanno portato in Iraq alla cattura di Saddam Hussein, all’uccisione di Abu Mussa Al Zarqawi e anche ad un certo numero di episodi rimasti piuttosto controversi.

L’eventuale successo di una strategia di attacco ai leader dell’insurrezione avrebbe oltretutto il pregio di rendere praticabile per il presidente Obama anche la strada di un sollecito disimpegno dall’Afghanistan, fornendogli qualche trofeo da esibire, qualora il consenso dell’opinione pubblica statunitense alla continuazione dell’intervento in quel paese scendesse al di sotto di un livello critico. In quest’ultimo caso, tuttavia, il lavoro cominciato nell’ottobre del 2001 rimarrebbe certamente incompiuto e difficilmente l’Afghanistan sfuggirebbe ad un nuovo ciclo di lotte intestine tra le sue maggiori componenti etnonazionali, stanti la debolezza del governo centrale e l’elevata preparazione tecnico-militare delle forze che gli si oppongono.7 Oltrefrontiera, recupererebbero margini di manovra anche le frange dell’establishment politico-militare di Islamabad più vicine all’integralismo.

Un eventuale ritiro statunitense dal paese, infine, porrebbe in seria difficoltà anche gli alleati europei dell’America; toccherebbe infatti agli europei, andati in Afghanistan per rilanciare la NATO e restare rilevanti per Washington, decidere se tradire le promesse fatte in questi anni e abbandonare nuovamente Kabul al proprio destino, oppure rimanere fedeli alla retorica umanitaria della loro comunicazione: la stessa che ha indotto a conferire all’Alleanza atlantica l’ambiziosa missione di modernizzare e democratizzare lo Stato afgano cui neanche George W. Bush aveva mai seriamente pensato.


[1] K. DeYoung, R. Chandrasekaran, In Afghan War, U.S. Dominance Increasing, in “The Washington Post”, 26 marzo 2009.

[2] J. Klein, The Scariest Places, in “Time”, 5 marzo 2009, pp. 14-15.

[3] Cfr. D. Galula, Contre-insurrection. Théorie et pratique, Economica, Parigi 2008, con prefazione di D. H. Petraeus e J. A. Nagl; traduzione francese di Counterinsurgency Warfare. Theory and Practice, Praeger, New York 1964.

[4] Cfr., al riguardo, l’ottima ricostruzione di T. E. Ricks, The Gamble. General David Petraeus and the American Military Adventure in Iraq, 2006-2008, Penguin Press, New York 2009.

[5] Cfr. S. G. Jones, Counterinsurgency in Afghanistan, Rand Corporation, National Defense Research Institute, Santa Monica 2008, pp. 68-72 e 75-77.

[6] D. Filkins, In Recruiting an Afghan Militia, U.S. Faces a Test, in “The New York Times”, 15 aprile 2009.

[7] Significativamente, David Kilcullen definisce «l’attuale generazione di combattenti talebani (…) il nemico tatticamente più competente al momento di fronte a noi nel complesso dei teatri in cui ci troviamo », D. Kilcullen, Accidental Guerrilla. Fighting Small Wars in the Midst of a Big One, Oxford University Press, New York 2009, p. 54.