La legge 180: situazione generale e proposte di modifica

Di Massimo Cozza Giovedì 26 Marzo 2009 13:29 Stampa

La 180/78 è una legge di principi in linea con la modifica del Titolo V della Costituzione e con il fe­deralismo. Principi condivisi dalla stessa Organiz­zazione mondiale della sanità. Non c’è pertanto nessuna ragione per cambiarla, se non si vuole ri­tornare alla logica manicomiale. Vi sono però di­verse criticità da affrontare e una limitata attua­zione di alcune sue norme.

La legge 180/78 oggi è ancora più valida di ieri. È una legge di principi in linea con la modifica del Titolo V della Costituzione e con il federalismo. La stessa Organizzazione mondiale della sanità (OMS) negli ultimi decenni ha portato avanti le indicazioni contenute nella legge italiana, ritenute la via maestra per la tutela della salute mentale in tutti i paesi. La chiusura dei manicomi, l’apertura dei servizi territoriali, la limitazione dei trattamenti obbligatori e il riconoscimento dei diritti anche per chi soffre di disturbi psichiatrici, rappresentano conquiste scientifiche e civili.
Non c’è pertanto nessuna ragione sanitaria e sociale per cambiare la 180. Vi sono però diverse criticità da affrontare a partire dall’applicazione a macchia di leopardo e dalla limitata attuazione di alcune sue norme.

Il manicomio

Le persone erano numeri, spesso oltre mille per ciascun istituto. Ai più agitati veniva somministrato l’elettroshock e messa la camicia di forza. Il tempo spegneva ogni vitalità degli internati. In un primo tempo concepito come progresso nel trattamento della malattia mentale, il manicomio era diventato un fallimento scientifico e civile. La legge 36 del 14 febbraio 1904 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati” prevedeva la custodia e la cura delle persone affette da alienazione mentale «quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo». Il ricovero provvisorio era autorizzato dal pretore sulla base di un certificato medico. Trascorsi trenta giorni il tribunale autorizzava il ricovero definitivo in base alla relazione del direttore. In manicomio si veniva portati dalla pubblica sicurezza e si poteva rimanere dentro tutta la vita. Gli edifici manicomiali avevano la sala delle autopsie dalla parte opposta all’ingresso, quasi a prefigurare un percorso segnato. A seconda del comportamento si era internati nei diversi padiglioni: i freschi, gli agitati, i furiosi, i suicidi, i tranquilli. I ricoverati perdevano i diritti civili e politici. Non potevano fare testamento, firmare assegni, votare. Il ricovero era trascritto sulla fedina penale. La possibilità della dimissione era nelle mani del direttore dell’ospedale psichiatrico e autorizzata dal presidente del tribunale.

La legge 180

Al di fuori delle realtà manicomiali, già negli anni Cinquanta erano nate in Gran Bretagna le prime comunità terapeutiche. Si diffondevano la psicoanalisi e i primi psicofarmaci. Nel 1961 il sociologo Erving Goffman scrisse “Asylums”,1 dove l’ospedale psichiatrico era definito una «istituzione totale » che portava i pazienti all’infantilismo e limitava la loro vita.

In questo quadro nacque in Italia l’esperienza di Franco Basaglia, direttore di ospedale psichiatrico, che avviò un percorso di rottura delle mura manicomiali, partendo nel 1962 dall’esperienza goriziana. Aprì le inferriate interne, diede voce agli internati, fino ad arrivare a portarli all’esterno. Il numero, oggetto passivo di reclusione, diventava una persona, soggetto attivo di vita in rapporto con la società. Già prima della 180 Basaglia aveva raggiunto i primi successi a Trieste con la chiusura dell’ospedale psichiatrico e in altri manicomi, da Arezzo a Nocera Inferiore, era stato avviato il percorso di deistituzionalizzazione.

La legge fu approvata da quasi tutto il Parlamento il 13 maggio 1978, quattro giorni prima era stato scoperto il corpo di Aldo Moro ucciso dalle Brigate Rosse, pochi giorni dopo sarebbe stata approvata la legge 194/78. Alla fine dell’anno la legge di riforma sanitaria 833/78 recepì negli articoli 33, 34, 35 e 64 quasi tutta la legge 180. La riforma psichiatrica era infatti già in cantiere nell’ambito della più generale riforma sanitaria e l’anticipo dei tempi fu dettato dalla necessità di evitare il referendum indetto dai radicali, che avrebbe determinato la chiusura dei manicomi senza prevedere nessuna alternativa. Basaglia invece aveva sempre riconosciuto l’esistenza della malattia mentale e credeva nella necessità di mettere in campo servizi e strutture centrati sul territorio. Quattro i principi fondamentali della legge 180: il rispetto della dignità e dei diritti della persona con disturbi psichiatrici, la chiusura dei manicomi, la centralità territoriale dei servizi, la volontarietà del trattamento.

Un cambiamento radicale dove chi soffre non è più escluso dalla società e obbligatoriamente ricoverato in ospedale psichiatrico, anche per tutta la vita. Alla persona con disturbi psichiatrici è finalmente riconosciuto il diritto di cittadinanza, dando piena attuazione all’articolo 32 della Costituzione: «(…) Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La legge 180 demandava poi alle Regioni l’emanazione delle norme per l’istituzione dei servizi dipartimentali di salute mentale, con funzioni preventive, curative e riabilitative.

L’assistenza psichiatrica e le sue criticità

Quando la 180 fu approvata in Italia nel 1978, vi erano oltre 100.000 internati negli ospedali psichiatrici. La loro chiusura è stata completata solo dopo vent’anni, grazie anche all’impegno dell’allora ministro della Salute Rosy Bindi, che condivise con le Regioni un percorso di definitivo di superamento degli ultimi settanta ospedali rimasti e di costruzione del secondo Progetto obiettivo nazionale (PON) “Tutela della salute mentale” per gli anni 1998-2000. Delineate le tipologie dei servizi necessari e le modalità di funzionamento, negli anni si è raggiunta una buona diffusione dei centri di salute mentale, dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali generali, delle comunità terapeutiche e dei centri diurni. Si sono realizzati servizi di salute mentale d’eccellenza.

Il quadro si presenta però a macchia di leopardo. Troppi i casi di abbandono, dove le famiglie sono lasciate sole. Le risorse umane sono rimaste carenti. La formazione universitaria è avulsa dai nuovi principi. Avanza lentamente un processo di neoistituzionalizzazione mascherata. I centri di salute mentale, luogo di regia della presa in carico di chi soffre di disturbi psichiatrici, troppo spesso assumono un atteggiamento di attesa e forniscono solo risposte specialistiche. Per la persona con gravi disturbi psichiatrici non basta. Il diritto all’accesso alle cure non le viene sempre garantito.

Le risposte necessarie ai bisogni di salute mentale

Le evidenze scientifiche internazionali concordano sulla multifattorialità della malattia mentale. C’è quindi bisogno di intervenire sui diversi determinanti biologici, psicologici e sociali. C’è bisogno di servizi attivi che mettano in campo interventi personalizzati ad ampio raggio. Dalla psicofarmacologia all’assistenza sociale, dalla psicoterapia all’intervento nei luoghi di vita. Serve ascolto, tempo e disponibilità. Per queste ragioni c’è la necessità di équipe multiprofessionali che abbiano le giuste competenze. Le risposte ai bisogni di salute mentale devono essere personalizzate e il dipartimento deve mettere in campo tutte le sue risorse e attivare quelle del territorio. Bisogna saper riconoscere la storia unica di ciascuno.

Andare nelle case, nei luoghi di vita di chi soffre e tessere una rete integrata di assistenza che non lasci sole le famiglie. Avere la possibilità di intervenire potendo utilizzare in modo flessibile il budget disponibile. Certamente dare le giuste risposte nei casi più complessi richiede un impegno più gravoso e complessivo dei servizi dipartimentali. C’è bisogno di assistenza alle persone nei luoghi di vita, nelle abitazioni, nei condomini, nei luoghi di lavoro. Nei casi dove necessita un cambiamento dei luoghi di vita, la risposta deve essere di tipo inclusivo. Comunità integrate nel tessuto sociale, case famiglia nelle città. In caso di compromissione dell’autonoma capacità d’espletamento delle funzioni della vita quotidiana della persona con disturbi psichiatrici, il giudice può attivare l’amministrazione di sostegno prevista dalla legge 6/04. C’è bisogno di medicine, ma anche di rapporti umani e sociali. Questa la miscela che può portare alla guarigione anche di chi soffre di schizofrenia.

Le proposte di riforma della legge 180

Diverse sono le proposte che in ogni legislatura vengono presentate in Parlamento per cambiare la 180. Nei primi mesi dell’attuale XVI legislatura le principali sono state a firma dell’onorevole Guzzanti e altri, dell’onorevole Ciccioli, dei senatori Carrara, Bianconi e Colli. Due sono gli assunti principali che si ritrovano nella maggior parte delle proposte di legge. Il primo è la necessità di Trattamenti sanitari obbligatori (TSO) prolungati e tempestivi, con possibilità di attuarli anche in luoghi diversi dai servizi psichiatrici diagnosi e cura (SPDC). Il secondo è l’esigenza di una più efficace assistenza psichiatrica, restituendo alla medicina la cura della malattia mentale, umanizzandola. Punto di partenza è una visione della malattia mentale più come allarme sociale che come complessa problematica clinica, con la reintroduzione del principio della pericolosità.

Il Trattamento sanitario obbligatorio

Quando in presenza di disturbi psichiatrici c’è rifiuto delle cure, c’è urgenza di intervenire e non è possibile farlo sul territorio, si deve ricorrere al trattamento obbligatorio negli SPDC all’interno degli ospedali generali. Tutto è già scritto nella legge 180. La proposta può essere fatta da un qualsiasi medico, deve essere convalidata da un medico pubblico e il provvedimento viene emesso dal sindaco, che lo trasmette al giudice tutelare. Un sistema di garanzie per evitare gli abusi. Il ricovero, volontario e obbligatorio, deve rappresentare una tappa di un più complessivo percorso terapeutico riabilitativo. Gli SPDC, infatti, devono essere parte integrante dei dipartimenti di salute mentale per poter garantire una continuità dell’assistenza. La durata del TSO è di norma di sette giorni. A volte il servizio psichiatrico chiede un ulteriore periodo di altri sette giorni ma raramente si procede oltre. Si tratta di una scelta, dettata da una prassi consolidata nel tempo. La legge, infatti, prevede già la possibilità di ulteriori prolungamenti senza delimitarne la durata complessiva.

Per quanto concerne la tempestività dell’intervento, anche le leggi di tutela sono già vigenti. In attesa del provvedimento del sindaco, il medico è obbligato ad intervenire richiamandosi allo stato di necessità normato dall’articolo 54 del codice penale e all’adempimento di un dovere previsto dall’articolo 51. In caso di mancato intervento si configura l’omissione di soccorso normata dall’articolo 593 del codice penale e la possibilità di abbandono di persona incapace, prevista dall’articolo 591. C’è anche un altro punto da chiarire: chi fa che cosa. I principali attori sono gli operatori del Dipartimento di salute mentale, trattandosi di un trattamento “sanitario” obbligatorio e non di un intervento di ordine pubblico. Nella sua attuazione possono collaborare i vigili urbani, essendo un provvedimento disposto dal sindaco. L’intervento di pubblica sicurezza è limitato alle situazioni che possono prefigurare un reato, dalla violenza alla minaccia con armi improprie. La legge prevede anche la possibilità di TSO in ambiente extraospedaliero e l’obbligatorietà anche per gli accertamenti sanitari. Pertanto già a legislazione vigente è possibile praticare TSO ambulatoriali, domiciliari o in strutture territoriali. Si tratta di potenzialità che andrebbero ridefinite in modo chiaro da un regolamento condiviso dalla Conferenza Stato-Regioni.

L’assistenza psichiatrica Una ridefinizione di una organizzazione dell’assistenza psichiatrica più efficace è materia di competenza regionale. La 180 è, infatti, una legge quadro in linea con il federalismo. La presunta necessità di ritornare ad una medicalizzazione e ad una condivisibile umanizzazione dell’assistenza psichiatrica non è materia legislativa, ma di linee guida tecnico-scientifiche.

C’è invece bisogno di una rivisitazione del PON, fermo al triennio 1998-2000. C’è bisogno di più risorse per la sanità, e d’impegni regionali a vincolare almeno il 5% della spesa sanitaria per la tutela della salute mentale. Alla luce dell’attuale ordinamento istituzionale, e ancor più con il nuovo federalismo, questo non può essere deciso in una legge nazionale. Si tratta solo di propaganda politica e si distoglie l’attenzione dalla reale possibilità di superare le inadempienze attuative della 180.

Cosa si può fare

Chi parte in modo convinto dal principio “non vogliamo tornare al manicomio ma…” non ha alcuna necessità di cambiare la legge 180. Il governo e le Regioni istituiscano una qualificata commissione che lavori sulla regolamentazione del TSO e su di un nuovo PON per gli anni 2010-12. Questa è la strada politica da seguire per chi crede nella necessità di migliorare realmente l’assistenza psichiatrica nel nostro paese.

Se invece si ritiene di dover riaffermare la concezione del “matto pericoloso” da inserire obbligatoriamente in strutture chiuse per anni, allora la legge va cambiata. Senza infingimenti, sarebbe un ritorno al passato. Peraltro i reati con la chiusura dei manicomi non sono aumentati, gli omicidi efferati sono compiuti da persone senza disturbi psichiatrici così come da chi soffre di malattie mentali. I mezzi di comunicazione tendono, invece, ad imputare subito alla “follia” comportamenti criminali difficilmente accettabili e che impressionano emotivamente. Un danno enorme a chi soffre di disturbi mentali.

La concezione internazionale della salute mentale

Oggi l’OMS e l’Europa stanno portando avanti i principi della legge 180. Nel rapporto sulla salute mondiale 2001, Gro Harlem Brundtland, all’epoca direttore generale dell’OMS, ha scritto: «Ogni paziente ha il diritto di essere curato nell’ambiente meno limitante possibile, con un trattamento il meno restrittivo o intrusivo possibile». Nel rapporto si evidenzia il fallimento del manicomio e la complessità della deistituzionalizzazione che deve comportare l’implementazione di una solida rete di strutture comunitarie. La ricetta dell’OMS indica diversi ingredienti. La differenziazione dei servizi, la collaborazione con i pazienti e le loro famiglie, la farmacoterapia, la psicoterapia, la riabilitazione psicosociale, la riabilitazione professionale e il lavoro, l’alloggio, l’inclusione nell’assistenza primaria, un diverso ruolo dei mass media, la promozione della ricerca.

Nella Conferenza ministeriale europea sulla salute mentale del gennaio 2005 ad Helsinki è stato assunto dai ministri della Salute l’impegno a sviluppare, per coloro che soffrono di gravi problemi di salute mentale, servizi di comunità sostitutivi dell’assistenza fornita dalle grandi istituzioni chiuse. Il Libro verde sulla salute mentale dell’Unione europea del 2005 prevede il ricovero obbligatorio solo come ultima possibilità, quando alternative meno restrittive si rivelano inefficaci. Nella stessa Italia il sistema sanitario è orientato nella costruzione di una forte medicina territoriale dove possono trovare risposta ventiquattro ore su ventiquattro i cittadini che non hanno la necessità di ricoverarsi in ospedale. Si tratta quindi di prevedere in questo processo una forte integrazione delle cure primarie con i Dipartimenti di salute mentale, che consenta una risposta sul territorio, giorno e notte, feriali e festivi, anche a chi soffre di disturbi psichici.

Conclusioni

Il nostro paese nell’ambito della salute mentale è stato il primo a promulgare trent’anni fa una legge con principi generali oggi diventati patrimonio dell’OMS e della stessa Comunità europea. Sarebbe paradossale cambiare adesso la legge 180, ritornando ad una logica di esclusione e di istituzionalizzazione. Il tema della salute mentale va invece riportato all’attenzione delle agende delle politiche sanitarie a tutti i livelli, e in primo luogo nelle Regioni. È questa, oggi, la scommessa da vincere.