Giancarlo Schirru

Giancarlo Schirru

insegna Linguistica generale e Glottologia all’Università di Cassino e del Lazio meridionale

Riunificazione tedesca e ideologia italiana

In nessun altro paese dell’Europa occidentale la caduta del muro di Berlino ha avuto ripercussioni radicali sul sistema politico come in
Italia. Ciò non ha causato però, come sostenuto da alcuni, la morte delle ideologie, quanto, piuttosto, l’avvio di un processo di permanente metamorfosi ideologica, in cui a determinati elementi di continuità si è affiancato il venir meno di alcuni grandi riferimenti
che sono stati una costante della storia unitaria italiana e che, nonostante quest’azione di rimozione, seguitano a rappresentare i nodi
critici del futuro del paese.

Per il pluralismo etico del Partito Democratico

Le pagine che seguono sono dedicate al seguente problema: i tanti che hanno finora riflettuto sulla possibilità di fondare un nuovo partito politico in Italia – il Partito Democratico – hanno sviluppato diversi argomenti. Sono stati richiamati ad esempio i successi elettorali ottenuti dal simbolo dell’Ulivo ovunque sia comparso sulle schede delle ultime competizioni elettorali, la possibilità di riunificare le maggiori culture politiche dell’Italia repubblicana, l’opportunità di fornire la coalizione di centrosinistra di un baricentro politico che consenta di governare al meglio il paese, la necessità per la democrazia moderna di fondarsi su un sistema di partiti oggi molto fragile in Italia. Tutti, però, hanno aggiunto che un partito non nasce per ragioni di tipo elettorale, culturale, politologico o simili. Un partito politico è una forma di partecipazione associata alla politica e alla vita civile: non si può eliminare dalle sue ragioni fondative quella sfera gratuita e volontaria in cui vive la partecipazione politica. Un partito politico non è un’impresa. E la partecipazione è mossa innanzi tutto da ideali, speranze per il futuro, desiderio di una vita migliore, grandi opzioni sul mondo di domani.

Politica, cultura e industria culturale nella seconda Repubblica

Il rapporto tra politica e cultura, tra partiti e intellettuali, ha subito mutamenti profondissimi negli ultimi quindici anni. Tutte le avvisaglie dei fenomeni esplosi dai primi anni Novanta erano presenti da almeno un decennio. Ma, come spesso avviene in queste cose, i fatti nuovi si sono sedimentati senza attirare l’attenzione degli osservatori, e poi, quando hanno raggiunto la massa critica, d’improvviso hanno «fatto epoca». In tutti i drammi che si rispettino i personaggi, anche quelli principali, sono sempre più di uno o di due. In quello che qui raccontiamo se ne possono individuare almeno tre: la cultura nazionale, la sfera del dibattito pubblico (giornali, televisione e industria culturale nel suo complesso) e il sistema dei partiti politici. È bene spendere qualche frase su ognuno di loro.

Il mito della globalizzazione linguistica

In molte delle discussioni sul fenomeno della globalizzazione accanto a considerazioni di tipo economico-finanziario si evoca spesso una presunta omologazione di dimensione mondiale, a riprova della quale si cita generalmente il processo di concentrazione dell’industria culturale e dell’informazione. Fin dal conio della celebre espressione global village non è chiaro il carattere normativo o realistico di simili scenari: difficilmente infatti si riesce a comprendere se tali discussioni descrivano uno stato di cose, previsioni future o la formulazione di un modello ottimale di comunicazione planetaria.

 

L'università dall'utopia alla scienza

Le diverse voci che intervengono nel dibattito incessabile sul sistema universitario italiano sono concordi su una premessa: l’università, così com’è, non funziona. Ma a chi scrive è capitato più volte di ascoltare una sentenza ben più drastica, formulata da parte di dirigenti politici, sindacalisti o persone legate al mondo imprenditoriale: l’università italiana – si dice – così com’è non serve a niente. Non stupisce quindi che, da tale punto di vista, ogni intervento, ogni risorsa, ogni riforma vengano mentalmente rubricati tra le voci degli sprechi di denaro e di energie. Una conclusione così ultimativa è il frutto – crediamo – di una presupposizione non dimostrata, che porta ad assumere comportamenti sbagliati e dannosi. La presupposizione incriminata è quella per cui un sistema universitario è utile, serve al paese, se le sue energie sono spendibili strumentalmente.