Oggi più che mai è importante, per una sinistra che si richiami ai principi del socialismo, riprendere il tema delle coordinate di azione e del posizionamento ideale per capire quale “modello” di un futuro differente e cambiato radicalmente sia ancora possibile perseguire come sfida interna al sistema capitalistico. Un modello che informi discernibili punti programmatici, orienti i cardini di una battaglia politica e tracci la demarcazione di una identità che distingue “noi” e “loro”.
Perché è necessario recuperare il “socialismo”, al netto delle sue declinazioni partitiche, nel caso italiano? In fondo, con l’eccezione della penisola iberica, i partiti socialisti sono in serie difficoltà un po’ ovunque in Europa. In realtà, se consideriamo il termine socialismo quale importante richiamo ad aspirazioni di giustizia che hanno attraversato la storia dell’Occidente e all’idea di “portare avanti quelli che sono nati indietro”, la sua attualità sta proprio nell’esigenza di prendere sul serio l’impegno a combattere le diverse forme di esclusione e diseguaglianza che hanno impoverito e reso meno sicure le nostre società, nella consapevolezza che il benessere o è collettivo o non è.
Una generazione figlia della crisi, alle prese con tassi di disoccupazione enormi e crescenti, soprattutto nel Mezzogiorno, con diseguaglianze sempre più grandi e un welfare in via di smantellamento ha bisogno di reagire e di immaginare un’alternativa: un mondo in cui la ricchezza prodotta venga distribuita, così che tutti abbiano la possibilità di emanciparsi e godere davvero della propria libertà, senza sentirsi mai sotto ricatto di qualcosa e di qualcuno; un mondo in cui i servizi primari vengano garantiti e in cui l’obiettivo comune sia mandare avanti tutti, soprattutto quelli che sono rimasti indietro.
Sulla stampa anglosassone, anche di orientamento conservatore e liberale, trovano sempre più spazio argomenti e idee propri di una sinistra d’ispirazione socialista. Che siano il “Financial Times”, il “Guardian”, il “New York Times” o “The Nation”, sulle loro pagine si incontrano ormai frequentemente analisi vicine a una certa sensibilità politica, anche quando non si sta parlando di Bernie Sanders o Jeremy Corbyn. Quelle idee, di stampo socialista, socialdemocratico, laburista, diventano visione, prospettiva, costituiscono la vera e propria chiave di lettura di alcuni articoli dedicati alle questioni sociali ed economiche. E tornano a essere considerate credibili.
Negli ultimi anni la base più conservatrice dei repubblicani ha lentamente e inesorabilmente esercitato un’egemonia culturale all’interno del suo partito, polarizzando temi che sono sì nella natura del convivere statunitense, ma che stanno assumendo misura e aspetti decisamente accentuati. Dalla riforma sanitaria fallita alla violenza che cresce, dagli scontri all’interno della Casa Bianca ai contrasti nel mondo dei media, la destra americana dell’era Trump si trova di fronte a una frattura che nessuno sembra in grado di ricomporre. Cosa potrebbe accadere allora se con la fine della doppia influenza di repubblicani classici e nuovi nazionalisti rimanesse solo la rediviva white identity a dare forza alla presidenza Trump?
Con i suoi tweet, i suoi comizi e le sue conferenze stampa, Trump offre al suo pubblico ciò che vuole. Non gli interessa avvicinare una base elettorale moderata e/o indipendente, non cerca consensi al di fuori del suo elettorato perché è più importante il consenso che permane rispetto a quello che, secondo numerosi sondaggi, continua a perdere. Ma in definitiva chi sono i sostenitori di Trump? E soprattutto che cosa rappresenta per loro il presidente americano?
Che cosa vede la sinistra europea nell’America Latina? Soprattutto quella “redentiva”, che ha sempre avuto un debole per il continente latinoamericano, al punto da erigerlo a mito da compatire e redimere, da sedurre e poi abbandonare, ma anche quella riformista, che nella democrazia liberale e nel mercato crede, seppure cerchi di rendere più inclusiva la prima e di governare il secondo. Per entrambe l’America Latina è un folclorico calderone rivoluzionario, privo di tradizione democratica. Sarebbe ora che l’intera sinistra facesse un serio sforzo per riconsiderare e superare i sogni, le utopie e i miti latinoamericani.
Il contributo intende fornire un’analisi di lungo periodo del comportamento delle socialdemocrazie europee di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione a partire dagli anni Settanta del secolo passato. Il saggio indaga nel contempo le cause della crisi di consenso in cui le socialdemocrazie attualmente versano avanzando l’ipotesi che derivino da un deficit di iniziativa nella guida dell’unificazione politica dell’Europa.
La vittoria del PASOK nella tornata elettorale svoltasi in Grecia lo scorso 4 ottobre e la concomitante caduta dei partiti conservatori e delle formazioni più estreme enfatizzano il malcontento degli elettori nei confronti del precedente governo di centrodestra. Tuttavia, tale vittoria va ascritta anche alla capacità dei socialdemocratici di riproporre gli ideali che da sempre ne hanno caratterizzato la storia e la tradizione pur accogliendo le sfide che il contesto locale e la situazione di crisi mondiale hanno portato di recente al l’attenzione.
Il nuovo corso socialista spagnolo ha assecondato e cavalcato le trasformazioni sociali e di mentalità che, germinate negli anni Sessanta, erano giunte a maturazione dopo la morte di Francisco Franco. Zapatero ha raccolto e rilanciato sul piano dei diritti ciò che l’euforia democratica aveva seminato durante la Transizione e che il vento gelido del “desencanto” non era riuscito a sradicare. La crisi economica ha però evidenziato le carenze strutturali dell’economia spagnola e messo a nudo anche i limiti del nuovo corso socialista.