La questione del cibo, con tutte le sue sfaccettature, è questione fortemente politica. L’abbondanza di cibo, che la tecnologia garantisce, si scontra con la sua iniqua distribuzione a livello globale e con la frustrazione economica ed esistenziale sia dei consumatori che non riescono a procurarsene abbastanza e di buona qualità, sia dei produttori, che non vengono adeguatamente ricompensati per il loro lavoro. Eppure il made in Italy agro-alimentare, che si compone anche di piccole realtà d’eccellenza, è uno dei fiori all’occhiello del nostro sistema produttivo.
Per la seconda volta gli americani hanno scelto Barack Obama. È, quello dello scorso 6 novembre, un voto che, come hanno sottolineato quasi tutti gli analisti, rispecchia il cambiamento che già sta interessando l’elettorato statunitense: la sempre maggiore incidenza del voto delle donne, dei giovani, delle minoranze.
Il cibo ha anche una valenza politica, come dimostra la cosiddetta “guerra del kebab” condotta nella primavera del 2009 da un consigliere regionale della Lega Nord, campagna deprecabile sia per la sua carica xenofoba che per la sua mancanza di senso storico. Il cibo è infatti quanto di meno autoctono ci sia, frutto com’è di mescolanze e prestiti, e la cucina è per defi nizione etnica e meticcia. Di fronte all’alternativa secca “kebab vs. Big Mac” allora non sarebbe meglio andare oltre il ring digitale del villaggio globale e scegliere ad esempio la pizza napoletana, cibo che più di ogni altro riesce a coniugare i tempi del fast con il gusto dello slow?
Il primo decennio del nuovo millennio si è concluso con un deciso cambio di passo nei mercati internazionali dei prodotti agroalimentari. Beni come il riso, il grano, il mais e i semi oleosi hanno registrato una repentina crescita dei prezzi internazionali. Tutto ciò ha reinnescato antiche preoccupazioni per la disponibilità degli approvvigionamenti alimentari globali rispetto a una popolazione mondiale in crescita. Il dibattito sul rapporto fra agricoltura, uso delle risorse, cambiamento climatico e ambiente si è arricchito di temi come la relazione con i mercati finanziari e fra produzione di cibo e bioenergia. Cosa è cambiato negli ultimi anni? E cosa possiamo aspettarci per i prossimi decenni?
Nonostante l’eccellenza del modello agricolo italiano e i primati che esso registra per quanto riguarda qualità, tipicità, salubrità delle produzioni, oltre che per il valore aggiunto generato per ettaro di terreno, negli ultimi dieci anni in Italia hanno chiuso 775.000 aziende agricole, pari al 32% di tutte le imprese agricole italiane registrate, mentre aumenta l’indebitamento di quelle attive. I terreni agricoli abbandonati, quelli non più coltivati perché non conviene, coprono una superficie grande quanto il Veneto. Questo sì, è un vero disastro.
Gli italiani mangiano male: hanno abbandonato quasi completamente il modello dell’alimentazione mediterranea, sono più grassi e più soggetti all’insorgenza delle patologie a carattere cronico-degenerativo, come il diabete, le malattie cardiovascolari e i tumori. Le campagne per l’adozione delle corrette abitudini alimentari non hanno portato negli ultimi anni a un miglioramento degli stili di vita, probabilmente anche a causa della forte crisi economica mondiale. Epigenetica ed etica possono offrire, però, nuove possibilità di intervento.
L’idea del cibo attiva contrapposizioni che vanno ormai superate, cercando di essere all’altezza di quel che si mangia. Il cibo è infatti
anche, e soprattutto, una pratica sociale. Eppure, nella nostra società degli sprechi, non si tiene conto del drammatico problema della fame e anzi si raffina sempre più – grazie alle moderne biotecnologie – quel che si mangia, al punto che si sta diffondendo un tipo di cucina estrema, molecolare, che ricerca l’essenza del cibo nelle sue particelle più infinitesimali.
Nuove tecnologie come le biotecnologie vegetali e animali e le nanotecnologie destano enorme attenzione e interesse, non solo nel mondo scientifico. Nonostante la consapevolezza degli indiscutibili vantaggi di queste applicazioni, è importante analizzare con onestà intellettuale e spirito critico anche le possibili implicazioni del loro utilizzo sulla salute. È necessario approfondire tali tematiche alla luce delle più recenti evidenze scientifiche riguardanti la commercializzazione e il consumo di OGM e l’uso di nanoparticelle negli alimenti, considerando i nuovi approcci concettuali e metodologici allo studio dell’interazione tra alimenti e uomo.
Il food è un fenomeno ampio e articolato, che sta attirando molti investimenti e l’attenzione di professionisti per lo sviluppo e l’applicazione di nuovi modelli e concetti di servizio. In questo scenario, il digitale ha un ruolo centrale nella condivisione dell’esperienza degli utenti, rafforzando il principio di social contenuto naturalmente nel food.
Dalla seconda metà del secolo scorso il cibo diviene mezzo espressivo di molti artisti, che lo usano come metafora della vita sociale. Si pensi alle opere precorritrici di Warhol, del gruppo Fluxus e di Beuys o, più recentemente, a quelle di Gonzalez-Torres, Tiravanija, Rakowitz e Mingwei, questi ultimi tre esposti nella recente mostra “Feast” tenutasi allo Smart Museum of Art dell’Università di Chicago.
Se la corruzione, in Italia, assume i tratti di una situazione patologica endemica, più o meno accettata o subita o tenuta sotto controllo, sulla stanchezza e l’apatia sta oggi prevalendo un diffuso sentimento di indignazione. Compito del centrosinistra e della sua proposta di governo è di assumere l’indignazione come manifestazione di un’esigenza ormai di massa: l’esigenza morale economica e politica di rifondare la Repubblica, di rifare l’Italia.
La crisi economica globale ha fatto emergere prepotentemente gli squilibri presenti nell’eurozona sin dal momento della sua costituzione, di fronte ai quali la miopia politica, il corporativismo cieco degli interessi forti e la rigidità ideologica di larga parte delle tecnocrazie hanno portato a estendere all’eurozona la via mercantilista della Germania. In tal modo non solo si sono accentuati gli squilibri economici interni all’area, ma si è aggravata la recessione e sono aumentati il debito pubblico e la disoccupazione. È giunto ora il momento di invertire la rotta.
Il crescente successo del grillismo, confermato anche dalle ultime elezioni in Sicilia, è in larga parte riconducibile alla diffusione, a livello mondiale, del fortissimo sentimento d’indignazione dei cittadini nei confronti della politica. Tutto italiano è, invece, un inedito genere comunicativo caratterizzato dalla commistione di politica dell’indignazione e show di intrattenimento, che mette in crisi le tradizionali griglie interpretative del fondamentale rapporto ragione/emozioni, per il quale sono auspicabili una riflessione e un ripensamento nuovi.
Caterina Bonvicini è nata a Firenze nel 1974. Cresciuta a Bologna, dopo aver lavorato a Torino per la casa editrice Einaudi, si è trasferita a Roma, dove vive attualmente. Ha pubblicato con Einaudi i romanzi “Penelope per gioco” (2000), “Di corsa” (2003) e “I figli degli altri” (2006); con Feltrinelli e con Salani i libri per ragazzi “Uno due tre liberi tutti!” (2006) e “In bocca al bruco” (2011); con Garzanti “L’equilibrio degli squali” (2008, Grand Prix Littéraire de L’Héroïne “Madame Figaro” nel 2010) e “Il sorriso lento” (2010, Premio Bottari Lattes Grinzane), entrambi tradotti in Spagna, Germania, Paesi Bassi e in Francia da Gallimard.
Anche questa volta l’esito del voto americano ha riservato delle sorprese. Il luogo comune più diffuso, quello che raccontava di una base elettorale democratica presa dallo sconforto e dalla disillusione, è stato smentito dai fatti: dai buoni dati relativi alla raccolta dei fondi e da quelli, ancora più positivi, sull’affluenza alle urne, in particolare dell’elettorato femminile e delle minoranze. La ragione di questo capovolgimento delle previsioni della vigilia sta nella superiorità politica della macchina organizzativa di Obama, che rivela una fiducia profonda nei meccanismi della partecipazione dal basso. È da questi aspetti che viene la lezione politica più confortante dell’elezione di Obama.
Fra le tante sfide che il presidente Obama dovrà affrontare nel suo secondo mandato, la più importante è senza dubbio quella posta dalla crisi economica, anche nella forma di crisi prevalentemente europea che essa sta progressivamente assumendo. Gli Stati Uniti non possono infatti rimanere indifferenti all’evolversi di una crisi dell’eurozona potenzialmente in grado di innescare un effetto domino tale da travolgere la debole ripresa americana. Non sarà forse giunto il momento di prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di un accordo di libero scambio fra le due sponde dell’Atlantico?
Il sistema americano di separazione dei poteri prevede istituzioni che non necessitano della fiducia reciproca per operare e i cui rappresentanti sono costretti a collaborare per poter governare. In questo quadro, il voto alle elezioni presidenziali e congressuali dello scorso 6 novembre ha fatto emergere un governo diviso fra un presidente democratico, una Camera a maggioranza repubblicana e un Senato in cui, pur in presenza di una maggioranza democratica, i repubblicani possono bloccare ogni proposta di legge indesiderata. Dato questo scenario problematico, chi governerà l’America fino al 2014?
Il successo di Obama, più ampio delle attese, è frutto sì della efficace strategia elettorale messa in campo dal candidato democratico, ma soprattutto della capacità di quest’ultimo di rispondere ai cambiamenti culturali e demografi ci che stanno alterando lo scenario politico ed elettorale americano e che i repubblicani, ormai relegati a partito dei maschi bianchi, non riescono a intercettare e rappresentare. È alle attese di questo elettorato, composto di minoranze, donne e giovani, che Obama dovrà rispondere nel suo secondo mandato.
La conquista del secondo mandato del presidente Obama costituisce una vittoria della straordinaria macchina elettorale sviluppata e messa in campo dal Democratic National Committee nell’ultimo decennio. L’uso di internet e degli strumenti più moderni è stato fondamentale per costruire una base elettorale, incentivare la partecipazione dei volontari e raggiungere direttamente una quota signifi cativa di elettori. Tuttavia, la tecnologia costituisce solo un veicolo per trasmettere il messaggio, che rimane fondamentale.
I prossimi mesi saranno, per il neo rieletto presidente americano, densi di sfide sul piano della politica economica. Fiscal cliff, deficit e debito pubblico, ma soprattutto una crisi occupazionale che, nonostante i lievi miglioramenti, non cessa di allarmare opinione pubblica
ed establishment politico, metteranno alla prova l’Amministrazione democratica e testeranno la capacità del presidente di negoziare con l’opposizione repubblicana al Congresso.
Nel corso del suo primo mandato, il presidente Obama ha dovuto correggere la rotta impressa alla politica estera dall’avventurismo di George W. Bush e si è al contempo impegnato a far prendere atto all’establishment di Washington che, in un mondo sempre più multipolare, gli Stati Uniti non potranno più giocare il ruolo preponderante avuto finora. Le sfide dei prossimi quattro anni, sui quali non peseranno più i condizionamenti di una possibile rielezione, determineranno la vera eredità politica di Obama che, per quel che concerne la politica estera, dovrebbe puntare sulla difesa di valori, come la democrazia, non in quanto imperativi morali ma per la loro valenza strategica.
La sfiducia nei confronti della politica, che si esprime attraverso l’astensionismo, il rifiuto dei partiti e il calo di identificazione ideologica, annovera tra le sue cause non soltanto la percezione della propria impotenza dinanzi al protratto cattivo rendimento delle istituzioni, ma anche la sensazione di essere stati traditi nelle proprie aspettative e defraudati dei propri ideali politici. L’esito di questa sfiducia è un’attività dimostrativa e di denuncia, “impolitica” perché non si pone nell’ottica di influenzare le decisioni delle élite, sostituendo alla responsabilitàdel governare la critica indignata dell’opacità del potere.
La sfiducia nei confronti della politica, la cui crescita ha ormai raggiunto livelli di allarme, coinvolge in modo speciale i partiti, i quali,
per sopravvivere, devono stimolare i cittadini sul terreno della contingenza e ricanalizzare almeno una parte di quella partecipazione che è oggi scarsa e talora anche dispersa attraverso i molti rivoli della protesta e dell’antipolitica. La vera sfida è sollecitare una partecipazione politica che abbia luogo all’interno e attraverso il partito.
I partiti sono, tra i corpi intermedi che contraddistinguono la società moderna, quelli che, nel secolo scorso, hanno maggiormente organizzato la partecipazione politica dei cittadini e favorito la ricomposizione delle tensioni sociali. Il ridimensionamento del loro ruolo, che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ha però aperto nuove prospettive e ampliato i margini di azione degli altri corpi intermedi: gruppi e movimenti. Una alternativa preferibile a quella di un loro antagonismo potrebbe essere costituita dalla cooperazione tra gruppi, movimenti e partiti, come si è verificato in occasione del referendum del 12-13 giugno 2011.
Il progressivo indebolimento dei partiti e la crescente globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni hanno modificato il concetto di vicinanza aprendo nuove prospettive alle modalità di partecipazione politica dei cittadini, ormai sollecitati principalmente da questioni che li riguardano da vicino. È questo un cambiamento di cui tener conto se si vuole ricucire lo strappo tra governanti e governati. Lo si è fatto con la riforma elettorale del 1993 che, nel clima di diffusa antipolitica della stagione di Tangentopoli, ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci. Ma lo si fa anche con le pratiche inclusive della democrazia deliberativa e mettendosi in ascolto delle molte voci che arrivano tanto dal territorio locale quanto da quello virtuale della rete.
Benché ci siano molte buone ragioni per coinvolgere i cittadini nelle scelte pubbliche, un’analisi delle pratiche di democrazia partecipativa diffuse nel nostro paese evidenzia un quadro contraddittorio, insieme incoraggiante e opaco. Atteggiamenti culturali e scarsa cura dei processi che vengono messi in moto attraverso queste pratiche sono spesso all’origine di effetti inattesi e, talvolta, controproducenti.
Fino all’ultimo ventennio del Novecento, i grandi partiti di massa hanno rappresentato il canale attraverso il quale i cittadini potevano
partecipare alle scelte pubbliche e alla vita democratica del paese. Oggi che i cambiamenti radicali che hanno riguardato la società e il mondo non consentono più ai partiti di fungere da cinghia di trasmissione degli interessi e del volere popolare, si impone la presenza di una nuova figura, quella del facilitatore dei processi partecipativi e mediatore dei conflitti. È possibile così riscoprire il valore del dialogo e la centralità che esso assume nel processo di democratizzazione della democrazia.
Negli ultimi sei anni a Torino sono cresciute le Case del quartiere: luoghi aperti e spazi per le relazioni dove ricostruire un tessuto sociale che spesso il ritmo della città tende a sfaldare e dove il bisogno di socialità trova espressione e risposta grazie alla capacità delle persone di mettersi in gioco. Un modello di progettazione partecipata che non si esaurisce nel momento iniziale, ma diventa prassi quotidiana di costruzione.
Si va sempre più diffondendo in Italia l’utilizzo dei processi partecipativi e la mediazione delle controversie. Il principio comune alla base delle due pratiche è quello della responsabilizzazione dei cittadini e delle parti in lite, che acquisiscono finalmente un ruolo attivo, pur se facilitato o mediato, nella risoluzione dei loro problemi. Si tratta di un importante cambiamento culturale, che promuove i fruitori da semplici utenti a decisori.
Nell’uso comune il termine “consumismo” indica una tendenza, propria delle società capitalistiche avanzate, ad allargare indefinitamente la sfera dei consumi e a farne il motore della crescita economica. A tal fine vengono utilizzate tecniche pubblicitarie sempre più sofisticate per indurre i consumatori a spendere tutte le risorse che hanno a disposizione, talvolta anche indebitandosi, in modo da intensificare la dinamica acquisitiva. Il termine è entrato nel lessico della lingua italiana nel secondo dopoguerra,
quando si sono concretizzate le condizioni storiche perché esso potesse acquisire un significato.
L’età postmoderna è, senza ombra di dubbio, il regno dell’edonismo. Di una tipologia e di una qualità assai differenti (se non antitetiche) rispetto all’obiettivo del conseguimento dell’atarassia che ha caratterizzato l’edonismo dell’antichità, quello contemporaneo coincide piuttosto con il “tutto e subito”, in una dimensione di annullamento della profondità temporale, ed è cresciuto di forza e intensità nel secondo Novecento, sino a divenire, con l’ingresso nei fatidici (e famigerati) anni Ottanta, una sorta di slavina inarrestabile.