L'Italia e il rilancio delle relazioni transatlantiche

Di Federico Romero Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

Europa e Stati Uniti sono certo più vicini di tre anni fa. Da entrambe le parti ci si sforza di cooperare – pure sulle questioni mediorientali che più ci hanno diviso – e ricucire una trama, un abito di collaborazione che faccia riacquisire a tutti i potenziali vantaggi dell’agire multilaterale. Il caso Iran è quello al momento più importante ed emblematico, ma non è certo l’unico. Sia pur lentamente, ci andiamo allontanando da quello scontro transatlantico che, nato intorno al progetto d’invasione dell’Iraq, si era rapidamente rigonfiato ad aspro confronto di valori e principi, con una contrapposizione che non riguardava solo i governi ma le culture pubbliche e le coscienze collettive.

Europa e Stati Uniti sono certo più vicini di tre anni fa. Da entrambe le parti ci si sforza di cooperare – pure sulle questioni mediorientali che più ci hanno diviso – e ricucire una trama, un abito di collaborazione che faccia riacquisire a tutti i potenziali vantaggi dell’agire multilaterale. Il caso Iran è quello al momento più importante ed emblematico, ma non è certo l’unico.

Sia pur lentamente, ci andiamo allontanando da quello scontro transatlantico che, nato intorno al progetto d’invasione dell’Iraq, si era rapidamente rigonfiato ad aspro confronto di valori e principi, con una contrapposizione che non riguardava solo i governi ma le culture pubbliche e le coscienze collettive.

Nessuno può ancora dire con certezza se quella contrapposizione abbia inaugurato una fase storica di progressiva divergenza o sia stata solo un passaggio (per quanto significativo e difficile) della inevitabile transizione dall’ordine atlantico della guerra fredda a una cooperazione euroamericana meno inclusiva, predeterminata e vincolata. Se n’è dibattuto a lungo, negli ultimi tre anni, e il fatto che non sia emersa ancora una risposta convincente deriva dal semplice fatto che quella alternativa è ancora del tutto aperta, e verrà risolta solo dai comportamenti attuali e futuri dei principali attori.

È chiaro infatti che, oltre all’emergere di distanze ideali e socioculturali, nella gestione della crisi del 2003 si è manifestata anche – da entrambe le parti – una notevole carenza di leadership. A Washington e a Parigi, ma anche a Roma e Berlino, si è soffiato sul fuoco dei sentimenti che dividono e delle astrazioni che distanziano (Venere e Marte, imperialismo e appeasement ecc.). Gli stessi valori che non solo uniscono ma accomunano noi e gli USA – a cominciare da democrazia, liberalismo e società aperta – sono stati non tanto richiamati come terreno condiviso quanto branditi come clave per delegittimare le reciproche scelte (o non scelte) di politica estera. Le ovvie, normali diversità e specificità degli interessi hanno finito per svanire nel gran rumore dei polemisti.

Tanto che in non poche parti dell’Europa e dell’Italia (ma anche, a parti rovesciate, del Texas o del Kansas) abbiamo visto prevalere la paradossale inversione per cui la vera minaccia proverrebbe non da chi rigetta e assale il nostro tipo di società ma da chi ha fatto scelte – ancorché sbagliate o addirittura controproducenti – per affermarla e difenderla.

Da questo discorso negativo e lacerante, che rinchiude gli Stati Uniti in un isolamento insostenibile e paralizza un’Europa divisa e inefficace, bisogna assolutamente uscire: con pazienza ma anche con convinta pervicacia. Si tratta di riconoscere che non esiste più una comunanza atlantica con automatismi precostituiti. Al suo posto (e grazie ai suoi ampi, solidi lasciti istituzionali e culturali) si deve erigere e coltivare una partnership razionale che sappia bilanciare i molti interessi comuni con le indubbie differenze, per gestire oculatamente questa miscela ineguale ma anche storicamente ovvia – e questa è precisamente una questione di leadership.

Da parte statunitense i segnali ci sono, anche se tutt’altro che univoci visto che una parte dell’Amministrazione – ma anche del partito repubblicano e della cultura conservatrice – ha solo dovuto riporre temporaneamente i suoi pregiudizi unilateralisti e antieuropei. Se il dipartimento di Stato cerca una strada diplomatica collettiva sull’Iran, con un livello tutto sommato alto di collaborazione con i tre paesi-guida europei, il vice-presidente Dick Cheney e il segretario alla difesa Donald Rumsfeld restano sostanzialmente scettici sulle soluzioni multilaterali e pronti ad affossarle quando ciò sia possibile. Ma la loro debolezza politica è al momento notevole, e potrebbe aumentare se il dialogo transatlantico si dimostrasse strumento produttivo ed efficace.

Da parte europea si tratta di uscire una volta per tutte dalla falsa e disastrosa alternativa tra la subalternità alle politiche unilateraliste americane, spacciata per difesa dell’Occidente, e la caricaturale riedizione chiracchiana del gollismo secondo la quale l’Europa si unificherebbe e rafforzerebbe solo nel contrasto aperto con gli USA. La prima non fornisce alcuna particolare influenza internazionale (e men che meno sugli USA, come hanno imparato a loro spese sia Blair che Berlusconi) e la seconda divide gli europei, relegandoli a una crescente anche se verbosa impotenza.

Negli ultimi due anni si sono fatti notevoli passi avanti in questa direzione grazie all’implicita ma radicale virata diplomatica messa in opera da Parigi e, soprattutto, all’ascesa di un sapiente ruolo di mediazione atlantica assunto dalla Germania guidata da Angela Merkel. Il nuovo governo di centrosinistra può associare l’Italia a questo sforzo per costruire una nuova pratica (e un nuovo linguaggio) di collaborazione euroamericana e irrobustirla ulteriormente.

I cardini di questa strategia dovrebbero essere almeno tre. Il primo è quello di riconoscere che i problemi di sicurezza e stabilizzazione internazionale si affrontano insieme, altrimenti non c’è soluzione efficace, e si moltiplicano invece i rischi di incancrenimento ed estensione dei conflitti. L’esperienza dell’Iraq ha costretto persino l’amministrazione Bush ad addivenire (sia pure provvisoriamente, con ampie riserve inespresse e certo obtorto collo) a questa conclusione. Chi da parte europea ha sempre sostenuto la validità di questo principio deve ora tradurlo coerentemente in scelte e azioni politiche. Vale a dire costruire pazientemente la collaborazione intraeuropea ed euroamericana su tutti i terreni su cui essa è più urgente e, soprattutto, orientare vigorosamente il dibattito pubblico per superare il diffuso ma erroneo sentimento collettivo secondo il quale sarebbe bene tenersi alla larga dagli Stati Uniti e dissociarsi dalle loro scelte, contrapponendo loro una sorta di benevolo astensionismo europeo dalle aree di crisi internazionale.

Il secondo discende conseguentemente dal primo, e riguarda direttamente il tipo di rapporto con gli Stati Uniti che gli europei intendono avere, in particolare per un paese dal peso diplomatico e strategico non primario, come il nostro. Negoziare e collaborare non vuol necessariamente dire mostrarsi accondiscendenti o, peggio, subalterni. Anzi. Le nostre critiche alle peggiori scelte americane dobbiamo farle pacatamente ma apertamente. Bisogna dire loro – come hanno fatto di recente sia la Merkel che il ministro della giustizia britannico – che Guantanamo va chiuso, e che il rispetto dei valori essenziali della persona, anche se ostile e prigioniera, non è un vincolo ma una risorsa per la battaglia contro il terrorismo fondamentalista. Dobbiamo farlo anche noi italiani quando ciò sia utile e necessario, per chiarire a Washington come a noi stessi i reciproci punti fermi, e stabilire quindi una relazione genuina in quanto franca e aperta .

Ma questo significa anche astenersi dall’usare e amplificare quelle critiche per mobilitare opinioni collettive ostili, per suscitare un clima di sospetto e diffidenza e aggiungere così altri mattoni all’edificio di chi pretende di vedere negli USA la fonte primaria delle tensioni mondiali. Che lo si voglia o meno etichettare come antiamericanismo (ma la definizione non è poi così importante, in questo contesto), il fatto è che tale atteggiamento inficia ogni possibilità di venire a capo dei problemi di sicurezza internazionale, assolve pericolosamente le forze e i regimi più aggressivi e indebolisce ulteriormente l’Europa. Il centrosinistra al governo dovrà necessariamente impegnarsi in una seria e lunga battaglia culturale in proposito.

Il terzo cardine riguarda la concezione del multilateralismo e l’efficacia della sua pratica. Nella crisi euroamericana andata in scena al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’inverno 2002-03 chi era contrario all’invasione dell’Iraq si raccolse intorno alla bandiera del multilateralismo con due argomentazioni principali. La prima elevava il criterio giuridico del consenso unanime dell’ONU a principio assoluto, con il corollario secondo il quale politiche di sicurezza non avvallate dall’approvazione dell’ONU sarebbero illegittime e quindi sbagliate. La seconda argomentazione sottolineava la necessità strategica (in particolare per gli europei) di vincolare gli USA a una disciplina collettiva per smorzarne le tentazioni unilateraliste. Benché logiche e comprensibili in quel contesto, quelle tesi hanno però una validità relativa, e devono essere contemperate da esigenze non meno importanti.

Il multilateralismo, infatti, non può servire a nulla se se ne fa un oggetto d’idolatria, mentre dispiega al meglio i suoi vantaggi se lo si considera uno strumento flessibile ed eminentemente pragmatico – così come è stato in tutte le sue prove migliori dal 1945 ad oggi. Non deve essere cioè una ricetta per la paralisi e l’impotenza internazionale che discenderebbero da un vincolo assoluto al consenso unanimistico in sede ONU; né uno strumento finalizzato primariamente a imbrigliare e frenare gli USA. Esso serve a tutti per condividere i costi, politici prima ancora che materiali, di politiche necessarie per la sicurezza collettiva, e serve in quanto consente di prevenire, impedire o correggere violazioni destabilizzanti dell’ordine internazionale o minacce dirette a qualcuno. In tale accezione serve in particolare a noi europei che, meno forniti degli USA di strumenti di difesa e intervento autonomi, siamo più esposti ai pericoli e abbiamo minori leve d’influenza.

Strutture e politiche multilaterali devono quindi in primo luogo incentivare gli Stati Uniti a starci dentro, altrimenti la loro efficacia (e in ultima analisi la loro stessa esistenza) appaiono fragili visto che non c’è questione globale o anche solo di forte interesse regionale che possa proficuamente essere affrontata contro gli USA. Devono essere perciò una necessità pratica e uno strumento utile a cui neppure gli Stati Uniti si vogliano sottrarre. Devono quindi essere concepite con la necessaria flessibilità e variabilità per servire scopi di volta in volta diversi e produrre la massima efficacia. Ciò vuol dire che le geometrie del multilateralismo possono essere diverse da caso a caso, che è masochisticamente limitativo ricondurle sempre e soltanto all’ONU, e che un criterio pragmatico di efficacia – efficacia politica, naturalmente, non puramente operativa – deve costituire il metro di giudizio essenziale sulla loro validità e desiderabilità.

Per questo ce ne dobbiamo andare dall’Iraq, la cui invasione fu una scelta errata seguita da una gestione catastrofica, mentre faremo bene a rimanere in Afghanistan, dove a fianco degli americani opera una missione NATO (con mandato ONU) che sta aiutando un processo di stabilizzazione e pacificazione ancora incerto ma sostanzialmente positivo. E dobbiamo appoggiare, pur se al momento dall’esterno, lo sforzo in cui i tre capofila europei (Francia, Germania, Regno Unito) sono impegnati per concordare con Cina, Russia e Stati Uniti un atteggiamento comune verso il progetto nucleare iraniano. Sono tre esempi, questi, di geometrie e logiche multilaterali molto diverse tra loro, che esemplificano la necessità di giudicarle nel merito dei loro scopi e della loro efficacia ben più che della loro aderenza o meno a un modello ideale precostituito.

La questione dell’Iran, in particolare, pone l’Europa e l’Italia di fronte a un test importante, probabilmente decisivo, non solo in relazione all’enorme posta specifica in gioco – la sicurezza dell’area mediorientale e il problema della proliferazione – ma anche sul fronte dei rapporti euroamericani. Perché se lì si riuscisse a costruire un sistema di condivisione di responsabilità che funziona con efficacia si potrebbe considerare già fatta gran parte della strada necessaria per rimettere la collaborazione transatlantica su di un asse funzionale e sostenibile, mentre un fallimento e una divaricazione condannerebbero le relazioni tra Europa e Stati Uniti a un peggioramento storico.

Per questo gli europei dovrebbero offrire all’Iran un pacchetto di incentivi assai forti, che includa anche quella discussione sulla sicurezza regionale che gli USA si sono finora rifiutati di prendere in considerazione. Non bisogna lasciarsi fuorviare – o intimidire – dalle argomentazioni neoconservatrici sul pericolo di legittimazione del regime e il conseguente sacrificio delle prospettive di democratizzazione se non di cambio di regime. Il principale ostacolo alle prospettive di democratizzazione dell’Iran risiede – almeno in una prospettiva di medio periodo – nella carta nazionalistica e vittimistica che il regime usa sistematicamente per estorcere il consenso della popolazione e ridurre all’impotenza i riformatori.

Ma al tempo stesso gli europei dovrebbero essere altrettanto chiari nell’esprimere sia all’Iran che agli Stati Uniti la certezza che, in caso di rifiuto iraniano e di escalation della crisi, essi si farebbero parte attiva e propositiva di una strategia economica, diplomaticae anche militare di fermo, paziente, efficace contenimento di un Iran che cerchi di dotarsi di ordigni nucleari.

Su questo come su altri terreni il ruolo dell’Italia è al momento debole, esterno e tangenziale. In parte per la marginalità cui ci hanno relegato le performance pseudonazionaliste del governo Berlusconi; in parte per l’impasse dell’UE che si traduce nella responsabilizzazione dei suoi membri più forti; e in parte per le conseguenze, sia di immagine che di sostanza, di quel graduale «declino» economico del paese che resta il nostro problema di fondo.

Rimediare ai pregiudizi negativi che si sono accumulati negli ultimi anni (l’Italia come regime di governo incoerente, istrionico e fondamentalmente introverso) sarà il compito più urgente ma in fondo anche meno difficile per il nuovo governo. Meno semplice sarà contribuire alla ripresa di forti politiche europee comuni, visto che lì gli ostacoli sono molteplici e robusti. Non di meno è indiscutibile che ogni prospettiva per una politica estera italiana coerente con gli interessi del paese, ed effettivamente influente, passa per l’irrobustimento delle sedi multilaterali e l’innalzamento del profilo internazionale dell’Unione europea, in particolare con il massimo sviluppo possibile di una politica estera e di sicurezza comune.

Più complesso ancora, ma strategicamente decisivo, sarò l’operare sul terzo terreno. Con l’ascesa di grandi protagonisti in Asia e altrove, un certo declino relativo dei paesi europei è un dato di fatto. Il rafforzamento della UE è l’unica possibile risposta positiva a tale dinamica storica. Ma l’Italia deve anche invertire il trend di diminuzione delle sue specifiche risorse per la politica estera, imparare a selezionare e programmare oculatamente le proprie aree prioritarie d’azione, sviluppare quegli strumenti di public diplomacy in cui siamo terribilmente carenti.

Dobbiamo soprattutto tornare a pensare in termini di competitività socio-economica del paese, per riposizionarci tra quelle economie che producono innovazione e crescita, invece di accontentarci di gestire un declino che quanto più progredisce tanto meno sarà indolore. Senza ritrovare la volontà collettiva di crescere e cambiare, di sfruttare la globalizzazione come insieme di opportunità per la trasformazione, non potremo avere una politica estera capace di affermare gli interessi del paese.