Giustizia: appunti per un programma di governo

Di Redazione Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Quattro anni di assedio all’indipendenza della magistratura da parte delle forze di Governo hanno avuto l’effetto non solo di erodere le garanzie dei cittadini, ma anche di determinare una sorta di narcosi sui reali problemi della giustizia italiana. Per questo, compito odierno del centrosinistra in tema di giustizia deve essere quello di produrre un’analisi realistica della situazione e costruire un nuovo programma di governo, che vada oltre il pur necessario impianto difensivo su cui ci si è attestati negli ultimi anni. Un programma di governo che comprenda sì l’abrogazione delle cosiddette leggi-vergogna e di ogni provvedimento lesivo del principio costituzionale dell’indipendenza dell’ordine giudiziario; ma che sappia al contempo interpretare sia le istanze di rinnovamento dell’amministrazione della giustizia e dei ceti professionali che vi concorrono, sia le domande di garanzie e di efficienza dei cittadini.

Quattro anni di assedio all’indipendenza della magistratura da parte delle forze di Governo hanno avuto l’effetto non solo di erodere le garanzie dei cittadini, ma anche di determinare una sorta di narcosi sui reali problemi della giustizia italiana.

Per questo, compito odierno del centrosinistra in tema di giustizia deve essere quello di produrre un’analisi realistica della situazione e costruire un nuovo programma di governo, che vada oltre il pur necessario impianto difensivo su cui ci si è attestati negli ultimi anni.

Un programma di governo che comprenda sì l’abrogazione delle cosiddette leggi-vergogna e di ogni provvedimento lesivo del principio costituzionale dell’indipendenza dell’ordine giudiziario; ma che sappia al contempo interpretare sia le istanze di rinnovamento dell’amministrazione della giustizia e dei ceti professionali che vi concorrono, sia le domande di garanzie e di efficienza dei cittadini.

L’indipendenza della magistratura, come anche l’autonomia dell’avvocatura, infatti, potranno essere tutelate efficacemente solo avviando una seria politica di riforma della giustizia italiana.

Occorre partire dalla consapevolezza che l’enorme rilievo sociale della giustizia e la «politicità» della funzione giudiziaria non rappresentano una patologia italiana, bensì un fenomeno comune a tutte le democrazie contemporanee, essenzialmente connesso alla diffusione del modello del cosiddetto stato sociale.

Il che, significa certamente rifiutare ogni suggestione che colleghi l’espansione del giudiziario a dinamiche interne ad apparati burocratici e ceti professionali; ma deve significare, anche, consapevolezza dei nuovi poteri di magistrati e avvocati, e, dunque, definizione per tutti gli operatori del diritto di un più pregnante quadro di responsabilità, che in democrazia è corollario indispensabile di ogni forma di potere.

Un progetto di governo per la giustizia, dunque, non potrà prescindere dalla riforma dell’ordinamento giudiziario e dell’ordinamento forense.

E tuttavia, sarà necessario non fermarsi alle tematiche ordinamentali. Occorre, infatti, avviare il superamento della vera anomalia italiana rappresentata dall’abnorme durata dei procedimenti giudiziari, attraverso interventi sia sul piano dell’organizzazione del servizio giustizia sia su quello delle norme di diritto sostanziale e processuale.

Il tutto, assicurando la piena coerenza del progetto di riforma con il processo di costruzione dello spazio giuridico europeo di sicurezza, libertà e giustizia.

 

Per una giustizia più efficiente, più rapida e più certa

La giustizia italiana è malata di lentezza e di incertezza. Il processo di integrazione europea presuppone che l’Italia sia in grado di rendere giustizia in tempi accettabili, al pari degli altri Paesi dell’Unione. La modifica dell’art. 111 della nostra Costituzione, del resto, sulla scia di quanto già enucleabile dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ha confermato che la ragionevole durata del processo rappresenta una vera e propria garanzia individuale di rilievo costituzionale del cittadino italiano, da contemperare con gli altri diritti della persona costituzionalmente garantiti.

D’altro canto, sia la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti e dei tempi necessari per ottenere giustizia, sia la certezza delle sanzioni civili e penali irrogate, rappresentano princìpi di civiltà propri di ogni società democratica, nonché fattori indispensabili per assicurare un ordinato sviluppo dell’economia.

Occorre, dunque, una giustizia più rapida e più certa.

Per conseguire questi obiettivi sono necessari sì maggiori mezzi materiali e una migliore organizzazione del servizio, ma anche una riforma di sistema, sostanziale e processuale, che prenda le mosse da una seria riflessione sul rapporto tra efficienza e garanzie, vale a dire sulla necessità di bilanciamento tra diritti dell’individuo e diritti della società.

Sarebbe utile, preliminarmente, distinguere l’amministrazione della giurisdizione dall’amministrazione per la giurisdizione. La prima, direttamente afferente all’esercizio della giurisdizione in senso stretto (applicazioni, supplenze, tabelle, e simili) deve restare appannaggio degli organi del circuito di governo autonomo della magistratura. La seconda (gestione del personale amministrativo, degli stabili, dei rapporti con gli enti locali, etc.) deve essere affidata a dirigenti o manager appositamente formati, attraverso il decentramento delle funzioni organizzative del Ministero della Giustizia.

Puntare a una ragionevole durata dei processi, peraltro, significa attivazione di concreti strumenti deflattivi, con la consapevolezza che non tutto potrà essere fatto a Costituzione invariata. Sul versante civile, ad esempio, occorre sì il potenziamento dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie (camere arbitrali, etc.), ma anche la sperimentazione di modelli arbitrali di derivazione contrattuale (ad es. nel settore del contenzioso previdenziale) e l’introduzione di arbitrati del genere «obbligatorio». Il tutto, senza rinunciare all’introduzione di modelli arbitrali di derivazione legislativa.

Sono maturi i tempi, inoltre, per sgravare la giustizia civile da tutti i giudizi che hanno finalità di mera liquidazione di diritti sostanzialmente incontroversi, per i quali resta indispensabile la funzione di un «terzo» ma non anche la garanzia di un vero processo. In tali casi, si potrebbe introdurre un sistema di arbitrato su questioni, così come si potrebbe parzialmente degiurisdizionalizzare la fase dell’esecuzione forzata dei provvedimenti giudiziari.

Occorre porre un freno alla proliferazione dei riti. Da strumento di garanzia la procedura si sta trasformando in nemica del cittadino, in quanto fattore che alimenta l’incertezza sia quanto all’esito sia quanto alla durata dei processi. Bisogna interrogarsi sulla possibilità di una drastica semplificazione dei riti, ipotizzando almeno per il settore civile un unico modello processuale davanti al giudice monocratico e uno davanti al giudice collegiale. Un modello processuale, peraltro, in cui il giudice goda di poteri tali da consentirgli un’effettiva direzione del contraddittorio.

Occorre, anche, affrontare il nodo delle garanzie. Prima fra tutte il ricorso per cassazione, oggi garanzia solo formale ma non effettiva. Bisogna ridurre le ipotesi di ammissibilità del ricorso per cassazione, a partire da quella afferente al difetto di motivazione. L’ipertrofia della Corte di Cassazione, oltre a rappresentare fattore di disfunzione, ne annulla la funzione nomofilattica, con inevitabile lesione del principio della tendenziale certezza del diritto.

Più in generale, comunque, almeno per il civile sarebbe utile esplorare la strada di una offerta di tutela dei diritti attraverso la scelta tra due opzioni alternative: o il doppio grado di merito; ovvero, la garanzia del rimedio di legittimità contro la sentenza in unico grado.

Inevitabilmente diverso il discorso per il settore penale, dove il bilanciamento dei peculiari valori in gioco impone maggiori cautele sul terreno delle garanzie.

Anche nel settore penale, peraltro, occorre intervenire con decisione per eliminare i profili di lentezza e di incertezza che connotano l’attività giudiziaria sul versante sia sostanziale che processuale.

È necessaria un’innovazione profonda e unitaria del codice e della legislazione penale speciale da un lato, e del processo penale dall’altro, per restituire certezza al diritto penale, assicurare la giusta durata dei processi, ed eliminare le innumerevoli contraddizioni procedurali. Il tutto, rifuggendo con forza da ogni suggestione di nuovi interventi parziali, che avrebbero come sicura conseguenza quella di generare ulteriori discrasie nel sistema penale. Capisaldi di un’attività riformatrice dal respiro tanto ampio quanto unitario dovrebbero essere sul terreno del diritto penale sostanziale:

la limitazione del potere discrezionale del giudice nella determinazione della sanzione, che oggi ne fa un attore più che un esecutore della politica criminale;

una profonda rivisitazione del modello sanzionatorio, che riduca l’utilizzazione della pena detentiva (spesso, peraltro, solo virtuale) e la sostituisca ove possibile con pene interdittive e pecuniarie effettivamente applicate;

una riforma della parte speciale del codice penale e della legislazione penale speciale, ispirata al principio della residualità della tutela penale.

Quanto al processo, deve essere assolutamente abbandonato il modello ibrido che connota la vigente disciplina processuale, partendo dalla consapevolezza che sommare garanzie afferenti a modelli processuali differenti produce effetti paralizzanti e nocivi.

Si dovrebbe optare coraggiosamente per un modello di processo che non ricalchi pedissequamente rigidi schemi di tipo accusatorio, poco consoni a una realtà quale quella italiana che vuole restare ancorata al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma che sia in grado di assicurare pienamente i diritti dell’imputato tanto nella fase delle indagini preliminari (oggi affidata unicamente all’iniziativa del pubblico ministero) quanto in quella del dibattimento.

Il tutto, puntando anche a una semplificazione dei riti, quanto meno con riferimento ai reati di minore allarme sociale.

Occorre, in primo luogo, intervenire sull’udienza preliminare, riconducendola alla sua originaria funzione di filtro rispetto al dibattimento. Deve essere corretta, in proposito, l’attuale deriva legislativa che, anche attraverso l’attribuzione al GUP di esorbitanti poteri istruttori propri della fase dibattimentale, ha ormai reso l’udienza preliminare un vero e proprio autonomo grado di giudizio.

Appare indispensabile, in secondo luogo, disincentivare l’uso dilatorio del processo. In questa prospettiva, deve osservarsi che le possibilità di patteggiamento nel grado di appello ovvero di impugnazione per cassazione della sentenza di patteggiamento, appaiono del tutto incoerenti con la ratio dell’istituto e meritano di essere eliminate. Nella stessa logica, dovrebbe essere eliminata la possibilità di cumulo dei diversi benefici riconosciuti dall’ordinamento (es. degli sconti di pena previsti per il patteggiamento e per il rito abbreviato).

Per altro verso, nell’ottica di riduzione dei tempi del processo occorrerebbe procedere a un’ulteriore incentivazione dell’utilizzo del rito abbreviato. In tal senso, si potrebbe pensare a un potenziamento delle possibilità di integrazioni istruttorie, con corrispondente limitazione dei poteri di interdizione del giudice, ma anche a un potenziamento dei vantaggi connessi al rito, operando sia sul versante della diminuzione della pena sia soprattutto su quello della limitazione della discrezionalità del giudice nella determinazione della stessa.

In ordine ai mezzi di gravame, prioritaria resta l’esigenza di deflazionare il giudizio di cassazione limitandolo a stretti motivi di diritto, con un rigoroso vaglio preventivo all’udienza circa la fondatezza dei ricorsi. In un’ottica di sistema, poi, appare necessario un complessivo ripensamento dei limiti e della funzione stessa del grado di appello.

Quanto al tema della prescrizione, non può che essere affrontato congiuntamente a quello relativo alla durata dei processi, considerata la reciproca influenza dei due fenomeni. Abbreviare i termini della prescrizione in un contesto di perdurante abnorme durata dei processi, infatti, significherebbe vanificare di fatto l’applicazione di numerose norme penali; per altro verso, una riduzione dei tempi necessari per arrivare a sentenza renderebbe accettabile la previsione di interruzione dei termini di prescrizione alla data del provvedimento del GUP che dispone il giudizio, o quanto meno della sentenza di condanna. In ogni caso, nel processo penale andrebbe escluso il decorso dei termini di prescrizione dopo il grado di appello, anche al fine di vanificare l’uso dilatorio del ricorso per cassazione. Ultima considerazione riguarda l’esigenza di concentrazione delle udienze penali, già prevista dal codice di procedura ma di fatto vanificata nella prassi giudiziaria. Il problema, decisivo per affermare il principio della ragionevole durata del processo, deve essere affrontato a livello sia organizzativo sia legislativo, nella consapevolezza che la sua risoluzione passa anche per il superamento di consolidate prassi e di reciproche convenienze dei diversi attori del processo, e dunque per nuove modalità di organizzazione dell’attività del magistrato e della professione dell’avvocato.

 

Per una responsabile indipendenza della magistratura

La piena indipendenza della magistratura dal potere politico e da altri poteri deve essere assicurata in quanto fondamentale garanzia costituzionale dei cittadini per l’imparziale applicazione della legge.

D’altro canto, in tutte le democrazie contemporanee l’affermazione dello stato sociale e della legislazione promozionale dei diritti ha comportato l’espansione del potere dei giudici. E poiché in democrazia ad ogni potere deve corrispondere pari responsabilità, una maggiore responsabilizzazione dei magistrati è corollario indispensabile di questo processo.

La responsabilità è l’altra faccia dell’indipendenza dei magistrati.

Occorre difendere il modello pluralistico dell’assetto dei poteri delineato dalla nostra Costituzione, ribadendo che non può esservi alcuna gerarchia tra potere politico legittimato elettoralmente e poteri neutri di controllo che fondano differentemente la propria legittimazione.

L’insieme dei poteri neutri deve godere di peculiari garanzie di indipendenza rispetto a possibili invadenze del potere politico forte della legittimazione popolare, che dovranno essere tanto più intense quanto più l’attività esercitata incida nella vita sociale, politica ed economica.

Il che, significa pensare a un sistema a cerchi concentrici, che assicuri adeguata indipendenza ai componenti di tutte le istituzioni di controllo.

In questo senso, appare ormai indispensabile una «costituzionalizzazione» delle Authority la cui attività incida su diritti costituzionali della persona. Occorre varare regole uniformi quanto alle modalità di elezione, ai requisiti di professionalità e al regime delle incompatibilità dei componenti delle Autorità indipendenti, allo scopo di evitare forme di subalternità al potere politico e di rendere trasparenti i criteri di scelta. In proposito, si potrebbe pensare di affidare l’elezione dei componenti almeno delle cd. Authority di primo livello alle commissioni parlamentari di settore, con la previsione di maggioranze qualificate.

Ovviamente, le garanzie di indipendenza – e correlativamente le forme di responsabilità – dovranno essere tanto più stringenti quanto più ci si avvicina al “nocciolo intangibile” del sistema dei controlli, rappresentato dalla giurisdizione.

Tutti coloro che esercitano funzioni giurisdizionali (segnatamente ordinarie, amministrative e contabili) devono godere di uguali garanzie e devono assumere uguali responsabilità. È tempo di dar vita a un’unica figura di magistrato, con identità di percorsi di accesso nonché di diritti e di doveri, di garanzie e di indipendenza, di regole di carriera e di regole disciplinari.

Una giurisdizione così unificata, ovviamente, richiede un unico organo di giustizia disciplinare, una Corte di Giustizia inserita nei circuiti di governo autonomo delle magistrature ma assolutamente distinta dagli organi oggi esistenti; una Corte composta da componenti togati e laici eletti al proprio interno dai diversi organi di governo autonomo, dai quali fuoriuscirebbero al momento dell’elezione, cui affidare anche funzioni di riesame delle decisioni amministrative di detti organi. Il tutto, senza rinunciare all’idea di un unico organo di governo autonomo delle magistrature, pur se diviso in sezioni per i giudici ordinari, amministrativi, contabili, tributari e militari.

Non va reintrodotta una carriera dei magistrati, pena il riemergere di «timori e speranze» nella magistratura. Opporsi al sistema dei concorsi, tuttavia, non significa accettare il sistema attuale, fonte di lassismo nelle valutazioni professionali e comportamentali dei magistrati.

Regole di valutazione più stringenti sono senz’altro necessarie, a partire da criteri maggiormente analitici e dalla previsione del blocco della progressione stipendiale del magistrato in caso di valutazione negativa del suo operato. Sarebbe utile, inoltre, rendere meno traumatica la sanzione della rimozione dall’ordine giudiziario per ipotesi di demerito non connesse a reati – ipotesi oggi di mera scuola – prevedendo la possibilità di transito nei ruoli della P.A.

Il nodo fondamentale, peraltro, è quello della composizione degli organi di valutazione della professionalità dei magistrati. Buone regole, infatti, vi sono già oggi (basti pensare all’art.190 O.G. sul giudizio di idoneità al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa). Spesso, invece, del tutto insoddisfacenti sono i criteri con cui detti organi applicano quelle regole ai casi concreti.

In questa prospettiva, è essenziale riportare a trenta il numero dei componenti elettivi del CSM, ingiustificatamente ridotto con pesanti conseguenze sull’efficienza dell’organo.

Ma è ineludibile, anche, una radicale riforma dei Consigli giudiziari, oggi composti su base esclusivamente «domestica ». Occorre dare vita a veri e propri Consigli regionali della giustizia sul modello del CSM: eletti su base regionale, anche allo scopo di evitare eccessive compenetrazioni tra valutatori e valutati; con una rappresentanza dei giudici di pace; con una componente laica eletta con maggioranza qualificata dai Consigli regionali tra avvocati e professori universitari di diritto, sulla base di incompatibilità territoriali, espressione della sovranità popolare e mitigatrice di inevitabili riflessi corporativi.

A detti Consigli giudiziari riformati andrebbero affidate competenze esclusive, tra cui l’intero governo della magistratura cd. onoraria, oggi assicurato solo sulla carta dal CSM, che in realtà, quale organo unicamente centrale, non è assolutamente in grado di gestire efficacemente né la fase dell’accesso né tanto meno quella della valutazione di professionalità e comportamentale di giudici di pace, giudici onorari, giudici aggregati e vice-procuratori onorari.

L’azione penale deve restare obbligatoria, ma i criteri di priorità nel suo esercizio non possono continuare a essere meramente discrezionali. Già oggi il CSM sostanzialmente concorre di fatto alla definizione di detti criteri, attraverso l’approvazione delle cd. tabelle che disciplinano l’organizzazione degli uffici giudicanti penali e delle Procure.

Si potrebbe ipotizzare, allora, un sistema «misto», nel quale i Consigli giudiziari riformati, sulla base delle indicazioni dei Capi degli uffici, formulano proposte di priorità valevoli per ciascuna Regione; il CSM rimette dette proposte alle Camere, le quali rassegnano le proprie osservazioni; infine, il CSM definisce i criteri territoriali di priorità in sede di approvazione delle cosiddette «tabelle» degli uffici giudiziari. Nella relazione annuale al Parlamento, poi, il CSM dovrebbe riferire sulle priorità individuate e sulla concreta applicazione dei criteri dettati da parte dei singoli uffici giudiziari.

Il Pubblico ministero deve rimanere (meglio, accentuare il profilo di) organo di giustizia, a garanzia dei diritti di tutti i cittadini. Questo, tuttavia, comporta un rigoroso rispetto del dovere imposto al PM dall’art. 358 c.p. p. di ricerca delle prove anche in favore dell’imputato, dovere la cui violazione deve diventare specifica figura di responsabilità disciplinare.

In questa prospettiva, la separazione delle carriere rappresenta un rimedio peggiore del male, rischiando di contribuire alla formazione di magistrati dall’ottica esclusivamente e pregiudizialmente accusatoria. Il vero antidoto contro l’affievolimento nell’azione di molti PM della «cultura della prova», viceversa, è la circolazione obbligatoria e periodica dei magistrati nelle diverse funzioni, con l’obbligo di esercizio di funzioni giudicanti prima dell’accesso a quelle requirenti, e con un limite di permanenza decennale nelle diverse funzioni.

Solo un diverso approccio culturale al tema della prova da parte dell’intera magistratura, del resto, e non certo il ricorso a improbabili meccanismi disciplinari, può consentire di limitare il fenomeno dell’esercizio non sempre sufficientemente meditato dei poteri cautelari da parte del GIP e del PM in tema di sequestro e soprattutto di privazione della libertà personale. Fermo restando che, in proposito, appare assolutamente indispensabile un più equilibrato rapporto di organico tra GIP e PM, considerato che la situazione attuale espone inevitabilmente il giudice ai rischi di un atteggiamento meramente passivo rispetto alle richieste cautelari provenienti dalle Procure.

Il corto circuito mediatico-giudiziario che a volte – e spesso proprio in coincidenza con l’adozione di provvedimenti cautelari - si determina tra mass media e Uffici giudiziari (e segnatamente Procure della Repubblica), produce effetti distorsivi sull’intero sistema, e lede non di rado fondamentali garanzie del cittadino imputato. Nel rispetto della funzione democratica dell’informazione, un pur parziale rimedio può essere offerto dall’affidamento al Capo dell’Ufficio (presidente di tribunale o Procuratore della Repubblica) dell’esclusività del rapporto con i media,  costruendo un’autonoma figura di illecito disciplinare per i magistrati che indicano conferenze-stampa, rilascino interviste o comunque forniscano informazioni ai media con riferimento a indagini o processi in corso di propria competenza.

La professionalità rappresenta una delle principali fonti della legittimazione dei magistrati. Per questo, la formazione professionale iniziale e permanente deve diventare obbligatoria ed essere affidata a un’apposita Scuola della magistratura, le cui valutazioni periodiche – in quanto gestita anche dal CSM – devono concorrere alla definizione del profilo professionale del magistrato.

L’accesso alla magistratura deve rimanere affidato a un concorso pubblico su base nazionale, con possibilità di decentramento delle necessarie prove pre-selettive. In proposito, si potrebbe pensare di sostituire i quiz con un’unica prova scritta.

Ruolo decisivo nella formazione non solo degli aspiranti magistrati ma dei giuristi in genere, devono giocare apposite scuole comuni di formazione post-lauream, gestite di concerto da Consigli giudiziari riformati, Ordini degli avvocati e università, scuole a numero chiuso, cui accedere per esame, e il cui diploma rappresenti titolo preferenziale per l’accesso alla magistratura e all’avvocatura.

È indispensabile, peraltro, ripristinare la previsione dell’accesso concorsuale «laterale» per avvocati con almeno cinque o dieci anni di professione, onde consentire la necessaria «ventilazione» della categoria.

Occorre, infine, affrontare il nodo della magistratura non professionale.

Le rilevantissime funzioni ormai affidate a giudici di pace, giudici onorari, giudici onorari aggregati e vice-procuratori onorari, impongono più adeguati modelli di selezione e di controllo, auspicabilmente da affidare a Consigli giudiziari riformati. Più nel dettaglio, occorre definitivamente superare l’equivoco in cui si dibatte la figura del giudice di pace, e scegliere definitivamente tra modello di prossimità e modello semi-professionale, con tutte le intuibili conseguenze anche quanto alla durata dell’incarico.

 

Per l’autonomia e la modernizzazione dell’avvocatura

L’avvocatura rappresenta tramite essenziale per l’affermazione del diritto costituzionale dei cittadini alla giustizia. Il rilievo costituzionale della professione forense, di conseguenza, deve informare ogni riflessione sul tema dell’avvocatura.

In questa prospettiva, obiettivo prioritario di ogni riforma dell’ordinamento professionale deve essere quello di contribuire ad assicurare il diritto alla giustizia dei cittadini, e dunque l’indipendenza e la professionalità degli avvocati, oltre che adeguare il quadro deontologico della responsabilità ai nuovi poteri degli avvocati. Il che, deve comportare per l’avvocato non solo la rivendicazione di specifici dritti, ma anche l’accettazione di doveri del tutto peculiari rispetto a quelli di altri liberi professionisti. Appare improprio, pertanto, affrontare il tema della riforma delle professioni senza considerare le peculiari specificità dell’avvocatura, connesse al suo rilievo costituzionale.

Il sistema degli Ordini deve essere mantenuto, ma solo a condizione che esso rappresenti effettiva garanzia per i cittadini utenti della giustizia di serietà deontologica e di capacità professionale degli avvocati. A differenza di altre libere professioni, del resto, per l’avvocatura non può certo dirsi che il sistema degli Ordini rappresenti una limitazione alle possibilità di accesso e al dispiegarsi della libera concorrenza. Semmai è vero il contrario, considerate le attuali dimensioni dell’avvocatura italiana (160.000 avvocati circa, con tassi di incremento annuo del 10%). Dimensioni, queste, che impediscono di assicurare sia una qualità generalizzata delle prestazioni ai cittadini, sia livelli decorosi di reddito – e dunque di indipendenza – a tutti gli avvocati.

La scarsa remuneratività della professione forense in particolare nelle regioni meridionali, in quanto potenzialmente lesiva dell’indipendenza dell’avvocato, impone certo l’esigenza di favorire un allargamento del mercato; ma impone soprattutto, nell’ottica di una sempre più efficace tutela del cittadino-utente, il passaggio a una dimensione maggiormente imprenditoriale della professione. Proprio in considerazione del sotteso interesse pubblico, allora, il legislatore deve porsi il problema di come incentivare la costituzione di società professionali, di talché la nuova dimensione della professione venga vista dall’avvocato come fonte non di ulteriori obblighi bensì di nuove opportunità.

Il rilievo costituzionale dell’avvocatura impone un dovere di assoluta trasparenza nei rapporti con l’utente. Il che, deve significare non solo pieno rispetto del dovere deontologico di non assumere difese in settori nei quali non si può vantare sufficiente preparazione; ma deve significare, anche, dovere di informativa circa il prevedibile costo della prestazione. In questa ottica, l’abolizione del divieto del patto di quota-lite (eventualmente mitigato dal mantenimento di un minimo tariffario inderogabile), consentirebbe di lasciare alla dialettica del rapporto professionistacliente l’opzione per l’uno o per l’altro sistema.

La professionalità dell’avvocato rappresenta corollario indispensabile del rilievo costituzionale della professione. In questa ottica, l’accesso alla professione va reso maggiormente selettivo, e il concorso (unico nazionale ovvero decentrato presso diverse sedi locali, ma non certo presso ogni distretto) deve rappresentare il compimento di un complesso percorso di professionalizzazione, cui dovrebbero contribuire sinergicamente università, scuole comuni di formazione e scuole forensi.

L’inevitabile scarsità dei posti disponibili presso le varie scuole, peraltro, impone di pensare a una doppia selezione tra gli aspiranti avvocati. Solo coloro che vengono dichiarati idonei dopo una prova preselettiva verrebbero ammessi alle scuole forensi o alle scuole comuni, oltre che al tirocinio pratico; tirocinio, che dovrebbe essere prestato non solo presso studi legali ma anche presso uffici pubblici e uffici giudiziari. Al termine del periodo di pratica, fatto di frequentazione delle scuole e di tirocinio, si dovrebbe sostenere il vero e proprio esame di Stato. In questo modo, sarebbe possibile assicurare a un ridotto numero di aspiranti una seria formazione iniziale, intesa come garanzia per il cittadino-utente ma anche come diritto del praticante avvocato, il cui inveramento non può restare affidato al censo o a rapporti di natura meramente privata.

Ugualmente per concorso, e non per mera anzianità, deve essere disciplinato l’accesso al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori.

Le garanzie di professionalità, peraltro, vanno assicurate all’utente anche attraverso la formazione permanente dell’avvocato. Del resto, l’eventuale riconoscimento dell’esclusiva rispetto a spazi di mercato quale la consulenza legale può t rova re fondamento solo nell’esigenza di garantire al cittadino il godimento di peculiari conoscenze da parte del professionista. In proposito, si potrebbe ipotizzare un sistema che incentivi l’aggiornamento professionale dell’avvocato, ad esempio consentendo la deducibilità fiscale delle orelavoro impiegate nella frequenza di periodici corsi di aggiornamento.

Rivendicare il rilievo costituzionale dell’avvocatura, infine, deve significare, approccio nuovo al tema della responsabilità.

Negli ultimi anni nuovi poteri sono stati conquistati dall’avvocatura (basti pensare, in proposito, alle indagini difensive), con conseguente esigenza che a maggiori poteri corrisponda maggiore responsabilità. Ovviamente, parlare di responsabilità significa parlare di governo dell’avvocatura. Il sistema ordinistico deve essere riformato, anche attraverso diversi e più trasparenti meccanismi elettorali, sino a configurare l’avvento di un vero e proprio sistema di governo autonomo dell’avvocatura, con il conferimento al CNF del potere di regolare e disciplinare autonomamente le modalità di esercizio della professione senza l’intervento eteronomo del ministro della giustizia.

Per ciò che concerne l’esercizio della funzione disciplinare, decisiva per l’affermazione di un più pregnante quadro di responsabilità, gli Ordini dovrebbero cedere i propri attuali poteri disciplinari a nuovi organi, istituiti su base distrettuale o meglio regionale per allontanare il giudicato dal giudicando, la cui componente maggioritaria sia eletta dai vari Ordini territoriali, e che vedano la partecipazione pur minoritaria di componenti «laici», eletti con maggioranza qualificata dai Consigli regionali tra cittadini con particolari qualifiche, quali espressione della sovranità popolare.

E ugualmente a composizione mista dovrebbe essere un nuovo organo disciplinare centrale, le cui funzioni giurisdizionali sarebbero esaltate dalla partecipazione al collegio di una componente «laica», eletta dal parlamento Il tutto, sul modello del sistema che prefiguriamo per la magistratura.

 

Per un’Europa dei diritti e delle regole

Ai processi di globalizzazione economica deve accompagnarsi la globalizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali tradotta in regole comuni, ma anche la realizzazione di istituzioni e di autorità in grado di tutelare quei diritti e di affermare quelle regole al di là dei meccanismi ormai insufficienti degli Stati nazionali.

È questo, non a caso, il cammino intrapreso dall’Unione europea.

Il processo di costruzione dello spazio europeo di sicurezza, libertà e giustizia, è terreno su cui la globalizzazione dei diritti e delle regole è già in fase di avanzata realizzazione. Occorre, ora, avviare la definizione di un modello di giustizia europea, che dovrà essere posto a base delle iniziative e delle scelte del nostro paese. Essenziale, nell’ottica della tutela dei diritti, appare il rafforzamento degli organi giurisdizionali europei. In proposito, l’allargamento dei confini dell’UE rende ineludibile affrontare il problema del decentramento degli organi di giustizia comunitari, senza escludere la strada della «comunitarizzazione» di organi di giustizia nazionali.

Per assicurare maggiori certezze al processo di tutela dei diritti, inoltre, è necessario chiarire definitivamente in sede di legislazione nazionale la disciplina della cd. pregiudizialità comunitaria anche per la nostra Corte costituzionale. Come pure, in sede europea, è necessario chiarire normativamente i rapporti tra Corte di giustizia e Corte di Strasburgo.

L’inceppamento dei meccanismi che avrebbero dovuto portare all’entrata in vigore della Costituzione europea rischia di ridurre l’UE a un’area di libero scambio. Occorre che i cittadini europei percepiscano l’Unione come fattore che favorisce l’espansione dei diritti e il rafforzamento della sicurezza di tutti e di ciascuno.

Per questo, è necessario accelerare il completamento della costruzione dello spazio europeo di sicurezza, libertà e giustizia. E in quest’ottica, sarà indispensabile da parte dell’Italia un approccio al problema inverso a quello seguito negli ultimi quattro anni.

Occorrerà cominciare, in proposito, rivedendo le norme di attuazione della decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, basata «su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri». Le nostre disposizioni di attuazione, invece, appaiono fondate sul principio della sfiducia reciproca, tanto da affidare ai giudici nazionali la valutazione circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

È necessario superare questa impostazione, pena la vanificazione non solo della decisione sul mandato di arresto europeo, ma anche le più recenti decisioni-quadro sul mutuo riconoscimento delle decisioni penali in tema di sanzioni pecuniarie e sulla sicurezza contro gli attacchi informatici.

Il ravvicinamento delle legislazioni e degli ordinamenti dei paesi dell’UE è obiettivo fondamentale, ma inevitabilmente di lungo periodo. Nell’immediato, occorre accettare pienamente il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie dei diversi Stati membri, e al contempo rafforzare gli strumenti di cooperazione tra le autorità giudiziarie e di polizia dei paesi dell’Unione.

Solo in un clima di fiducia reciproca sulla civiltà e democraticità dei rispettivi ordinamenti giuridici, infatti, sarà possibile il rafforzamento delle libertà, delle garanzie e della sicurezza dei cittadini europei.