La controriforma elettorale: logiche partigiane, disastri sistemici, riduzione del danno

Di Stefano Ceccanti Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Per spiegare in modo non depressivo (per chi legge) i termini aridi, anche se tutt’altro che irrilevanti, della controriforma elettorale all’esame del Senato, possiamo utilizzare tre passaggi concettuali che ne illustrano i fondamenti, denominandoli rispettivamente (e per il momento enigmaticamente): l’incubo dell’aprile 1996, l’effetto Lazzaro, la riduzione del Purgatorio.

Per spiegare in modo non depressivo (per chi legge) i termini aridi, anche se tutt’altro che irrilevanti, della controriforma elettorale all’esame del Senato, possiamo utilizzare tre passaggi concettuali che ne illustrano i fondamenti, denominandoli rispettivamente (e per il momento enigmaticamente): l’incubo dell’aprile 1996, l’effetto Lazzaro, la riduzione del Purgatorio.

 

L’incubo del 1996

Con questo primo titolo ci si riferisce alla sera delle elezioni del 1996, quando Silvio Berlusconi si scoprì capo dell’opposizione, pur avendo vinto nella competizione sulla scheda grigia, quella del recupero proporzionale della camera. Per anni Berlusconi non si diede pace per quella «strana» sconfitta, spesso parlando di probabili brogli elettorali, mai documentati né documentabili. Altri osservatori non attenti, come anche recentemente il ministro Tremonti, hanno poi parlato di un effetto distorcente del sistema elettorale vigente, che avrebbe premiato in seggi chi aveva perso in voti, utilizzando tale errato argomento per difenderne il cambiamento.

In realtà nel 1996 l’Ulivo aveva vinto in voti e in seggi nella parte maggioritaria, non solo in seggi: pesando il maggioritario per tre quarti dell’insieme, ciò aveva determinato il successo complessivo, nonostante i risultati del proporzionale. Lo studio mirato dei dati, di quelle e di altre elezioni, fece invece capire ad altri più accorti consiglieri che non si trattava di un caso isolato, ma di un dato ricorrente: un 2-3% circa di voti in più sul maggioritario per il centrosinistra rispetto alla simultanea competizione proporzionalista. Una costante che, ad esempio, nelle ultime elezioni regionali, ha determinato lo spostamento di Lazio e Piemonte grazie ai voti maggioritari, mentre con quelli proporzionali avrebbe prevalso il centrodestra.

Come evitare quindi il ripetersi di quell’incubo? Semplice: eliminando il voto maggioritario per la coalizione. Nelle condizioni odierne, con uno scarto decisamente superiore ai 2-3 punti percentuali, l’esito non sarebbe miracoloso, capace di sovvertire il risultato, ma ne attutirebbe la dimensione. Fin qui la logica partigiana di questa prima fondamentale innovazione delle nuove leggi di camera e senato. Ma quali sarebbero i disastri sistemici, non considerati dai nostri (contro)riformatori, preoccupati solo per le loro sorti di breve periodo?

Il voto esplicito ad una coalizione non ha un mero significato simbolico, è un elemento che di per sé tende a incentivare coesione e stabilità, è un acceleratore in quella direzione. Un parlamentare che sia eletto solo coi voti del proprio partito è diversamente responsabile per ragioni intuitive rispetto a chi, invece, debba raccogliere il consenso di tutto l’arco degli elettori della coalizione. Il voto ricevuto e quello atteso condizionano i comportamenti e non a caso le forze politiche che hanno rotto le coalizioni (Lega Nord e Rifondazione Comunista) hanno subito un doppio danno, imparando da esso: prima, in sede parlamentare, hanno subito scissioni consistenti dei parlamentari che si sono sentiti più legati alla grande maggioranza del loro elettorato che non agli organi di partito (sarebbero stati altrettanti se eletti su lista bloccata di partito?) e poi in sede elettorale hanno subito una dura contrazione in seggi per l’impossibilità di vincere da soli in molti collegi nella parte maggioritaria (Rifondazione non si presentò nel maggioritario alla camera, sapendo che non avrebbe ottenuto seggi, con una semi-desistenza; la Lega ne prese pochi avendo un elettorato molto concentrato). Il prezzo pagato spinse entrambi a riconsiderare le scelte fatte e a rientrare in una logica coalizionale.

Ma uno schieramento che si era aspramente diviso per larga parte della legislatura aveva certo problemi seri ad andare alle urne facendo votare ai leghisti il candidato Tabacci o agli elettori dell’UDC il ministro Calderoli. Per questo non ha ascoltato gli argomenti di sistema.

Passare da un sistema in cui l’85% dei deputati e il 100% dei senatori sono coalizionali a uno in cui, invece, di coalizionale c’è solo una vaga indicazione di un programma (i programmi, come si sa, camminano sulle gambe degli uomini) e quella del leader della coalizione (che dovrebbe essere il candidato premier) è di per sé un elemento fortemente destabilizzante. Basti pensare che una forza minore che voglia avere visibilità e che ritenga di trovarsi in una coalizione destinata a probabile sconfitta avrebbe ora tutto l’interesse ad andare da sola, separandosi in tempo: non perderebbe nessun seggio, a differenza del Mattarellum, e anzi potrebbe persino guadagnarne per la maggiore visibilità dovuta alla propria scelta autarchica.

Per di più queste regole spingono a portare la diversificazione scardinando anche i minimi parapetti predisposti. Non è un caso (ma è certo una grave contraddizione) se, temendo che il «voto utile» di molti elettori del centrodestra si concentri sull’indiscusso leader della coalizione, Berlusconi – come già accaduto nel 2001 – Fini e Casini, che hanno votato la legge, si siano inventati la curiosa teoria secondo la quale le elezioni politiche sarebbero una primaria per il premier, che sarebbe deciso a posteriori a favore del leader del partito più votato. Come se AN o l’UDC potessero realmente sperare di superare FI. La Lega tace, perché comunque assisa sul suo ridotto elettorato di appartenenza.

Già così, la coalizione di centrodestra per proprie logiche interne è almeno apparentemente ritornata alla condizione delle alleanze di pentapartito degli anni Ottanta, in cui era nota la coalizione, ma le elezioni si trasformavano poi in una competizione interna per la premiership. La differenza è che qui la competizione interna è solo finta, risultando evidente ab origine il primato assoluto di Berlusconi e il tentativo di attrarre voti critici contro Berlusconi sulle liste di AN e UDC per utilizzarli comunque a suo favore. Una strumentalizzazione troppo evidente per poter riuscire.

Di fronte a questi danni qual è stata la reazione del centrosinistra sul piano politico?

Evidentemente chi si incammina su una strada così partigiana, come ha fatto l’attuale maggioranza, quando decide di iniziare l’iter, mette in conto di concluderlo senza negoziare alcunché, se non meri ritocchi di lifting. Non si tratta di un’innovazione di sistema, quindi suscettibile di recepire argomentazioni diverse in nome di altre interpretazioni di incentivi o di sanzioni da introdurre, ma di una (contro)riforma per chiari interessi di parte, come tale blindata e non negoziabile.

Per questo, più che discutere su possibili emendamenti, il centrosinistra si è giustamente concentrato sulle reazioni politiche tese a ridurre il danno per sé e, soprattutto, per il sistema.

Una prima risposta è stata costituita dalle primarie, pensate a suo tempo dentro il Mattarellum, ma ancor più valide nel nuovo sistema. Infatti l’indicazione convergente del leader della coalizione da parte dei partiti non si presenta per il centrosinistra come la scelta di sovrani assoluti che patteggiano tra di loro un’intesa minimale, ma come la ratifica di una scelta partecipativa diretta di cui i partiti si pongono come strumenti e canalizzatori attivi.

Una seconda e ancora più rilevante replica (in quanto per la prima si poteva pensare ad una mera scelta inerziale) è stata quella del rilancio della lista Uniti per l’Ulivo e, attraverso di essa, di una prospettiva politica unitaria tra le forze più omogenee della coalizione. Nel paragrafo seguente si parlerà della non contraddittorietà di tale scelta rispetto al conseguimento del massimo numero di voti, qui merita concentrarsi sugli effetti stabilizzanti in termini di governo. A prescindere, infatti, dall’appeal elettorale, è evidente che inserire il giorno delle elezioni una potente spinta dissociativa tra forze che pescano in larga parte nello stesso elettorato non potrebbe non avere poi gravi conseguenze sulla coesione dell’esecutivo che nascerebbe dal voto. Per questo la riduzione del danno così operata per via politica appare tutt’altro che illogica o irrilevante.

 

L’effetto Lazzaro

Molti si sono stupiti della rapidità e dell’efficacia del blitz della maggioranza, qualcuno rimproverando il centrosinistra per aver capito in ritardo la posta in gioco. Ma forse non ci si è resi conto a sufficienza degli interessi partigiani che si sono mossi.

La riforma è stata prospettata ai parlamentari della Casa delle Libertà in un modo che a molti è parso particolarmente attrattivo: basti pensare che i sondaggi da mesi, stabilmente, assegnavano al centrosinistra 380 deputati alla camera (il premio di maggioranza si fermerebbe a 340 e sarebbe pressoché impossibile vincere in voti col 53-54% per superarlo, occorrerebbe un’onda elettorale anomala) e 190 al Senato (i 17 premi regionali, sommandosi a Molise, Val D’Aosta e Trentino lo porterebbero invece poco sopra 160).

In altri termini è stato proposto di resuscitare con un cambiamento di legge circa 70 parlamentari già politicamente morti. Molti si sono quindi visti nei panni di potenziali Lazzaro, usciti miracolosamente dal sepolcro, con la differenza che nell’episodio evangelico Lazzaro si limitava a tornare in vita per iniziativa divina a cui non contribuiva e qui invece i nostri parlamentari potevano decidere col proprio voto il ritorno alla vita politicoparlamentare. Un miracolo di cui essere addirittura coautori rappresenta certo una splendida esperienza personale e collettiva.

Restava indubbiamente un serio problema: in tre regioni (Lombardia, Veneto e Sicilia) la maggioranza perderebbe seggi e quindi non solo non si avrebbe nessun Lazzaro, ma al contrario il ritorno in vita di vari Lazzaro nelle regioni limitrofe avrebbe prodotto la morte (sempre in senso politico) di loro colleghi in dette regioni. Qui è allora entrata in gioco l’altra scelta, quella di eleggere i rappresentanti in lunghissime liste bloccate, in cui nascondere i parlamentari eletti nelle tre regioni danneggiate, spostandoli in altre zone senza dare nell’occhio. Paracadutare in modo quantitativamente ingente deputati e senatori in collegi uninominali o in liste bloccate corte (gli unici due sistemi utilizzati in Europa) comporta infatti qualche prezzo in voti, perché i singoli candidati hanno un certo peso nella campagna, non conta solo il traino del leader nazionale (per il voto di opinione) o il simbolo (per quello di appartenenza). Viceversa, poter nascondere i deportati in mezzo a molti nomi, che non compariranno sulla scheda (dove vi sarà solo il simbolo) e che non saranno neanche visibili nella campagna, è un’operazione facile e senza danni collaterali.

I disastri sistemici sono anche qui del tutto evidenti. Sul versante della governabilità le maggioranze a cui si perverrà, ammesso e non concesso che siano coerenti tra camera e senato (la maggiore differenza tra i due sistemi rispetto ad oggi aumenta le possibilità di incoerenza), sono mediamente inferiori a quelle favorite dal Mattarellum. Sul versante della rappresentanza la visibilità dei soli leader nazionali e dei simboli di partito emargina il rapporto diretto tra cittadino e singolo rappresentante, che era invece consentito dall’uninominale.

Per ciò che concerne le possibili riduzioni del danno, anche qui rileva la scelta della lista unitaria, la quale non parte affatto svantaggiata rispetto a liste separate di forze omogenee. Il differenziale negativo potrebbe ragionevolmente aversi limitatamente alle regioni del Sud, dove vi è il massimo uso del voto preferenziale, qualora si desse appunto all’elettore la possibilità di esprimere preferenze che trascinano anche il relativo voto di lista. Viceversa, il ragionamento non è affatto riproducibile su un sistema a liste bloccate, dove il voto di opinione è attratto da ciò su cui la medesima opinione può più facilmente venirsi a creare, ossia sul candidato premier. Non a caso la lista di Forza Italia nel 2001 nella competizione proporzionale a liste bloccate ha assorbito quasi tutto l’elettorato di opinione del centrodestra e la Margherita, avendo peraltro il richiamo al candidato premier Rutelli nel proprio simbolo, ha preso molti voti in più delle forze politiche che l’avevano originata (Popolari, Democratici, Lista Dini, UDEUR). Sul versante della rappresentanza, la lista unitaria dovrà poi cercare di recuperarne il valore, essendo la coalizione di centrosinistra su questo culturalmente meno centrata su una cultura politica piramidale, spingendo i candidati della lista bloccata, a cominciare dagli uscenti riconfermati, a operare nelle porzioni di territorio corrispondenti ai precedenti collegi uninominali.

 

La riduzione del Purgatorio

Un ulteriore motivo per il rapido ricompattamento della maggioranza è stato costituito da una promessa insita nella scarsa entità delle maggioranze parlamentari che dovrebbero uscire dalle urne. Perché poco più di 25 deputati sopra la soglia e meno di 10 al senato se non per la speranza che la sconfitta non comporti cinque interi anni di purgatorio all’opposizione, ma che, per la rottura della sinistra radicale e/o di forze centriste, il centrodestra, o almeno alcune sue componenti, non possano rientrare in gioco anzitempo o con un’elezione anticipata o con forme di trasformismo parlamentare?

È evidente che una coalizione che avesse una seria convinzione di poter ancora vincere le elezioni non voterebbe mai una riforma come questa, giacché le trappole disseminate per colpire il centrosinistra dato per vincente in quel caso scatterebbero contro di lei, dando un potere di ricatto superiore a quello odierno sia alla Lega sull’estrema sia all’UDC sul centro. Scartando quindi una volontà masochistica, resta solo il caso di una scelta deliberata dovuta alla disperazione per limitare la vittoria del centrosinistra data per inevitabile e renderla reversibile prima del quinquennio della legislatura.

I disastri sistemici sono evidenti: al progressivo apprendimento del maggioritario, che il Mattarellum (tanto vituperato, spesso a torto) aveva consentito, con una prima legislatura in cui il governo Berlusconi I era durato solo sette mesi e le camere erano state sciolte dopo due anni, ad una seconda in cui il governo Prodi I era durato due anni e mezzo e si erano verificati limitati spostamenti della maggioranza, ad una terza in cui vi è stata una continuità totale di premier e di maggioranza, fa riscontro ora una volontà restaurativa, che le nuove leggi promuovono spingendo nella direzione esattamente opposta, per quantità e qualità delle maggioranze.

Evidentemente qui la riduzione del danno sul lungo periodo può consistere nel ripristinare un sistema elettorale selettivo in due diversi momenti: prima, subito dopo le elezioni, richiamare in vita il Mattarellum, come dovere morale conseguente all’opposizione fatta in parlamento verso una modifica partigiana; poi un lavoro comune alle varie forze politiche per immaginarne perfezionamenti nel segno del completamento della democrazia maggioritaria, unitamente a una seria riforma costituzionale che presenti un equilibrio ragionevole di pesi e contrappesi, dopo la prevedibile bocciatura di quella confusa del centrodestra.

Nel frattempo i rischi per la governabilità vanno però ridotti per via politica con un programma non elusivo che in parte derivi da un ascolto senza preconcetti di tutte le componenti dell’Unione e per altra parte dall’uso moderato (ma deciso) del principio di maggioranza da parte del candidato premier, Romano Prodi, che dopo le primarie e il varo della lista Uniti per l’Ulivo, insieme ai partiti riformisti, ha la forza più che sufficiente per operare in tal senso. Per il bene del centrosinistra, ma anche per quello del paese, che ha bisogno di governi di legislatura che possano essere premiati o puniti a fine mandato per le responsabilità esercitate e non certo del ritorno di logiche oligarchiche, più o meno ammodernate.