Israele e Palestina: nuovi governi verso una coabitazione pacifica?

Di Rula Jebreal Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

«L’Unione europea non ci deve abbandonare, solo col suo aiuto possiamo combattere il fondamentalismo». Quando ho raccolto questo appello dal presidente del parlamento palestinese, Duwaik, durante una delle prime interviste rilasciate dopo la recente vittoria elettorale, mi è stato chiaro che sarebbe stato un grave errore confinare il giudizio politico sul movimento di Hamas all’interno delle semplificazioni che in Occidente si danno riguardo al carattere terroristico delle organizzazioni. L’analisi è in realtà assai più complessa ed è fondamentale capire la storia e il ruolo delle persone, così come i delicati equilibri e le diverse articolazioni che separano l’ala integralista e radicale dall’ala pragmatica, che si muove invece con un approccio per nulla ideologico.

 

«L’Unione europea non ci deve abbandonare, solo col suo aiuto possiamo combattere il fondamentalismo». Quando ho raccolto questo appello dal presidente del parlamento palestinese, Duwaik, durante una delle prime interviste rilasciate dopo la recente vittoria elettorale, mi è stato chiaro che sarebbe stato un grave errore confinare il giudizio politico sul movimento di Hamas all’interno delle semplificazioni che in Occidente si danno riguardo al carattere terroristico delle organizzazioni. L’analisi è in realtà assai più complessa ed è fondamentale capire la storia e il ruolo delle persone, così come i delicati equilibri e le diverse articolazioni che separano l’ala integralista e radicale dall’ala pragmatica, che si muove invece con un approccio per nulla ideologico.

La guida spirituale più autorevole e uno dei padri fondatori del movimento è Khaled Mashal, che dall’esilio di Damasco mantiene le relazioni istituzionali e politiche con i paesi del Medio Oriente e in particolare con i governi che hanno nella loro agenda politica l’eliminazione dello Stato di Israele, a partire dall’Iran di AhmadineJah. Profondamente diversa è la posizione della compagine governativa che guida il movimento a Gaza e in Cisgiordania e che si rappresenta come un interlocutore duro ma intenzionato ad assumere in pieno il diritto-dovere di governare il paese, con l’ambizione di raggiungere i risultati concreti che sono mancati in tutte le direzioni durante la stagione di al Fatah.

La prima e più sostanziale differenza riguarda il tema centrale dei confini e quindi della possibile coabitazione con lo Stato di Israele. Com’è noto, dopo la spartizione stabilita nel 1948 dall’ONU, secondo un criterio che assegnava al nuovo insediamento poco più della metà del territorio, i confini tra i due Stati sono successivamente stati ridisegnati a seguito delle guerre vinte da Israele nel 1967 e nel 1973, tanto che la terra assegnata ai palestinesi si è ridotta a poco più del 20% del totale; l’occupazione militare dei territori palestinesi con la politica di moltiplicazione degli insediamenti ebraici – le cosiddette colonie – e con la decisione di edificare infrastrutture per la sicurezza sul suolo palestinese – le bypass road che collegano direttamente gli insediamenti con Israele e che i palestinesi non possono né percorrere né attraversare – e da ultimo il muro di recinzione – hanno ulteriormente ridotto lo spazio vitale per i palestinesi, confinati in aree sempre più anguste e scollegate tra loro.

A fronte di questo scenario, la posizione di Mashal e dei suoi seguaci esclude ogni alternativa rispetto all’ipotesi di cancellare Israele e riportare la Palestina alle dimensioni del Mandato britannico che precedette la costruzione dello Stato ebraico.

Il premier Ismaeil Haniah, il ministro degli esteri Zahar e il presidente del parlamento Duwaik, che sono gli esponenti di punta dello schieramento governativo, mostrano al contrario un atteggiamento improntato alla Realpolitik: hanno l’idea che le parti debbano confrontarsi senza dare per scontato nulla di quanto è avvenuto negli anni passati e quindi rimettono in discussione tutto, persino la legittimità all’esistenza dello Stato di Israele, ma lo fanno con spirito negoziale, con l’intento di ottenere il migliore dei risultati possibili, consapevoli della difficoltà e della durezza della trattativa che li aspetta. Se oggi non riconoscono lo Stato di Israele non è per fedeltà ad un’ideologia che ne rifiuta l’esistenza, ma per non concedere oggi quello che pensano possa essere oggetto di scambio domani sul tavolo dei negoziati.

Un secondo elemento di fondamentale distinzione riguarda la modalità di conduzione della lotta di resistenza e il giudizio sul terrorismo suicida come strumento di contrapposizione a Israele in un contesto di oggettiva asimmetria delle forze in campo. Mentre dal lato fondamentalista registriamo l’irrinunciabile beatificazione del martirio e la rivendicazione della nobiltà del sacrificio all’interno di una lotta impari, l’ala pragmatica e governativa di Hamas non solo dichiara per bocca dei suoi più autorevoli esponenti che mai nessuno di loro manderebbe un figlio a farsi esplodere, ma pone l’accento sul pericolo di un’infiltrazione terroristica tra i combattenti per la liberazione della Palestina e indica come nemici da combattere la Jihad islamica e soprattutto al Qaeda, che cercano di strumentalizzare ai propri fini le lotte del popolo palestinese.

Sarebbe certamente un grave errore per la comunità internazionale non cogliere le grandi differenze di impostazione ideologica e strategica tra le componenti di Hamas e non utilizzare gli strumenti della diplomazia e degli aiuti umanitari per accentuare le divergenze esistenti allo scopo di rafforzare il fronte più pragmatico, aperto al dialogo e alla trattativa. Sarebbe un errore doppiamente grave perché finirebbe per cancellare una volontà di cambiamento che i popoli hanno sottolineato con le recenti elezioni. È vero che Hamas ha costruito il proprio successo elettorale sulla politica sociale che ha portato avanti nel passato investendo gli ingenti contributi ricevuti dagli Stati arabi in scuole e ospedali. È vero che ha offerto un modello alternativo ed opposto alla politica corrotta e corruttiva di al Fatah, culminata nello scandalo, di enorme portata simbolica, che ha coinvolto l’ex premier Abu Ala e i suoi interessi nella costruzione del Muro attraverso la fornitura di cemento al governo di Israele. È anche vero, però, che ha catalizzato il consenso di larghe fasce della popolazione che nulla hanno a che vedere col fondamentalismo religioso e che è risultato maggioritario perfino in aree del paese fortemente laiche o addirittura di religione cristiana, come Betlemme o Bet Sahur. Hamas si accinge quindi a governare con il mandato di ridare smalto al protagonismo politico del popolo palestinese, fortemente appannato negli ultimi anni della guida di Arafat e dei suoi successori di al Fatah. Deve archiviare una stagione segnata da accordi precari, sempre realizzati al ribasso, e aprire una fase nuova nella quale la volontà di pace e la ricerca della dignità sono diventati obiettivo politico irrinunciabile di un popolo. Le priorità del governo Hamas non potranno riguardare altro se non il recupero delle condizioni di vita nei campi profughi e nelle aree più degradate del paese, e la ripresa di una trattativa tra pari, garantita dalla comunità internazionale che ridisegni dalle fondamenta i rapporti tra israeliani e palestinesi.

La corrispondente vittoria di Kadima e dei laburisti sul fronte israeliano conferma l’apertura di una fase storica del tutto nuova nella quale il protagonismo dei leader viene soppiantato dalla volontà di cambiamento che viene dalla società, oramai insofferente di un equilibrio basato sul terrore e determinata a chiedere una svolta rispetto al decorso di una guerra infinita e disastrosa. Nel voto degli elettori israeliani è facile riconoscere il tentativo di scrollarsi di dosso il retaggio di una strategia militare che ha finito per imprigionare occupanti e occupati, e la decisione di consegnare il proprio futuro ad un’ipotesi di coabitazione pacifica. La prova è stata ancor più significativa proprio perché è venuta a poche settimane dalla vittoria elettorale di Hamas ed era oggettivamente forte la suggestione di organizzare la contrapposizione radicale proposta dal Likud e dai movimenti di estrema destra.

La fiducia, espressa con il voto dal popolo israeliano, nella possibilità di aprire un dialogo con un nemico storico e per molti versi inaccettabile non deve essere ora vanificata dai comportamenti del governo e della comunità internazionale. È troppo presto per capire se gli atteggiamenti e le dichiarazioni che, sia pure con diverse sfumature, hanno accomunato il neo primo ministro Holmert, la Casa Bianca e l’Unione europea abbiano il significato di una chiusura pregiudiziale nei confronti di Hamas, o abbiano al contrario lo scopo tattico di condizionare l’avvio delle trattative. Il rifiuto del dialogo sarebbe una scelta pericolosa, destinata a spostare in senso fondamentalista gli equilibri di potere interni al movimento di Hamas. È facile comprendere che l’isolamento politico finirebbe per rendere attraente l’ipotesi di un fiancheggiamento assicurato dalle forze dell’estremismo islamico, con il rischio di compattare il terrorismo palestinese, che ha sempre avuto una sua specificità di stretta identificazione con la causa patriottica, con il terrorismo internazionale antioccidentale e antiamericano. Sarebbe un regalo inaccettabile e incomprensibile per il rafforzamento di quello che appare oggi il più grave pericolo che minaccia gli equilibri mondiali. Le conseguenze sarebbero tragiche anche per il futuro della Palestina e del popolo palestinese, così come per il futuro di Israele e del popolo israeliano. La comunità internazionale e il governo israeliano devono disporsi al dialogo non solo con convinzione, ma anche con tempestività. Sarebbe infatti un grave errore anche l’ipotesi di una chiusura tattica concepita per indebolire il governo palestinese nell’attesa che decolli il negoziato. Nei prossimi mesi Hamas dovrà affrontare l’arduo compito di disarmare le milizie irregolari, i civili, i movimenti paramilitari, in particolare quelli vicini ad al Fatah; a questo scopo richiede di esercitare il monopolio della forza a Gaza e in Cisgiordania, opportunità che soltanto l’intesa con Israele gli può consentire. Se Hamas non avrà gli strumenti per fronteggiare anarchia e terrorismo, non sarà possibile garantire la sicurezza nei territori palestinesi e preservare la tregua, con il cessate il fuoco, che è stata annunciata. La divisione delle posizioni all’interno dello schieramento internazionale che deve gestire la road map, polarizzate intorno alla chiusura statunitense e all’apertura russa, lasciano intravedere un approccio profondamente contraddittorio, ma probabilmente concordato tra le grandi potenze. Ad esse non deve però sfuggire la necessità di arrivare con rapidità al tavolo delle trattative, offrendo anche serie prospettive di riuscita, perché il partito trasversale dei sabotatori delle intese di pace è sempre all’opera e oggi  è certamente impegnato ad impedire l’avvio delle contrattazioni, incurante se a ciò si dovesse arrivare con il versamento di sangue innocente. La comunità internazionale non deve farsi sfuggire l’occasione per legittimare un governo democraticamente eletto, che rappresenta la propria nazione non soltanto nei numeri, ma anche nelle aspettative, spingendo una classe dirigente pragmatica e potenzialmente laica ad allontanarsi dai compromessi col fondamentalismo. Certo, dovrà accettare un interlocutore molto duro e agguerrito che non sarà disposto ad avallare con piccole variazioni di dettaglio il contenuto degli accordi fino ad oggi raggiunti, ma pretenderà di ottenere grandi risultati con un esito immediato. D’altra parte, dovrebbe essere ormai chiaro che non è interesse di nessuno la stipula di intese parziali e insoddisfacenti destinate ad essere rimesse in discussione infinite volte. Sono finalmente maturi i tempi per una prospettiva di pace di lungo periodo che guardi anche alla sensibilità e all’interesse delle prossime generazioni, che fornisca a Israele ogni garanzia di sicurezza, e accrediti alla Palestina il diritto di costruire il proprio Stato senza i limiti di comunicazione che oggi hanno spezzato il paese e confinato il popolo in aree troppo anguste e separate tra loro.