L'esperienza riformista del New Deal nella Banca mondiale (1949-1954)

Di Michele Alacevich Lunedì 02 Gennaio 2006 02:00 Stampa

Quando alla conferenza di Bretton Woods, nel 1944, vennero alla luce la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, le due istituzioni multilaterali su cui si sarebbe fondato l’ordine economico postbellico, la missione principale che venne affidata alla Banca fu quella di sostenere l’Europa devastata dal conflitto bellico nell’opera di ricostruzione – il nome esatto di questa istituzione era infatti Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. L’avvento del Piano Marshall nel 1947, di fatto, obbligò la Banca a riconvertirsi – ben prima di quanto era stato inizialmente ipotizzato – alla sua seconda missione: gli aiuti allo sviluppo nei confronti dei paesi più arretrati. Nonostante l’iniziale oggettiva incompetenza verso questo nuovo compito, la Banca intraprese un percorso di crescita che la portò nel giro di pochi anni a diventare un’istituzione particolarmente solida e rispettata.

Quando alla conferenza di Bretton Woods, nel 1944, vennero alla luce la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, le due istituzioni multilaterali su cui si sarebbe fondato l’ordine economico postbellico,1 la missione principale che venne affidata alla Banca fu quella di sostenere l’Europa devastata dal conflitto bellico nell’opera di ricostruzione – il nome esatto di questa istituzione era infatti Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.

L’avvento del Piano Marshall nel 1947, di fatto, obbligò la Banca a riconvertirsi – ben prima di quanto era stato inizialmente ipotizzato – alla sua seconda missione: gli aiuti allo sviluppo nei confronti dei paesi più arretrati. Nonostante l’iniziale oggettiva incompetenza verso questo nuovo compito, la Banca intraprese un percorso di crescita che la portò nel giro di pochi anni a diventare un’istituzione particolarmente solida e rispettata. Prendeva a prestito sui mercati dei capitali (principalmente statunitensi), e impegnava le proprie risorse in prestiti a lunga scadenza per opere infrastrutturali e direttamente produttive – dighe, strade, ferrovie, centrali elettriche, acciaierie – nei confronti di paesi in via di sviluppo che, non godendo della medesima fiducia da parte di Wall Street, non sarebbero stati in grado di accedere alle risorse finanziarie loro necessarie. La Banca era invece «un sano istituto di stampo conservatore di tipo normale»,2 guidata da banchieri appartenenti all’élite finanziaria statunitense, i cui investimenti si dimostrarono di notevole successo, tanto che agli inizi degli anni Sessanta i profitti crescevano ormai «a un tasso quasi indecente».3

Questa impostazione dell’istituzione durò fino alla fine degli anni Sessanta, quando – sempre con le parole di Harrod – essa ebbe modo di «allontanarsi dalla prudenza ortodossa nel senso di un maggiore ardimento».4

L’avvento di Robert McNamara alla guida dell’istituzione nel 1968, infatti, viene posto come spartiacque tra la fase più conservatrice dell’istituzione – una fase in cui, per intenderci, la Banca era e si sentiva propriamente una banca – e la fase che può essere considerata più progressiva – una fase, cioè, in cui la Banca cambiò pelle e si tramutò in una vera e propria agenzia per lo sviluppo, indicando per la prima volta nella lotta alla povertà la voce principale della propria agenda.

Ora, questa sintesi – che è quella comunemente accettata – benché a grandi linee corretta, è nello stesso tempo fuorviante o, se si preferisce, manca di cogliere una questione molto importante del primo periodo di vita dell’istituzione. La stagione della lotta alla povertà che usualmente abbiniamo alla Banca di McNamara, infatti, ebbe un precedente negli anni immediatamente successivi al lancio del Piano Marshall, quelli cioè della transizione dalla ricostruzione allo sviluppo, anni in cui in essa è ancora riscontrabile la presenza e l’influenza diretta di valori e sensibilità che provenivano senza soluzione di continuità dalla stagione del New Deal rooseveltiano. È dunque una questione che è importante riscoprire.

Nel 1949 la Banca organizzò la sua prima «missione generale» verso un paese in via di sviluppo: la Colombia. La missione avrebbe prodotto uno studio delle generali condizioni economiche e sociali di un paese, che servisse da base per un piano di sviluppo di lungo respiro. Alla guida della missione venne chiamato Lauchlin Currie, economista canadese che era stato dal 1939 il consigliere personale per le questioni economiche del presidente statunitense Franklin D. Roosevelt – inaugurando un ruolo che con gli anni sarebbe diventato sempre più fondamentale.

La missione Currie studiò l’economia industriale e agricola, le dotazioni infrastrutturali, la produzione di energia elettrica colombiane, ma affrontò anche le questioni dell’istruzione e della salute pubblica, la fornitura di acqua potabile ai nuclei familiari e la possibilità di intraprendere dei programmi economicamente solidi di riqualificazione urbana. Currie portò, nella sua nuova veste di economista dello sviluppo, la profonda esperienza che aveva accumulato durante gli anni del New Deal, quando aveva sostenuto la necessità di coniugare in un’azione politica coordinata «gli scopi umanitari e sociali del New Deal [con] la solida teoria economica».5

Già da giovane economista a Harvard nei primissimi anni Trenta – quindi, vale la pena notarlo, prima che Keynes pubblicasse la «General Theory» – Currie aveva sostenuto la necessità di politiche monetarie e fiscali espansive,6 ma la sua proposta di politica economica trovò maggiore ascolto soprattutto dopo la recessione che colpì gli Stati Uniti nel 1937-38, quando Currie, ormai a Washington nel «Freshmen brain trust» rooseveltiano già da quattro anni, delineò un programma per una «economia caratterizzata da alti consumi e bassi risparmi»,7 raggiungibile combinando un sistema di tassazione altamente progressivo con una politica fortemente redistributiva soprattutto nei settori della sanità, dell’educazione e del welfare. È quello che venne chiamato «Curried Keynesianism».8

La guerra intervenne poi, dal 1942, a consolidare la politica di massicci investimenti statali che, nei progetti degli economisti keynesiani al governo, avrebbe dovuto continuare nel dopoguerra, riconvertita in programmi di spesa incentrati su «un programma generale di welfare […], l’abbattimento dell’inquinamento dell’aria e delle acque, una rete elettrica nazionale, trasporti pubblici urbani, ecc.»: un programma integrato che assicurasse – come chiese Roosevelt nel discorso sullo stato dell’Unione – sessanta milioni di posti di lavoro. In realtà, le commesse militari, strumento «keynesiano» durante la guerra, avrebbero avuto la precedenza anche quando il conflitto continuò nella versione «fredda», e si sarebbero parate come un ostacolo decisivo di fronte alle «speranze progressiste e di marca keynesiana per il raggiungimento di una condizione di abbondanza, sicurezza e progresso».9

In ogni caso, quando Currie entrò in contatto con una realtà economica e sociale arretrata, come era quella colombiana alla fine degli anni Quaranta, cercò di adattare la propria esperienza di new dealer alla nuova situazione. Esemplare, da questo punto di vista, è il suo progetto di riqualificazione urbana per la cittadina di Barranquilla, sulla costa nord del paese.10 In quel caso, infatti, fu approntato un piano di edilizia popolare, che avrebbe convogliato il risparmio fino ad allora inutilizzato delle classi medie del paese verso scopi finalmente produttivi, tramite cui il settore delle costruzioni sarebbe stato utilizzato come volano per altri settori produttivi contigui. Nello stesso tempo, il piano avrebbe permesso di affrontare l’emergenza sociale rappresentata dalla cosiddetta «zona negra», uno slum particolarmente degradato – «probabilmente lo slum peggiore di tutta la Colombia».11 La popolazione interessata dal piano, tra l’altro, fu direttamente coinvolta attraverso un programma di mutui che permisero agli abitanti medesimi di diventare proprietari delle case in cui sarebbero andati ad abitare.12 Come Currie dichiarò con evidente soddisfazione, «il governo sta guadagnando più da questa attività che da qualsiasi altra».13

Nonostante la solida architettura del piano, anche dal punto di vista economico, la Banca Internazionale, a cui fu richiesto di contribuire per le (molto limitate) necessità in valuta estera, rifiutò di prendervi parte. Come scrisse il vicepresidente della Banca, Robert Garner: «La Banca dovrebbe concentrare i propri sforzi su progetti che massimizzino gli incrementi di output e produttività […]. Per quanto riguarda la questione del progetto di riqualificazione di Barranquilla, è mia convinzione che, benché i benefici sociali possano essere considerevoli, i risultati economici non potrebbero neppure avvicinarsi a quelli che si otterrebbero attraverso […] progetti direttamente produttivi».

Currie non fu il solo, per usare ancora le sue parole, a voler legare tra loro «questioni non economiche e questioni strettamente economiche».14 Altre analoghe missioni della Banca, organizzate sulla falsariga di quella colombiana, avanzarono proposte concrete che andavano in questa direzione. La missione cubana del 1950, per esempio, raccomandò la necessità prioritaria di garantire un efficiente sistema di fornitura di acqua potabile per la città di Santiago, che viveva sotto il ricorrente pericolo di una tragedia: «la città si è salvata per un pelo dal disastro nell’estate del 1950, e non può continuare ad affidarsi alla semplice fortuna».15 La missione giamaicana del 1952 dichiarò urgente la demolizione e ricostruzione di circa il 30% degli insediamenti abitativi dell’isola.16 Infine, la missione nicaraguese del 1953 dedicò il primo capitolo del proprio rapporto a «Misure sanitarie, educazione e salute pubblica», dichiarando tra l’altro che: «In un qualsiasi programma finalizzato alla crescita e allo sviluppo di lungo periodo dell’economia del Nicaragua le spese per misure sanitarie, educazione e salute pubblica dovrebbero ricevere – senza possibilità di discussione – la massima priorità. Un programma [siffatto] deve affrontare congiuntamente il problema di incrementare la produttività dell’economia del paese e di migliorare lo standard di vita della popolazione. Questo programma è una parte integrante del programma di investimenti in agricoltura, nell’industria e nei trasporti».17

Nonostante queste raccomandazioni, durante tutti gli anni Cinquanta la Banca non concesse un solo prestito nei confronti di Cuba o della Giamaica, e dei nove prestiti concessi al Nicaragua – un paese di un milione di abitanti – dal 1953 alla fine del decennio, nessuno comprendeva al suo interno finalità sociali. La posizione della Banca può essere riassunta efficacemente dalle parole di Burke Knapp, all’epoca direttore dell’istituzione per le operazioni nell’emisfero occidentale: «L’acqua è la prima cosa che le persone vogliono, ma noi dobbiamo distinguere tra […] comfort che fanno crescere il livello di vita, e […] progetti che andranno a beneficio dell’economia. […] La nostra attenzione dovrebbe rivolgersi a questi ultimi».18

L’alta dirigenza della Banca, come si è detto, proveniva dal mondo di Wall Street e, fatto ancora più importante, era sostanzialmente ostile alla classe dirigente del New Deal e alla sua cultura. L’azione dei primi presidenti della Banca fu decisamente rivolta a estirpare qualsiasi spinta dell’istituzione nei confronti di modalità di intervento «inclusive», che tenessero conto delle gravissime questioni sociali, oltre che economiche, che i paesi in via di sviluppo si trovavano a fronteggiare. La Banca doveva rimanere una banca in senso stretto, e indirizzarsi al finanziamento di attività direttamente produttive. L’epoca del New Deal, della politica economica eterodossa, dei tentativi di legare tra loro interventi economici e sociali, sembravano essersi chiusi negli Stati Uniti, e si erano sicuramente chiusi nelle agenzie multilaterali in cui gli Stati Uniti potevano avere più influenza.

È però notevole e da sottolineare il fatto che se da questo punto di vista la Banca rappresentò «lo spirito dei tempi», per un altro verso essa fu in netta controtendenza rispetto alla sensibilità in materia di politica economica che si stava diffondendo in praticamente tutti i paesi occidentali. La stagione del keynesismo postbellico, che sotto determinati aspetti presenta una indiscutibile continuità con l’esperienza rooseveltiana, e che fu politicamente trasversale – si pensi a Nixon, negli anni Quaranta giovane discepolo del senatore McCarthy, feroce avversario degli uomini del New Deal e nel 1972 autore della famosa frase «ora siamo tutti keynesiani» – ebbene, quella stagione e quella sensibilità furono completamente bandite dalla Banca Mondiale.

Si deve concludere, insomma, che l’istituzione, nata dai lavori della commissione di Bretton Woods presieduta da Keynes, nei suoi primissimi anni fu aperta alla partecipazione di molti uomini che provenivano dall’esperienza eterodossa del New Deal, ma vi rinunciò dietro l’impulso di una dirigenza che proveniva da un milieu politico, economico e culturale diverso e per molti versi incompatibile. Le sue posizioni, anzi, si caratterizzarono per una particolare rigidità nei parametri di gestione delle politiche di prestito.

Solo alla fine degli anni Sessanta, trascinata dal fallimento delle politiche per lo sviluppo votate all’esclusivo sostegno di attività direttamente produttive e dalla sempre più grave crisi sociale in molti paesi arretrati, la Banca abbandonò le proprie sicurezze per inglobare una visione dello sviluppo meno ristretta di quella che aveva fino a quel momento sposato. Non è casuale che arrivò a questa svolta ben più tardi rispetto ad altre agenzie multilaterali e rispetto al più vasto ambito dei tanti soggetti che, a vario titolo, si occupavano dei problemi dello sviluppo: il grande successo che la Banca aveva sperimentato durante la sua prima fase ortodossa le aveva impedito, nello stesso tempo, di comprendere l’eccessiva limitatezza dei criteri – eminentemente produttivistici – in base ai quali lo misurava.

Mentre il direttore generale dell’ILO, David Morse, parlava ormai da tempo di «detronizzazione del PIL»,19 e molti altri autorevoli osservatori, politici e scienziati sociali denunciavano il fatto che la crescita economica da sola non dava più alcuna garanzia di dimostrarsi positiva per lo sviluppo di un paese e (se non direttamente finalizzata al benessere della massa della popolazione) poteva anzi rivelarsi pericolosa, aumentare la sperequazione, limitare lo sviluppo delle libertà civili e politiche,20 la Banca doveva riconoscere, per bocca di un suo funzionario, che «conosciamo i differenti rendimenti di diverse tecniche di produzione di motori marini più di quanto non sappiamo a proposito dell’insegnamento elementare o delle cure prenatali».21

Da questa seconda transizione la Banca sarebbe infine uscita non più come una banca, ma come una agenzia per lo sviluppo a tutti gli effetti. Pur con tutti i limiti che questa trasformazione ha per altri versi comportato, e con gli alti e bassi che si sono registrati nel corso degli anni, alcune questioni di prioritaria importanza hanno finalmente avuto legittimità nella sua agenda. Le intuizioni e le sensibilità che nei primi anni Cinquanta la Banca aveva esplicitamente deciso di emarginare ed espellere poterono finalmente partecipare alla formazione della politica economica di quella che era nel frattempo diventata la più importante istituzione multilaterale per lo sviluppo.

 

Bibliografia

1 Cui si sarebbe dovuta aggiungere anche una Organizzazione internazionale del commercio, affossata dagli Stati Uniti alla conferenza dell’Avana del 1949.

2 R. F. Harrod, La vita di John M. Keynes, Einaudi, Torino 1965.

3 E. S. Mason, R. E. Asher, The World Bank Since Bretton Woods, Brookings Institution Press, Washington D.C. 1973.

4 Harrod, op. cit.

5 Lauchlin B. Currie to Franklin D. Roosevelt, Memorandum on Full Employment, 18 marzo 1940, citato in W. J. Barber, Designs within Disorder. Franklin D. Roosevelt, the Economists, and the Shaping of American Economic Policy, 1933-1945, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 130.

6 A. Sweezy, The Keynesians and Government Policy, 1933-1939, in «American Economic Review. Papers and Proceedings», 62/1972, pp. 116-124. Currie sostenne queste tesi quando la faculty di Harvard era ancora su posizioni estremamente ortodosse e conservatrici, e non poté quindi farsi scudo della popolarità – e quindi della legittimità – che ad esse avrebbe dato l’opera di Keynes. Galbraith ritiene che Currie non ottenne la docenza ad Harvard anche perché si pensava che le sue idee riflettessero un’insufficiente erudizione, cfr. J. K. Galbraith, Come Keynes arrivò in America, in Galbraith, L’economia e la qualità della vita, Mondadori, Milano 1971.

7 Barber, op. cit., p. 130.

8 Ivi.

9 B. L. Jones, The Role of Keynesians in Wartime Policy and Post-war Planning, 1940-1946, in «American Economic Review. Papers and Proceedings», 62/1972, pp. 125-133.

10 Il caso in questione e le sue implicazioni sono descritti più nel dettaglio in M. Alacevich, Post-war Economic Policies for Development: Lauchlin B. Currie, and The World Bank in Colombia, in «Storia del pensiero economico», 1/2005, pp. 73-92.

11 Emilio Toro to Robert L. Garner, 7 aprile 1953, in Lauchlin B. Currie Papers (d’ora in poi LBCP), Rare Book, Manuscript, and Special Collections Library, Duke University, Durham.

12 Una parte del piano fu finanziata attraverso un aumento delle tariffe dei servizi pubblici. Il coinvolgimento della popolazione della zona permise di evitare che su questo capitolo si innescasse una polemica o uno scontro tra la popolazione e l’autorità che gestiva il piano.

13 Lauchlin B. Currie, Ahorros y casas de poco precio, 15 maggio 1953, in LBCP.

14 Garner to Toro, 21 aprile 1953, in LBCP.

15 Currie, The Role of Economic Advisers in Developing Countries, Greenwood Press, Westport e Londra 1981.

16 IBRD, Report on Cuba. Findings and Recommendations of an Economic and Technical Mission Organized by the International Bank for Reconstruction and Development in Collaboration with the Government of Cuba in 1950, International Bank for Reconstruction and Development, Washington D.C. 1951, p. 31.

17 IBRD, The Economic Development of Jamaica. Report by a Mission of the International Bank for Reconstruction and Development, The John Hopkins Press for the International Bank for Reconstruction and Development, Baltimora 1952, p. 125.

18 IBRD, The Economic Development of Nicaragua. Report by a Mission of the International Bank for Reconstruction and Development at the Request of the Government of Nicaragua, The John Hopkins Press for the International Bank for Reconstruction and Development, Baltimora 1953.