Le Nazioni Unite: un «machin»?

Di Carlo Pinzani Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Che la guerra civile americana del 1861-1864 sia stata la prima guerra moderna della storia è un dato sufficientemente acquisito dalla storiografia. Lo sviluppo della produzione industriale negli Stati Uniti, la diffusione delle ferrovie e i progressi della navigazione a vapore e, soprattutto, la capacità di mobilitare intere società erano tutti elementi atti a caratterizzare in senso moderno quel conflitto. È pertanto comprensibile che gli sforzi compiuti nel Novecento per eliminare o ridurre l’impatto della guerra abbiano un collegamento con la guerra civile americana. Il collegamento può utilmente essere ricondotto all’opera politica di Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1912 al 1920. La guerra civile, vissuta in una cittadina della Georgia, aveva segnato l’infanzia di Wilson, rendendolo incline al pacifismo. Se alle inclinazioni pacifiste si aggiunge la grande fiducia nella democrazia e nella sua capacità d’espansione è facile comprendere il suo ruolo nel promuovere un sistema di relazioni internazionali fondato sulla sicurezza collettiva e sul disarmo.

 

Che la guerra civile americana del 1861-1864 sia stata la prima guerra moderna della storia è un dato sufficientemente acquisito dalla storiografia. Lo sviluppo della produzione industriale negli Stati Uniti, la diffusione delle ferrovie e i progressi della navigazione a vapore e, soprattutto, la capacità di mobilitare intere società erano tutti elementi atti a caratterizzare in senso moderno quel conflitto. È pertanto comprensibile che gli sforzi compiuti nel Novecento per eliminare o ridurre l’impatto della guerra abbiano un collegamento con la guerra civile americana. Il collegamento può utilmente essere ricondotto all’opera politica di Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1912 al 1920. La guerra civile, vissuta in una cittadina della Georgia, aveva segnato l’infanzia di Wilson, rendendolo incline al pacifismo. Se alle inclinazioni pacifiste si aggiunge la grande fiducia nella democrazia e nella sua capacità d’espansione è facile comprendere il suo ruolo nel promuovere un sistema di relazioni internazionali fondato sulla sicurezza collettiva e sul disarmo. Sotto questo profilo è indubbio che Wilson appartenesse a quello che Stefan Zweig definì «il mondo di ieri», nel quale lo sviluppo economico, il progresso tecnico e la diffusione della democrazia liberale sembravano garantire un indefinito futuro di tranquillità e di benessere, ove vi fosse spazio anche per la promozione economica e sociale dei più demuniti.

Certo, i segni della crisi imminente di quell’epoca felice (almeno per le élite del mondo sviluppato) non mancavano e, con le Conferenze dell’Aja del 1899 e del 1907 si erano avviati i primi tentativi per un’organizzazione internazionale che avesse la funzione principale di evitare la guerra.

Come ebbe a dire nel 1910, l’ex- Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt, «(…) sarebbe un colpo magistrale se le grandi potenze sinceramente interessate alla pace formassero una Lega per la Pace, non solo per mantenerla tra loro, ma anche per impedire, anche con la forza se necessario, che essa sia violata da altri. La maggiore difficoltà per sviluppare lavoro di costruzione della pace compiuto all’Aja deriva dalla mancanza di ogni potere esecutivo, di ogni potere di polizia per eseguire le decisioni della Corte».1

Theodore Roosevelt, che nel 1906 aveva ricevuto il premio Nobel per la pace per la sua mediazione nella guerra russo- giapponese, esprimeva convinzioni dei gruppi dirigenti della East Coast, che incontravano difficoltà ad affermarsi nel partito repubblicano, ove troppo lentamente si diffondeva la coscienza del nuovo ruolo che gli Stati Uniti potevano svolgere sulla scena mondiale. Dopo che la successiva presidenza di Taft ave va notevolmente potenziato la «diplomazia del dollaro», nelle elezioni del 1912 il confronto fu soprattutto tra T. Roosevelt – che ave va formato un terzo partito – e Woodrow Wilson entrambi fautori di un nuovo ordine mondiale: il primo tendeva ad esprimere in termini nazionalistici le ambizioni internazionali del paese mentre il secondo le collegava strettamente ai valori della pace e della stabilità delle relazioni internazionali.

Per meglio comprendere il contributo di Wilson alla creazione di un diverso ordine mondiale dopo il più grande conflitto della storia, è utile riferirisi alle brillanti tesi di Carl Schmitt sull’evoluzione del sistema delle relazioni internazionali sul finire dell’Ottocento. In questa fase – secondo il giurista tedesco – si era verificato il superamento di un principio fondamentale di diritto consuetudinario che, per secoli, aveva ispirato le relazioni tra gli Stati europei. Tale principio, a sua volta, si fondava sul postulato secondo il quale qualsiasi norma o consuetudine, per avere vigenza, deve essere definita in termini territoriali. In altre parole: una regola esiste solo in quanto si applica su una terra. In questo modo, secondo Schmitt, a part i re dalle grandi scoperte geografiche del XV e XVI secolo nelle relazioni fra gli Stati si era venuto formando uno jus publicum europaeum, le cui regole vigevano nello spazio continentale, mentre al di fuori di questo avevano valore regole diverse, tra le quali particolarmente rilevante era il principio della libertà dei mari.

È evidente nelle teorie di Schmitt la tendenza a razionalizzare e giustificare i due tentativi di «assalto al potere mondiale» condotti dalla Germania guglielmina e hitleriana nel corso del Novecento. Resta il fatto che questa evoluzione era legata alla partecipazione ai rapporti internazionali di potenze eccentriche come il Giappone e, ancor più, gli Stati Uniti. Ma, soprattutto, si veniva diffondendo la convinzione che il mondo fosse ormai unificato e che, conseguentemente, l’unico sistema delle relazioni internazionali che si veniva formando dovesse essere retto da un’unica norma (il nomos della terra secondo la terminologia schmittiana).

V’è poi un altro concetto di Schmitt, anche esso assai utile alle ambizioni tedesche e tuttavia fondato. Esso riguarda la sostanziale ambiguità del ruolo degli Stati Uniti nelle vicende internazionali del secolo scorso: da un lato, come potenza continentale, la grande repubblica nordamericana, mantenendosi fedele alla dottrina Monroe, tendeva ad affermare la propria egemonia regionale sull’emisfero occidentale, conservando un collegamento tra la norma della propria influenza e il territorio americano. Dall’altro, come potenza economica globale e, in una prima fase, prevalentemente marittima, si faceva portatrice di un nuovo ordine complessivo, applicabile a tutta la terra. Questa contraddizione doveva segnare fino al fallimento la politica internazionale di Wilson e presiedere all’evoluzione della politica internazionale americana per tutto il XX secolo e fino ai giorni nostri, con effetti particolarmente profondi sui tentativi di organizzazione di sistemi di sicurezza collettiva.

È alla luce di questi concetti che occorre riconsiderare le tradizionali categorie interpretative dell’isolazionismo e dell’internazionalismo nella politica estera degli Stati Uniti. Non v’è dubbio che i sostenitori della prima tesi tendessero a mantenere fermi i principi della dottrina Monroe, soprattutto nel senso di escludere ogni ingerenza europea nel continente americano; essi, tuttavia, non respingevano affatto ogni proiezione esterna della potenza economica, politica ed anche militare degli Stati Uniti. Soltanto che intendevano farlo in modo unilaterale, senza formali e duraturi legami di alleanze e di patti, ma, eventualmente, con quelle che oggi si definirebbero «coalizioni di volenterosi».

Nei tre iniziali anni della prima guerra mondiale, Wilson cercò di mantenere il più correttamente possibile la neutralità degli Stati Uniti, anche se questo obiettivo gli venne reso sempre più difficile dagli attentati di entrambi gli schieramenti al principio della libertà dei mari, prima da parte inglese con il blocco del commercio dei neutrali con l’Europa e, poi, da parte tedesca con il progressivo allargamento della guerra sottomarina.

Pur conseguendo la sua rielezione nel 1916 sulla base di un rinnovato impegno a mantenere la neutralità del paese, Wilson riuscì a farsi seguire dall’opinione pubblica soprattutto grazie all’indignazione ingenerata dalla guerra sottomarina indiscriminata degli U-Boote. L’intervento americano nel conflitto, nell’aprile del 1917, dove va rivelarsi decisivo, specialmente dopo la rivoluzione bolscevica. Già fin dall’inverno 1914-15, tuttavia, Wilson aveva avviato contatti diplomatici col governo inglese per giungere ad una pace di compromesso sulla base di un nuovo assetto delle relazioni internazionali fondato su una «Lega delle Nazioni», nella quale gli Stati Uniti «(…) si impegnassero a schierarsi contro qualsiasi Potenza che, in caso di controversie, rifiutasse di ricorrere a qualche altro metodo di accordo diverso dalla guerra» e, nel maggio del 1916, lo stesso Wilson affermava che gli Stati Uniti «erano disponibili a divenire membri di qualsiasi possibile associazione di nazioni istituita per far cessare ogni guerra già iniziata o contraria a norme di trattati.»2

Dopo la guerra e dopo il trionfale soggiorno in Europa, Wilson volle fondare il suo nuovo ordine mondiale con il trattato di pace con la Germania: in esso era contenuto anche il patto istitutivo della Società delle Nazioni, con una mossa che rilanciò le resistenze isolazionistiche. Anche quei repubblicani che, come il senatore Lodge, erano consapevoli delle capacità degli Stati Uniti di esercitare un’egemonia a livello planetario si ritraevano di fronte alla prospettiva di uno stabile coinvolgimento in un’organizzazione permanente e guidarono la resistenza alla testarda volontà di Wilson di ottenere la ratifica da parte del Senato. La lettura degli atti parlamentari di quell’acceso dibattito è illuminante per la comprensione della storia della politica estera americana di tutto il XX secolo nonché di quella delle organizzazioni mondiali di sicurezza. Nel novembre del 1919, il trattato di pace fu respinto dal Senato americano: particolarmente interessanti furono le argomentazioni dei senatori contrari alla ratifica, uno dei quali giunse a definire la Carta della Lega delle Nazioni «lo statuto di un club internazionale degli omicidi», negoziato da ingenui che erano stati raggirati da «abili e degni successori di Metternich e di Talleyrand».3

Il dibattito confermava la tradizionale diffidenza nei confronti della politica europea, il rifiuto di sottomettere gli Stati Uniti a una qualche forma di giurisdizione nella quale essi potessero esser posti in minoranza, la profondissima diffidenza nei confronti di ogni possibile burocrazia internazionale («orde di impiegati in tutto il mondo alla caccia di torbidi che si troverebbero sempre»). Il giudizio complessivo più efficace doveva essere però quello del senatore dell’Ohio, Warren G. Harding, destinato di lì ad un anno a succedere a Wilson alla Casa Bianca: «So (…) che in questo trattato abbiamo scambiato fin dall’inizio l’indipendenza americana, per creare una lega. Abbiamo gettato via la libertà d’azione dell’America per istituire un supergoverno nel mondo, che fin dall’inizio è stato così concepito. Parlo come uno sufficientemente all’antica per ritenere che il governo degli Stati Uniti d’America è abbastanza buono per me. Nell’esprimere il mio rispetto per quel governo, senatori, intendo preservare l’equilibrio tra i poteri concepiti e istituiti dai padri fondatori; e se anche nella vicenda di oggi non ci fosse altro significato, potete dire al popolo degli Stati Uniti d’America e al mondo che il Senato degli Stati Uniti d’America ha ancora una volta riaffermato la sua autorità e la validità della democrazia rappresentativa».4

L’attualità del dibattito è impressionante: gli argomenti usati contro l’embrione della Società delle Nazioni coincidono pienamente con quelli riportati in auge dalla ripresa del conservatorismo nell’ultimo quarto del XX secolo e nei primi anni dell’attuale. Soprattutto in conseguenza di quel dibattito, Wilson era destinato a passare alla storia come un idealista votato all’utopia della pace universale, ma la sua lucida coscienza della superiorità americana lo rendeva assai più realista e moderno dei suoi oppositori, convinto com’era, a ragione, che gli alleati europei fossero già finanziariamente nelle mani degli Stati Uniti e che, quindi, potessero essere indotti a tenere i comportamenti che l’Amministrazione americana si attendeva da loro. La validità di questa seconda convinzione non poté esser verificata perché Wilson fu abbandonato dall’elettorato e dal Congresso. Ma la modernità del discorso wilsoniano appare evidente nonostante tutte le concessioni che lo stesso Wilson era stato costretto a fare alla tradizionale visione dei governi europei, fondata sul diritto dei vincitori, sulle alleanze tradizionali e sugli imperi coloniali. In buona sostanza con Wilson – e nonostante la sua finale sconfitta – gli Stati Uniti avevano compiuto grandi passi sulla strada dell’egemonia globale e, quindi, verso la creazione di un unico nomos della terra.

Il fallimento di Wilson trascinò con sé anche la sua creatura. Senza la partecipazione degli Stati Uniti, la Società delle Nazioni vide la luce gravemente mutilata e le sue capacità di garantire la sicurezza e di rinnovare il sistema delle relazioni internazionali furono assai scarse; dal canto loro gli Stati Uniti avevano perso una grande occasione per adeguare il loro peso politico a quello economico nell’arena mondiale. La debolezza della SdN risiedeva nell’assenza di validi meccanismi decisionali e, soprattutto, nella mancanza di accordo tra le potenze principali.

D’altronde, i semi di discordia e di risentimento lasciati dai trattati di Versailles e le nuove contrapposizioni totalizzanti come quella tra comunismo e fascismo, erano fattori di turbolenza tali che nessuna organizzazione internazionale sarebbe riuscita a controllare.

L’avvento al potere di Hitler e la crescente esigenza tedesca di procedere, prima, alla revisione dei trattati di Versailles e, subito dopo, all’affermazione della egemonia in Europa innescarono un processo che, nei suoi tratti essenziali, ripercorreva le strade che avevano condotto al primo conflitto mondiale. A raggiungere un esito quasi completamente opposto, dopo gli enormi sconvolgimenti del secondo conflitto mondiale, contribuirono molteplici fattori, oggettivi e soggettivi, tra i quali si possono qui emblematicamente considerare soltanto due.

La gravità e la persistenza della crisi economica e finanziaria apertasi nel 1929 ebbero un peso decisivo nell’orientare la politica internazionale degli Stati Uniti. Dopo i tentativi soltanto parzialmente riusciti di rianimare l’economia americana attraverso le successive fasi del New Deal, di fronte al panorama internazionale sempre più minaccioso per le iniziative della Germania hitleriana, la seconda Amministrazione Roosevelt si rese precocemente conto delle possibilità offerte all’economia americana dal rilancio della spesa militare, interna e internazionale. La ripresa dell’occupazione negli Stati Uniti si consolidò definitivamente con l’apertura delle ostilità nel settembre del 1939 e con la conseguente decisione dell’Amministrazione di trasformare il paese nell’ «arsenale della libertà».

A questo decisivo e strutturale fattore di carattere oggettivo fu consentito di operare grazie all’esistenza di un altro presupposto, di carattere soggettivo questa volta, e legato alla straordinaria personalità di Franklin Delano Roosevelt. Sensibile, per tradizione familiare e concezioni personale alla visione della grandezza degli Stati Uniti soprattutto come potenza marittima, legato dalla sua esperienza politica al partito democratico e all’Amministrazione Wilson,5 il trentaduesimo Presidente degli Stati Uniti giunse ad elaborare nelle sue linee generali una nuova e moderna visione del mondo, che riuscì a portare avanti fino allo stremo delle sue forze.

In quella concezione si fondevano in modo complessivamente coerente il nazionalismo americano, depurato dalle più estreme frange di jingoismo, e l’afflato ideale di Wilson, volto a porre la forza degli Stati Uniti al servizio dei valori della libertà, della solidarietà e della pace. Tutto sommato, una delle definizioni più calzanti della figura di F.D. Roosevelt è quella che lo dipinge come un «wilsoniano rinnegato».6 Anche Roosevelt, come Wilson, dovette affrontare il problema di ottenere il consenso dell’opinione americana alla propria visione del mondo, che comprendeva, fin dall’inizio, una scelta di campo a favore delle democrazie occidentali; e, come Wilson, ebbe a gestire le problematiche connesse al principio della libertà dei mari nel periodo della neutralità americana. E, assai più realisticamente, Roosevelt manovrò in modo da non perdere mai il contatto con il paese, fin quando l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la conseguente, ancorché assai poco razionale, dichiarazione di guerra tedesca agli Stati Uniti lo liberarono da ogni preoccupazione di acquisizione del consenso.

Una componente essenziale della visione del mondo rooseveltiana era la creazione di una rete di organizzazioni internazionali, che costituisse il quadro istituzionale e normativo mondiale, entro il quale avrebbe potuto esplicarsi la grande superiorità americana in tutti i campi della vita associata.7 Per quanto riguarda l’organizzazione di sicurezza collettiva, Roosevelt si rifaceva alle ipotesi dello zio Theodore, nel senso di preoccuparsi soprattutto del potere coercitivo dell’organizzazione nei confronti dei suoi membri. Da qui la teoria dei «four policemen» (ai quali la tenacia di de Gaulle aggiunse la Francia), i grandi paesi che, nello schema definitivo, sarebbero divenuti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e dal cui accordo sarebbe dipesa l’efficacia del nuovo strumento di sicurezza collettiva. Ma la novità principale introdotta da Roosevelt fu la conduzione della guerra in forme tali che gli consentirono di porsi come il leader di una coalizione effettiva. Il presidente americano fu capace di coordinare lo sforzo bellico in forme assai più efficaci di quelle operanti in un’alleanza tradizionale, anche attraverso estenuanti mediazioni come quella esercitata tra le decrescenti pressioni di Stalin e le crescenti resistenze di Churchill sull’apertura del secondo fronte in Europa.

Il punto più alto di questo ruolo di guida esercitato da Roosevelt fu senz’altro raggiunto all’incontro dei Tre Grandi del febbraio 1945, anche se questo giudizio è uno dei più aspramente dibattuti, non tanto nella storiografia quanto nella politica americana. Qui la ripresa del conservatorismo ha dato nuovo impulso al mito di Yalta, secondo il quale un Roosevelt indebolito e quasi morente avrebbe ceduto alle pretese di uno Stalin arrogante, sotto lo sguardo inorridito di Churchill.8

Del mito di Yalta fa parte anche la deliberata ignoranza del grande lavoro ivi svolto sulla organizzazione delle Nazioni Unite, già soggette ad approfondito lavoro istruttorio da parte dell’Amministrazione americana. Gli argomenti più controversi riguardavano il processo decisionale all’interno della nuova organizzazione ed in particolare le modalità di adesione degli Stati ed i poteri dei membri del nuovo Consiglio di Sicurezza.

La prima questione involgeva una problematica che si era già posta a proposito della Società delle Nazioni e riguardava la possibilità che all’organizzazione aderissero Stati coloniali o dominions. L’avversione nei confronti degli imperi coloniali, compreso quello britannico, era condivisa fermamente da Roosevelt. Questi accettò senza batter ciglio l’adesione dei dominions non solo per la partecipazione concreta di alcuni di essi alla guerra, ma anche perché aveva previsto che le Nazioni Unite avrebbero in qualche modo favorito la scomparsa del colonialismo.9

Questa problematica si rifletteva anche sull’altro principale argomento di discussione, quello del diritto di veto, del quale i sovietici avevano fatto una pregiudiziale rispetto alla loro adesione, certi com’erano che sarebbero rimasti isolati. È interessante osservare come nel dibattito interno all’Amministrazione il presidente, di fronte alle critiche dei suoi collaboratori rispetto alla pregiudiziale sovietica, ricordando le argomentazioni a suo tempo usate dagli isolazionisti, esprimeva l’avviso che il veto poteva essere considerato una garanzia per tutte le principali potenze, Stati Uniti compresi.

Da questo punto di vista, lo status dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza veniva potenziato dal diritto di veto, giustificando a posteriori ancora una volta le posizioni teoriche sostenute da Carl Schmitt nel corso della guerra (e ancora una volta nell’interesse della Germania nazista): che cosa infatti distingueva i «policemen» di Roosevelt dai «grandi spazi» di Schmitt, dal momento che solo tra i primi avrebbero potuto sussistere quei rapporti speciali (e anzitutto il principio della decisione per consenso), che potevano configurare un nuovo diritto internazionale in cui il ruolo dei «grandi spazi» era diverso da quello degli Stati ordinari?

Nella visione rooseveltiana i membri del Consiglio di Sicurezza avrebbero dovuto e potuto agire di comune accordo, riconoscendo come realtà inevitabile e, addirittura vantaggiosa, la superiorità americana. Roosevelt si rendeva anche conto della profonda diversità dell’Unione Sovietica dagli altri componenti del sistema delle relazioni internazionali, non foss’altro che per la sua originaria pretesa di universalità; riteneva tuttavia possibile mantenere stabilmente i legami stretti nel momento del pericolo; convinto di disporre di incentivi sufficienti per conservarli a un livello accettabile.

Questa previsione di Roosevelt non si verificò. Stabilirne i motivi significherebbe ricostruire lo sterminato e sin qui non concluso dibattito sulle origini della guerra fredda: il che non è qui né possibile né pertinente. E’ certo, però, che anche dopo la morte di Roosevelt, il progetto continuò ad andare avanti e la Conferenza di San Francisco concluse il lavoro di Yalta.

«Nulla è più essenziale, per la futura pace del mondo della continua cooperazione delle nazioni che hanno dovuto riunire le forze necessarie per sconfiggere il complotto delle potenze dell’Asse per dominare il mondo. Mentre questi grandi Stati hanno una responsabilità speciale di imporre la pace, la loro responsabilità si fonda a sua volta sull’obbligo che tutti gli Stati, grandi e piccoli, hanno assunto di non usare la forza nelle relazioni internazionali se non per la difesa della legge. La responsabilità dei grandi Stati è quella di servire, non di dominare i popoli del mondo».10

Così si esprimeva nel suo discorso d’insediamento il nuovo Presidente Harry Truman, per diversi anni senatore del Missouri, e certo, come vice presidente, non adeguatamente coinvolto nel disegno rooseveltiano. Il fatto che un uomo profondamente segnato dall’esperienza senatoriale si esprimesse in questi termini significava anzitutto che la situazione si era rovesciata rispetto ai tempi di Wilson. Del resto, anche nel momento in cui l’Amministrazione decideva espressamente di orientare la politica americana verso il duro contenimento della minaccia sovietica con la dottrina Truman del 1947, il sostrato ideologico era quello wilsoniano e rooseveltiano della difesa della democrazia che, ora, passava necessariamente attraverso l’anticomunismo.

Certo, perché il processo avviato potesse continuare ai livelli sperati sarebbe occorsa una molto maggiore comprensione del disegno rooseveltiano da parte del gruppo dirigente sovietico. Questo non solo si ritrasse, per pregiudizio ideologico e per ignoranza, dal processo di formazione delle istituzioni finanziarie internazionali, ma anche sul terreno della sicurezza mantenne un atteggiamento diffidente: oltre alla perentoria richiesta sul diritto di veto, i sovietici per ragioni di puro prestigio insistettero perché le Repubbliche sovietiche dell’ Ucraina e della Bielorussia fossero ammesse a far parte dell’organizzazione e Molotov partecipò alla Conferenza di San Francisco al posto del designato Gromyko soltanto come atto di omaggio al defunto Roosevelt.

Il rapido avvento della contrapposizione globale doveva trasformare anche le Nazioni Unite in terreno di scontro: esse, tuttavia, riuscirono a conservare un ruolo molto più efficace di quello svolto dalla Società delle Nazioni. Basti pensare al rapido rientro dell’Unione Sovietica nel Consiglio di Sicurezza, dopo che lo aveva abbandonato durante la guerra di Corea. Lo stesso Consiglio, del resto, rimase sempre la sede in cui le due grandi potenze continuavano a parlarsi, sia pure soltanto, in molte occasioni, per scambiarsi insulti propagandistici. Certo, se il massiccio ricorso al potere di veto da parte sovietica, minava l’efficacia del meccanismo di sicurezza, esso non impediva che le Nazioni Unite svolgessero l’altra loro fondamentale funzione, quella di favorire la nascita di nuovi soggetti di diritto internazionale in seguito al rapido processo di disgregazione degli imperi coloniali.

Il processo antimperialista subì un’accelerazione decisiva nel 1956 con la disastrosa spedizione militare anglo-francese a Suez: Eisenhower, che era stato pienamente partecipe sul piano politico del disegno rooseveltiano, nell’annunciare la successione degli Stati Uniti a quella delle potenze imperiali in Medio Oriente a tutela dei valori della democrazia e della pace minacciati dall’aggressività sovietica (vera o presunta che fosse) non solo continuava nella linea dell’affermazione di un’unica egemonia planetaria, ma stabiliva altresì che questa si sarebbe esercitata con le nuove modalità consentite dalla potenza americana, che non prevedevano limiti formali all’indipendenza dei popoli.

Come conseguenza del tutto involontaria dei contenuti politici della dottrina Eisenhower, e in modo invece conforme all’originario disegno rooseveltiano, si rafforzava così il processo iniziato qualche anno prima e culminato nella Conferenza di Bandung: una serie di paesi già membri delle Nazioni Unite tendeva a raggrupparsi in modo autonomo rispetto alle due grandi potenze, e l’organizzazione mondiale tendeva a divenire sempre più un foro di risonanza delle aspirazioni di quel che veniva definendosi come Terzo Mondo. Si trattò certamente di una fase caotica e dispersiva della vita dell’organizzazione internazionale sulla quale si abbatté lo sprezzante giudizio di de Gaulle, «machin»,11 che si è citato nel titolo e provocato dalla guerra d’Algeria. Ancora una volta Carl Schmitt interpretava meglio di ogni altro l’opinione conservatrice su questa fase della vita delle Nazioni Unite: «(…) negli ultimi anni si è costituita una stupefacente quantità di nuovi Stati africani ed asiatici, che sono senz’altro stati ammessi a far parte dell’ONU. L’anticolonialismo antieuropeo ha sostituito qualunque altra legalità o legittimità».12

La situazione non è mai stata così drammatica come la descrive il lucido e reazionario giurista tedesco. Certo, gli sviluppi degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, per quanto parzialmente conformi alla sostanza del disegno rooseveltiano, non potevano non ingenerare preoccupazione negli Stati Uniti in quanto l’organizzazione mondiale veniva rivelandosi strumento sempre meno adatto ad assicurarne l’egemonia planetaria. Non desta meraviglia che un’Amministrazione democratica particolarmente legata all’internazionalismo come quella di Carter abbia assunto, nel 1978, l’impegno di proporre al Senato elementi per una riforma delle Nazioni Unite, facendo precedere le sue indicazioni da un articolato giudizio complessivo: «Il sistema delle Nazioni Unite può giustamente esser fiero per i suoi grandi successi: ha servito l’interesse generale con le sue attività di mantenimento della pace e nel suo lavoro di ricerca ai fini dello sviluppo economico. È stato utile all’umanità nei settori della salute, delle comunicazioni, dell’educazione ed in molti altri. Tuttavia, le Nazioni Unite – come molte altre istituzioni nazionali ed internazionali – non sono spesso riuscite a essere all’altezza delle aspettative popolari e degli obiettivi dei fondatori. La necessità di una riforma delle Nazioni Unite risale quasi ai loro inizi, man mano che i cambiamenti delle circostanze imponevano cambiamenti nella struttura, nelle procedure e nelle priorità. Contemporaneamente si dimentica spesso quanto successo il sistema delle Nazioni Unite abbia avuto nell’adattarsi alle mutate circostanze. Le riforme possono non essere state rapide ed incisive come molti avrebbero desiderato, ma, nei limiti del possibile, sono state efficaci e ampie».13

È un giudizio che mantiene ancora oggi tutta la sua validità e consente di dare una risposta apertamente e nettamente negativa al dubbio avanzato nel titolo sulle orme di de Gaulle.

Malauguratamente, questa conclusione non è condivisa proprio dal principale paese fondatore delle Nazioni Unite. Il processo che si è sommariamente delineato non poteva non suscitare reazioni veementi nello schieramento conservatore americano specialmente dopo che, negli anni Sessanta del Novecento e sulla scia della vicenda vietnamita, venne rafforzandosi la ripresa conservatrice.

Già con la prima Amministrazione Reagan il vento era cambiato e gli Stati Uniti, pur mantenendo un atteggiamento di formale adesione all’organizzazione, non lesinavano le critiche e compivano anche concreti gesti di dissenso come il ritardo nel pagamento dei contributi o la clamorosa uscita dall’UNESCO. Così, tanto per fare qualche esempio, nel discorso tenuto all’Assemblea Generale nel settembre del 1983, Reagan ribadiva la volontà degli Stati Uniti di contribuire «a riprendere il sogno che un tempo le Nazioni Unite sognavano» e, nel novembre dello stesso anno, in una conferenza stampa relativa all’invasione di Grenada condannata dalla stessa Assemblea generale, il Presidente affermava che «(…) cento paesi delle Nazioni Unite non sono stati d’accordo con gli Stati Uniti su nessuna questione che veniva loro sottoposta e nella quale il nostro paese era coinvolto: ebbene, questo non ha minimamente turbato la mia prima colazione».14 A guidare l’offensiva reaganiana contro le Nazioni Unite furono i cosiddetti neoconservatori (tra i quali primeggiava l’ambasciatore alle Nazioni Unite Jeanne Kirkpatrick). Questi, provenendo dalle fila democratiche, erano scevri da ogni atteggiamento isolazionistico in senso stretto e attribuivano all’Unione Sovietica anche la degenerazione delle Nazioni Unite, dal momento che consideravano i paesi non allineati come succubi dell’egemonismo sovietico. Venti anni dopo, crollata l’Unione Sovietica e superata la ripresa di un atteggiamento positivo nei confronti dell’organizzazione mondiale con Bush senior e Clinton, i neoconservatori hanno rilanciato l’ostilità nei confronti dell’ONU, non senza dubbi e contraddizioni come nella fase antecedente la seconda guerra irachena. E, questa volta, senza la copertura della contrapposizione globale.

Dopo che la seconda Amministrazione di G.W. Bush ha ripreso, in un’accezione completamente nuova, la tematica wilsoniana dell’estensione della democrazia, la posizione americana è sembrata ritornare alle origini. Fra l’altro, oggi, la cosiddetta globalizzazione costituisce un presupposto essenziale perché al pianeta terra si applichi un unico principio normativo e che l’ONU possa finalmente divenire lo strumento dell’egemonia americana. Almeno a giudicare dall’insistenza con la quale Bush persegue la nomina di un neoconservatore di punta come John R. Bolton a rappresentante degli Stati Uniti all’ONU, questa sembra essere la visione prevalente nell’Amministrazione.

In realtà, il ritorno all’originaria impostazione rooseveltiana è del tutto apparente. Se il fine della difesa e dell’estensione della democrazia è lo stesso (come lo era per Wilson), gli strumenti sono opposti. Per Roosevelt la superiorità americana postulava il riconoscimento dell’esistenza e della legittimità di bisogni e motivazioni nutriti da altri componenti del sistema delle relazioni internazionali. La politica rooseveltiana era tutta fondata sul multilateralismo e sulla sua istituzionalizzazione. Il perseguimento unilaterale delle proprie finalità nazionali attraverso alleanze costruite di volta in volta, contrasta radicalmente con il concetto di sicurezza collettiva, specialmente nella sua accezione più recente che – giustamente – non la considera più limitata al piano diplomatico e militare, ma estesa all’economia, allo sviluppo sociale e alla tutela dell’ecosistema complessivo.

In queste condizioni è veramente difficile immaginare quale possa essere il percorso di una incisiva riforma del sistema. Sia consentito di ricorrere un’ultima volta all’analisi di Schmitt, mantenendo viva la coscienza dei limiti derivanti alla sua analisi dal suo acceso nazionalismo germanico. Già nel 1951, il giurista tedesco prevedeva «la possibilità di un equilibrio di forze, un equilibrio di vari grandi spazi, che creino tra loro un nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello, e con dimensioni nuove, però, nello stesso tempo, dotato di certe analogie con il diritto delle genti europee dei secoli XVIII e XIX che pure si basava su un equilibrio di potenze grazie al quale si conservava la sua struttura. Anche lo jus publicum europaeum implicava una unità del mondo. Era un’unità eurocentrica; non era il potere politico di un unico padrone di questo mondo, ma di una formazione pluralista e di un equilibrio di varie forze».15 Un siffatto equilibrio non è di per sé incompatibile con l’egemonia di una unica potenza concepita ed esercitata in termini rooseveltiani; affermazione che Schmitt probabilmente non avrebbe sottoscritto, pur se era giunto a definire in termini più moderni e non soltanto militari il concetto di grande spazio riservandolo alle aree sviluppate del pianeta.

Oggi i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza non esauriscono certamente il novero dei possibili grandi spazi, ed anzi per due di essi, Francia e Gran Bretagna, le condizioni per esser considerate tali sono venute a mancare definitivamente. Ciò comporta che requisito essenziale per il conseguimento dello status di grande spazio sono le dimensioni continentali o quasi continentali, che peraltro sono condizione necessaria ma non sufficiente (basti pensare all’Australia). Ne consegue che i grandi spazi possibili, per così dire nativamente, coincidono con i tre residui membri permanenti del Consiglio di sicurezza – compresa la Russia, nonostante l’enorme declino di potenza subito negli ultimi tre lustri – ai quali si possono aggiungere almeno potenzialmente l’India e il Brasile. Sarebbe tuttavia incongruo non tener conto della tendenza in atto alla formazione di aggregazioni di Stati nazionali che, attraverso la cessione graduale e concordata di sovranità ad entità di dimensioni superiori, possono aspirare in concreto a divenire grandi spazi e, come tali, godere di uno statuto privilegiato nel sistema delle Nazioni Unite.

Il raggiungimento di un assetto di questo tipo, che comporterebbe anche la revisione della regola del consenso nel Consiglio di sicurezza, è oggi sicuramente impossibile. La relativa inutilità degli sforzi di riforma sin qui profusi e l’enormità di quelli da compiere danno forza agli innumerevoli argomenti di quanti negano la possibilità di migliorare il sistema delle relazioni internazionali, riducendo i margini per il ricorso alla violenza ed estendendo invece quelli della regolamentazione giuridica delle relazioni medesime. A questi argomenti se ne può opporre soltanto uno: che il disordine mondiale può ormai raggiungere livelli tali da compromettere diffusamente le possibilità di convivenza e, quindi, in prospettiva anche la conservazione della specie.

Se è vero che gli uomini tendono a porsi soltanto i problemi che sono in grado di risolvere, è giunto il momento di porsi questo problema.

 

 

Bibliografia

1 F.W. Haberman (a cura di), Peace 1901-1925, Amsterdam, vol. 1, 1927, p. 105. Il volume raccoglie le conferenze dei premi Nobel per la pace del periodo considerato.

2 Così scriveva il Primo ministro britannico Lord Grey al colonnello House, principale collaboratore e amico personale di Wilson. Cfr. J.A. Thompson, Woodrow Wilson, London-New York, 2002, pp. 118 e 124.

3 Cfr. Congressional Record, Sixty Six Congress, First Session, novembre 18/1919, p. 9293.

4 Ivi, p. 9310.

5 Per quanto i legami familiari tra i due rami dei Roosevelt fossero più competitivi che di vicinanza, la figura dello zio Theodore rimase sempre un punto di riferimento per Franklin, al pari di quella di Wilson, di cui era stato Sottosegretario alla Marina.

6 La definizione è di D. Yergin, Shattered Peace. The Origins of the Cold War and the National Security State, Boston, s. d. (ma 1977), p.45.

7 Anche questo aspetto delle prospettive di politica internazionale degli Stati Uniti fu subito colto da Schmitt, e sempre in funzione dei presunti interessi tedeschi. Schmitt, ancora una volta coglieva l’aspirazione egemonica degli Stati Uniti già in una dichiarazione fatta nel 1941 da Stimson, Segretario di Stato di Hoover e poi Segretario alla difesa di Roosevelt. Aveva affermato Stimson che, come nel 1861 gli Stati Uniti erano troppo piccoli per gli antagonismi tra gli Stati del Nord e del Sud, così oggi «la terra è troppo piccola per due sistemi contrapposti».

8 Questa versione della conferenza di Crimea fu inizialmente opera di de Gaulle, esasperato per la esclusione della Francia dal novero delle potenze vincitrici. Grazie alla sua superiore intelligenza politica, Roosevelt finì per riconoscere proprio ad Yalta il ruolo della Francia. In realtà, il giudizio ancora oggi più valido sulla Conferenza di Crimea, nonostante l’enfasi con la quale è formulato, è quello di A.J.P. Taylor che già negli anni 1960 scriveva: «Dei tre grandi uomini che si trovavano al vertice Roosevelt era l’unico che sapesse quel che faceva: fece degli Stati Uniti la maggiore potenza mondiale senza pagare praticamente nulla». Cfr. A.J.P. Taylor, Storia dell’Inghilterra contemporanea, tr. it. Bari, 1968, p. 712.

9 Nella sua monumentale biografia di Roosevelt, Conrad Black accenna ripetutamente all’antipatia rooseveltiana nei confronti degli imperi coloniali, espressa nel modo più veemente in occasione della visita che il presidente americano fece a Bathurst, in Gambia, nel gennaio del 1943 nel corso del viaggio verso Casablanca, ove doveva incontrare Churchill. Egli definì l’ex-porto della tratta degli schiavi come un «buco pestifero», rafforzando la sua «opinione circa la precarietà, l’inutilità e l’illegittimità dell’occupazione coloniale». Cfr. C. Black, Franklin Delano Roosevelt. Champion of Freedom, 2003, p .795.

10 Il discorso di Truman è reperibile sul sito www.trumanlibrary.org .

11 La qualificazione dell’organizzazione mondiale come «aggeggio», «accrocco», è di Charles de Gaulle e risale al settembre1960. Gli estimatori del Generale, a cominciare dal suo più autorevole biografo (J. Lacouture, De Gaulle. Le Souverain, Paris, 1990, p. 429) tendono a minimizzare questo sprezzante giudizio, considerandolo transitorio e legato alle iniziali difficoltà della decolonizzazione.

12 Cfr. Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi, Introduzione e nota bibliografica di Alessandro Campi, Roma 1994, p. 335.

13 J. Muller (a cura di), Reforming the United Nations. New Initiatives and Past Efforts, The Hague-London-Boston, 1997, vol. I, p. III 8/4. Si tratta di una raccolta in tre volumi che offre un panorama vastissimo dei tentativi di riforma del sistema dell’ONU.

14 Per le affermazioni di Reagan si veda la raccolta Public Papers of the Presidents of the United States. Ronald Reagan, nel II volume del 1983, rispettivamente alle pp. 1354 e 1543.

15 Cfr. C. Schmitt, op. cit., p. 309.