Benedetto XVI e le sfide del XXI secolo

Di Alceste Santini Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

I primi atti compiuti da Benedetto XVI, affermando che il Concilio Vaticano II deve essere la «bussola» con cui «orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio» e che sia necessario rilanciare «con gesti concreti» il dialogo ecumenico e interreligioso per contribuire alla costruzione di una nuova Europa e della pace internazionale, hanno rivelato la sua volontà di proseguire, sia pure con un uno stile più sobrio ed essenziale, sulla via tracciata da Giovanni Paolo II in quasi ventisette anni di intenso pontificato per le vie del mondo. Con la stessa scelta del nome, con la quale – interrompendo una tradizione – si è voluto riallacciare al quasi dimenticato Benedetto XV (il Papa che definì la guerra una «inutile strage» con una nota del 1 agosto 1917 ai capi dei popoli belligeranti e che aprì una Chiesa attestata sull’antimodernismo di Pio X all’Europa, come alla Russia e alla Cina) ha inteso indicare che la Sede apostolica deve continuare a svolgere, con rinnovate iniziative, una incisiva politica mondiale per favorire la giustizia, la pace e lo sviluppo di continenti tormentati dalle povertà e dalle disuguaglianze come l’Africa, l’America Latina e l’Asia.

 

I primi atti compiuti da Benedetto XVI, affermando che il Concilio Vaticano II deve essere la «bussola» con cui «orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio» e che sia necessario rilanciare «con gesti concreti» il dialogo ecumenico e interreligioso per contribuire alla costruzione di una nuova Europa e della pace internazionale, hanno rivelato la sua volontà di proseguire, sia pure con un uno stile più sobrio ed essenziale, sulla via tracciata da Giovanni Paolo II in quasi ventisette anni di intenso pontificato per le vie del mondo. Con la stessa scelta del nome, con la quale – interrompendo una tradizione – si è voluto riallacciare al quasi dimenticato Benedetto XV (il Papa che definì la guerra una «inutile strage» con una nota del 1 agosto 1917 ai capi dei popoli belligeranti e che aprì una Chiesa attestata sull’antimodernismo di Pio X all’Europa, come alla Russia e alla Cina) ha inteso indicare che la Sede apostolica deve continuare a svolgere, con rinnovate iniziative, una incisiva politica mondiale per favorire la giustizia, la pace e lo sviluppo di continenti tormentati dalle povertà e dalle disuguaglianze come l’Africa, l’America Latina e l’Asia.

Per realizzare questo disegno, il nuovo Pontefice si è impegnato a favorire una maggiore collegialità e partecipazione delle chiese locali al governo della Chiesa universale, ridimensionando il potere della Curia, allargatosi mentre Giovanni Paolo II era rimasto fuori dal Vaticano per circa due anni e mezzo per compiere 104 viaggi intercontinentali, trascurando le riforme. Va ricordato che Paolo VI, sull’onda innovatrice del Concilio Vaticano II, aveva istituito i Sinodi dei vescovi per trattare temi riguardanti il rapporto della Chiesa con il mondo. Ma il loro limite era dato dal loro carattere consultivo e non deliberativo per cui i vescovi, al termine delle loro assemblee, consegnavano le loro proposte al Papa che, con l’aiuto della Curia, le trasformava in documenti per la Chiesa universale. È, così, cresciuto il disagio dei vescovi dopo che Giovanni Paolo II ha continuato sulla stessa linea, senza tener conto che i Sinodi nelle Chiese protestanti, anglicane e ortodosse hanno carattere deliberativo. Né ha trasformato la Segreteria per i Sinodi da centro burocratico-organizzativo in un organismo rappresentativo delle Conferenze episcopali nazionali per aiutare il Papa a guidare la Chiesa. Papa Ratzinger potrà dire una parola nuova su questo tema in ottobre, quando avrà luogo il Sinodo dedicato all’Eucarestia. Un altro problema rimasto aperto riguarda la questione del «primato pontificio» che Gi ovanni Paolo II ha avuto il coraggio di solleva re con l’enciclica «Ut unum sint» del 1995, proponendo a tutte le Chiese cristiane di ridefinire «insieme» le modalità dell’ esercizio del «Primato petrino». La proposta ave va suscitato grande interesse, ma poi tutto è tornato come prima e le relazioni ecumeniche ristagnano.

Il cardinale Joseph Ratzinger sosteneva nell’ottobre 1977 che «il Papa rappresenta la sfida a lottare per l’unità e farsi responsabilmente carico della mancanza di unità». Una visione teologica che, in quanto ispirata alle Scritture e meno al carattere giurisdizionalista e monarchico che il papato ha avuto dall’anno mille fino al Concilio Vaticano I che ne ha proclamato l’infallibilità, potrebbe spingere Papa Ratzinger, nella visione collegiale del Vaticano II, a pronunciare una parola nuova sull’argomento, come ha fatto intendere con il discorso del 20 aprile ai cardinali nella Cappella Sistina.

 

L’Europa, i problemi della modernità e del rapporto tra fede e scienza

È chiaro l’impegno assunto da Benedetto XVI per contribuire a realizzare l’Unione europea allargata a venticinque paesi, un’area in cui il cattolicesimo è sollecitato a confrontarsi con le altre Chiese cristiane e con le diverse religioni, fra cui l’Islam, anche in vista dell’ingresso della Turchia, a larghissima maggioranza musulmana. Rispetto a trent’anni fa, il contesto del continente europeo è profondamente mutato con il progressivo affermarsi del pluralismo culturale e religioso. Il fenomeno della secolarizzazione, connesso a questa novità, ha ridotto la pratica religiosa dei fedeli con relativa diminuzione delle ordinazioni sacerdotali, per cui la Chiesa è obbligata a ricercare nuove forme di evangelizzazione. Mentre ha registrato un’espansione in Africa e in America Latina, ormai baricentro del cattolicesimo con circa 535 milioni di seguaci su un miliardo e 90 milioni di cattolici presenti nel mondo.

Perciò, guardando al Vecchio continente in cui, rispetto alle tradizioni cristiane, «si va costituendo una dittatura del relativismo» che tende a escludere Dio dall’esistenza umana, il cardinale Joseph Ratzinger, con il discorso «Pro eligendo Pontifice» del 18 aprile scorso, il giorno prima della sua elezione al pontificato, aveva parlato dell’urgenza di una «fede adulta» che consenta ai cristiani di non «seguire le onde della moda e l’ultima novità». Ricordava che «la piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo, dal collettivismo fino all’individualismo radicale, dall’ateismo a un vago misticismo religioso, dall’agnosticismo al sincretismo e così via».

Per Papa Ratzinger, quindi, la Chiesa cattolica deve ridefinire se stessa, mettendo al centro Gesù e il suo messaggio salvifico, per meglio confrontarsi con le altre religioni e con la cultura laica e pluralista dominante in Europa. Gli stessi vecchi Concordati, esistenti in Italia come in Spagna e in Portogallo, dove la religione cattolica era ritenuta «religione di Stato», non esistono più. Sono stati sostituiti da Accordi incentrati sulla distinzione tra lo Stato e la Chiesa con rispettive competenze, senza che ciò impedisca alle due parti di collaborare per la promozione umana. Gli effetti di questa nuova situazione si sono visti in Spagna, con il governo Zapatero che ha affrontato in modo nuovo, secondo la maggioranza dell’opinione pubblica, la delicata problematica riguardante il matrimonio, il rapporto di coppia tra uomo e donna ma anche tra persone dello stesso sesso, suscitando reazioni critiche della Chiesa cattolica spagnola e dello stesso Vaticano.

Perciò, la grande battaglia per il riconoscimento delle «radici cristiane» dell’Europa, condotta con forza da Giovanni Paolo II prima della firma del Trattato costituzionale europeo il 29 ottobre 2004 a Roma, è destinata a continuare. Benedetto XVI deve ora scegliere se, in base all’articolo 52 del Trattato, stipulare un Accordo tra la Santa Sede e l’Unione europea o se allargare l’orizzonte coinvolgendo le altre Chiese cristiane. Con l’ingresso nell’Unione europea della Romania e della Bulgaria aumenterà la presenza degli ortodossi, collegati con il Patriarcato di Mosca, a cui si aggiungono le comunità protestanti, anglicane presenti da secoli nel continente. Inoltre, si affermano altre comunità religiose, da quelle islamiche in aumento con l’immigrazione a quelle buddiste e induiste che hanno legami con popolazioni di queste fedi largamente rappresentate in India e nell’Estremo Oriente.

Ecco perchè, la visione di un’Europa che respiri con «due polmoni» dell’Oriente e dell’Occidente, sostenuta da Giovanni Paolo II per superare «l’inaccettabile divisione» del continente stabilita a Yalta nel febbraio 1945, è stata fatta propria da Benedetto XVI. Questi, ricevendo il 12 maggio scorso gli ambasciatori di 174 paesi accreditati presso la Santa Sede, ha detto che «urge» riprendere il dialogo ecumenico guardando, prima di tutto, al Patriarcato della Chiesa ortodossa russa dalla quale, peraltro, sono arrivati segnali positivi in occasione dell’inaugurazione del suo pontificato il 24 aprile. Il cordiale messaggio augurale inviato a Benedetto XVI dal Patriarca Alessio II e la presenza alla cerimonia in Piazza San Pietro del Metropolita Kirill, numero due del Patriarcato, hanno indicato la disponibilità della «terza Roma» a dialogare con il nuovo Pontefice per superare l’impasse creatasi con Giovanni Paolo II, le cui origini polacche suscitavano a Mosca troppe diffidenze. Il «proselitismo» cattolico, nonostante fosse stato bandito dal documento congiunto di Balamond (Libano), aveva riacceso nel Patriarcato di Mosca vecchie ostilità che risalgono al Sinodo di Brest del 1596, quando, in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Polonia, si costituirono i grecocattolici fedeli a Roma pur conservando i riti bizantini. Una storia complessa che Giovanni Paolo II, da slavo, aveva cercato di attutire fino a compiere il gesto della restituzione al Patriarcato di Mosca della Madonna di Kazan nell’agosto 2004. Il cardinale Walter Kasper, presente come presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani alla cerimonia insieme al Patriarca Alessio II nella cattedrale moscovita, parlò di «svolta» nei rapporti tra la Santa Sede e la Chiesa ortodossa russa. E il fatto che sulla cattedra di Pietro sieda dal 19 aprile un tedesco, e non più un polacco, può favorire la ripresa del dialogo.

 

Interesse per paesi, come la Cina, che non hanno relazioni con la Santa Sede

Con il citato discorso agli ambasciatori, Papa Ratzinger ha lanciato un altro importante messaggio ai paesi che non hanno relazioni diplomatiche con la Sede Apostolica, quali la Cina, il Vietnam, l’Arabia Saudita. Il governo di Pechino, dopo aver inviato un messaggio alla Santa Sede per la morte di Giovanni Paolo II, avrebbe voluto farsi rappresentare da una delegazione ai funerali come alla successiva cerimonia di inaugurazione del pontificato di Benedetto XVI. Ma ha rinunciato per la presenza di Chen, rappresentante di Taiwan, che ha relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Non è, però, venuto meno il negoziato per il ripristino delle relazioni diplomatiche interrotte nel 1952, dopo l’accantonamento delle polemiche suscitate dalla decisione infelice della Santa Sede di canonizzare i santi martiri cinesi il 1 ottobre del 2000, in coincidenza con la festa per la proclamazione della Repubblica popolare cinese nel 1949.

Lo sguardo di Benedetto XVI è, così, rivolto all’Asia, dove i cattolici sono poco più di 120 milioni su circa tre miliardi e mezzo di abitanti, fortemente legati a tradizioni culturali e religiose estranee al cristianesimo. Di qui l’urgenza di iniziative nuove da parte di Papa Ratzinger che, come responsabile per la dottrina della fede, aveva espresso riserve verso l’autorevole teologo gesuita, Jacques Depuis, promotore di una «teologia cristiana del pluralismo religioso» per superare atteggiamenti negativi verso le altre religioni che hanno segnato venti secoli di tradizione cristiana. Benedetto XVI rivedrà il suo documento del 2000 «Dominus Jesus» con il quale sosteneva che solo nella Chiesa cattolica si consegue la «salvezza». Il fatto nuovo è che le nostre società sono e saranno sempre più caratterizzate da un pluralismo di culture e di fedi per cui l’identità cristiana, nel confronto e nel suo incontro con gli altri, è obbligata ad aprirsi, con il metodo del dialogo, abbandonando pregiudizi e chiusure.

 

La Chiesa deve infrangere le barriere tra popoli e razze

Un segnale per queste aperture verso altre tradizioni culturali e religiose per promuovere la pace e la giustizia tra le nazioni, Benedetto XVI lo ha dato con il discorso tenuto nella Basilica di San Pietro il 15 maggio, quando ha ricordato la sua esperienza di tedesco che ha «conosciuto la guerra e la separazione tra fratelli appartenenti alla stessa nazione, a causa di ideologie devastatrici e inumane», quali furono il nazismo hitleriano e il comunismo staliniano. Ed ha aggiunto: «Io sono particolarmente sensibile al dialogo tra tutti gli uomini, per superare tutte le forme di conflitti e di tensioni, e per fare della nostra Terra una Terra di pace e di fraternità».

E, alludendo all’inquieta situazione mondiale, Papa Ratzinger ha affermato il 15 maggio di fronte a una folla plaudente convenuta in Piazza San Pietro: «La Chiesa deve aprire le frontiere fra i popoli e infrangere le barriere e le razze». Ha, così, fatte proprie le idee illustrate nell’enciclica «Pacem in terris» del 1963 da Giovanni XXIII, il Papa della svolta conciliare con cui aprì la Chiesa alle diverse religioni e culture abolendo vecchie scomuniche per superare, con il dialogo il fossato che si era aperto tra Vangelo e mondo moderno. E, con lo sguardo rivolto al XXI secolo, Benedetto XVI ha aggiunto: «Vento e fuoco dello Spirito Santo devono senza sosta aprire quelle frontiere che noi uomini continuiamo a innalzare fra noi». E ha chiarito, parlando a tutti e non solo ai cattolici, che «la libertà umana è sempre una libertà condivisa, un insieme di libertà». Una riflessione stimolante, sul piano etico-politico, per un confronto con un mondo globalizzato ma carico di contraddizioni e di minacce tra cui le varie forme di fondamentalismi, del terrorismo a cui vanno aggiunte le sempre più pericolose disuguaglianze e povertà, per cui ha precisato: «Soltanto in un’ordinata armonia delle libertà, che dischiude a ciascuno il proprio ambito, può reggersi una libertà comune».

Con il concetto di «libertà comune», nel senso che ciascuno ne dovrebbe essere garantito nel proprio ambito in nome dei diritti umani, viene non solo indicata la via per abbattere le barriere di classe e di razza, anche per risolvere in modo diverso la spinosa questione degli immigrati. Ma vengono invitate tutte le forze riformiste e riformatrici a elaborare un progetto per costruire, insieme, la società civile e le relazioni internazionali. Viene, in tal modo, sollecitata un’alleanza di forze impegnate a misurarsi – sul piano politico, sociale, culturale e religioso – per edificare dalle fondamenta una «libertà comune» in quanto condivisa.

E che questa sia la grande questione del XXI secolo sul piano globale, per rimuovere le disuguaglianze tra Nord e Sud come all’interno delle nazioni, è confermato da una documentata inchiesta pubblicata dal «New York Times» lo scorso 15 maggio con il titolo: «Classi in America: linee d’ombra che ancora dividono». Per una pura coincidenza, mentre Benedetto XVI faceva il 15 maggio scorso le citate riflessioni sulle barriere che dividono classi e razze, l’autorevole quotidiano americano analizzava lo stesso giorno le divisioni sociali della società americana: «I contorni delle classi sono confusi, alcuni credono che siano spariti. Eppure le classi hanno ancora un forte potere». Lo abbiamo visto, infatti, con la teorizzazione della «guerra preventiva» in occasione dell’attacco unilaterale e senza il consenso dell’ONU all’Iraq da parte degli Stati Uniti e con la campagna elettorale che ha portato nel 2004 alla rielezione a presidente di George W. Bush. Una strategia che ha nel suo sottofondo l’idea di uno scontro tra civiltà.

Si può, quindi, discutere su come le barriere tra le razze e le civiltà abbiano sostituito quelle delle classi. Ma resta il fatto che, per confrontarsi seriamente con questa problematica complessa, non servono guerre e visioni ideologiche, ma sforzi congiunti di tutte quelle forze, di matrice laica e religiosa, che siano consapevoli del momento difficile che stanno vivendo i popoli. Perché il corso del loro destino, per evitare nuove catastrofi, sia guidato dall’idea di una «libertà condivisa» intesa come «un insieme di libertà» connesse ai diritti di ciascun popolo e di ogni singola persona.

Ed è proprio su questo punto che Benedetto XVI deve fare chiarezza perché sia superato, nella Chiesa, il vecchio confronto tra laici e cattolici come se questi ultimi non avessero ancora acquisito la laicità fatta propria dal Concilio Vaticano II per segnare una svolta rispetto alle chiusure integraliste del passato. Basti pensare a certe polemiche che si sono riaccese, come ai tempi dei referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981), allorché si è tornati a parlare oggi di famiglia, di vita di coppia, di procreazione assistita, di biotecnologie in relazione ai referendum del 12-13 giugno sulla infelice legge 40. Va, perciò, detto che laicità è, prima di tutto, un abito mentale che consente a ciascuna persona, che non si faccia guidare da ideologie o da assolutismi fideistici, di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che può essere esclusivamente oggetto di fede. La laicità non si identifica con una determinata filosofia, con un sistema ideologico o politico o religioso. Ma è un atteggiamento che spinge le persone, credenti o non credenti, a ragionare secondo regole e princìpi logici. Solo praticando questa impostazione laica, non laicista e non clericale, il dialogo che si instaura tra le persone può portare ciascuna di queste a riconoscere, se hanno un fondamento oggettivo, le ragioni dell’altra e viceversa.

 

Benedetto XVI viaggerà, ma in modo mirato per misurarsi con la storia

Il suo primo viaggio fuori dal Vaticano è stato compiuto da Papa Ratzinger a Bari il 29 maggio per concludere il XXIV Congresso eucaristico nazionale, esortando i cattolici ad essere «una presenza dinamica» nella società civile con i valori del Vangelo. Ma, soprattutto, ha colto l’occasione, prendendo spunto dalle reliquie di San Nicola custodite nell’omonima basilica e care all’Oriente ortodosso, per riaffermare il suo «impegno fondamentale» a lavorare con tutte le sue «energie» per la «ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo». Ha detto che «non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti, ma occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze come presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo». È nata, così, l’idea di organizzare, per la primavera del 2006, un importante summit di teologi cattolici e ortodossi in vista di un’assemblea di vescovi cattolici e ortodossi per imprimere una svolta al dialogo ecumenico.

È con questi sentimenti che Benedetto XVI compirà il suo primo viaggio internazionale a Colonia, nell’agosto 2005, per la Giornata mondiale della gioventù. L’appuntamento gli servirà per precisare quale contributo la Santa Sede intende dare, insieme alle altre Chiese cristiane, alla costruzione dell’Unione europea, rispetto alla crisi che sta attraversando, e chiarire come il dialogo ecumenico, interreligioso con gli islamici e con la cultura laica possa favorire questo scopo.

Ci sono, poi, la Terra Santa e l’Africa, ma Benedetto XVI spera molto nei due viaggi tanto agognati da Giovanni Paolo II e non fatti: Mosca e Pechino. Mentre ha già annunciato che si recherà in America Latina per la quinta assemblea generale dei vescovi latinoamericani già convocata da Giovanni Paolo II per febbraio 2007. Un incontro che obbligherà Benedetto XVI a rileggere la storia socio-politica e teologica di quel continente rispetto a quando, nel 2001 sulla rivista «Humanitas», scriveva che, dopo la teologia della liberazione che criticava per il suo intreccio con il marxismo, «bisogna elaborare una teologia della libertà e della pace, imbevuta di tutta la ricchezza della cristologia». A circa quararant’anni dalla Conferenza di Medellìn presieduta da Paolo VI, Benedetto XVI dovrà pronunciarsi su quanto il cardinale Claudio Hummes, arcivescovo di San Paolo del Brasile, ci ha anticipato lo scorso 28 aprile: «È necessaria una vera teologia di liberazione che si faccia carico delle enormi povertà e delle inaccettabili disuguaglianze esistenti nel mondo e in particolare in America Latina».

Per conoscere meglio il programma di disegno di Benedetto XVI c’è da attendere la pubblicazione, nei prossimi mesi, della sua prima enciclica. Sarà, però, un Papa diverso, che cercherà, pur nella continuità, di affrontare le sfide socioreligiose e politiche del XXI secolo ispirandosi al Concilio, con «la mano tesa e il cuore aperto» che ricorda «i cerchi montiniani» nell’approccio ai problemi e ai nodi da sciogliere.