Politiche migratorie: bilanci, sfide e proposte

Di Redazione Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

di Marzio Barbagli, Asher Colombo, Ferruccio Pastore, Giuseppe Sciortino e Paolo Segatti

L’immigrazione in Italia ha ormai una storia trentennale, ma questa non impedisce di continuare a vederla come un susseguirsi di sbarchi e invasioni di popolazioni. Una continua emergenza, insomma. Gli immigrati – e le loro famiglie – fanno invece ormai parte in modo stabile del quotidiano degli italiani. A tal punto che alcuni di loro chiaramente coltivano progetti di permanenza stabile tra di noi. Il che ci costringe, tra l’altro, a interrogarci sul significato che oggi ha e domani avrà la nostra identità nazionale. Di questo – e dei caratteri che ha la presenza stabile di immigrati nel vita del paese – c’è spesso solo una fuggevole traccia nel discorso pubblico e nei dibattiti politici. Obiettivo di questo articolo è quello di fissare le caratteristiche più salienti assunte dall’immigrazione, indicare alcuni dei problemi emergenti, suggerire alcune sintetiche valutazioni sulle politiche, nazionali ed europee, sin qui adottate, e delineare infine alcuni dei modi in cui l’opinione pubblica italiana sta facendo i conti con la presenza stabile di immigrati già insediati.

L’immigrazione in Italia ha ormai una storia trentennale, ma questa non impedisce di continuare a vederla come un susseguirsi di sbarchi e invasioni di popolazioni. Una continua emergenza, insomma. Gli immigrati – e le loro famiglie – fanno invece ormai parte in modo stabile del quotidiano degli italiani. A tal punto che alcuni di loro chiaramente coltivano progetti di permanenza stabile tra di noi. Il che ci costringe, tra l’altro, a interrogarci sul significato che oggi ha e domani avrà la nostra identità nazionale. Di questo – e dei caratteri che ha la presenza stabile di immigrati nel vita del paese – c’è spesso solo una fuggevole traccia nel discorso pubblico e nei dibattiti politici. Obiettivo di questo articolo è quello di fissare le caratteristiche più salienti assunte dall’immigrazione, indicare alcuni dei problemi emergenti, suggerire alcune sintetiche valutazioni sulle politiche, nazionali ed europee, sin qui adottate, e delineare infine alcuni dei modi in cui l’opinione pubblica italiana sta facendo i conti con la presenza stabile di immigrati già insediati.

 

Alcune caratteristiche del fenomeno immigratorio

In primo luogo è ormai tempo di riconoscere che le migrazioni verso l’Italia sono state, e sono, migrazioni nelle quali la domanda di lavoro ha avuto un ruolo almeno altrettanto importante dell’offerta. Le origini degli attuali flussi migratori non si rintracciano in programmi di reclutamento formali, salvo qualche accordo locale in passato e, in tempi più recenti, alcuni accordi bilaterali. In Italia l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è avvenuto e avviene quasi sempre in modo decentrato e molecolare, con un ruolo scarso o nullo delle agenzie formali. Sono quattro gli ambiti in cui oggi questo inserimento è particolarmente visibile e rilevante: l’industria manifatturiera diffusa, le costruzioni, i settori del terziario a basso valore aggiunto – in particolare i servizi alle famiglie e il lavoro di cura – e l’agricoltura, in particolare quella stagionale.

Tale distribuzione è influenzata dalla struttura del nostro sistema economico e dalle caratteristiche del nostro welfare. Un tessuto produttivo caratterizzato dalla presenza di imprese di dimensioni produttive medio-piccole e piccole, la persistenza dell’agricoltura estensiva, il peso dell’economia informale (che richiede lavoratori con aspettative di status relativamente modeste) e un welfare taccagno, in particolare nell’offerta di strutture di servizio alle famiglie, come i nidi, sono le principali pre-condizioni che hanno fatto del nostro un paese di immigrazione. Tali pre-condizioni hanno generato una pluralità altamente differenziata di modelli territoriali di impiego del lavoro immigrato. Il che non solo mostra che gli immigrati hanno una grande capacità di adattamento alle variazioni locali della domanda di lavoro, ma anche l’importanza assunta in Italia dal livello locale delle decisioni nel campo dell’integrazione rispetto a quello nazionale.

La presenza di un’immigrazione da lavoro influenza anche le caratteristiche dei flussi, in due sensi. Anzitutto sta cambiando l’origine dei flussi di immigrazione. Negli anni Sessanta e Settanta, gli stranieri presenti in Italia erano studenti (come quelli provenienti dalla Grecia e dall’Iran), pescatori (tunisini), domestiche (capoverdiane e filippine), operai e manovali (egiziani e jugoslavi). A questi primi sistemi migratori, a carattere prevalentemente locale, si sono aggiunti successivamente sistemi migratori più complessi e ormai slegati dal livello locale, come quelli costituiti dai nordafricani: esploratori marocchini attivi come ambulanti, ma già anche come braccianti e operai non qualificati, giovani algerini, braccianti tunisini, e poi ancora ambulanti e operai senegalesi, operai e imprenditori della ristorazione egiziani. Gli anni Novanta hanno visto l’estendersi dei sistemi migratori italiani al di fuori dei vincoli della prossimità geografica e tra le prime dieci nazionalità presenti compaiono ora cinesi e srilankesi, pakistani e bangladeshi. Sempre negli anni Novanta hanno conosciuto una nuova vita i sistemi migratori con l’Europa orientale, in particolare dall’Albania e più recentemente dalla Repubblica Moldava e dall’Ucraina, caratterizzati dall’abbondante flusso di assistenti domiciliari, e dalla Romania, in particolare di manovali.

In secondo luogo, una parte degli stranieri presenti in Italia si considerano lavoratori più che immigrati, non portano con sé le famiglie e intendono tornare nel proprio paese di origine una volta raggiunti gli scopi dell’emigrazione. E a volte tornano. Altri, e il loro numero è in crescita, invece pensano che l’Italia sia diventato il luogo della loro vita e di quella delle loro famiglie. In Italia, dal 1991 al 2002 l’ammontare dei permessi di soggiorno rilasciati a cittadini provenienti da paesi a forte pressione migratoria per motivi familiari sono quasi decuplicati, mentre il complesso dei permessi di soggiorno è meno che triplicato e quello dei permessi per motivi di lavoro solo raddoppiato. Ci sono prove del fatto che alcuni sistemi migratori si trovano oggi in una fase di avanzata stabilizzazione in determinate regioni del paese. In Lombardia, per esempio, oltre la metà delle donne provenienti dall’Europa orientale, dal Nord Africa e dall’Asia vive con il proprio nucleo familiare, e lo stesso accade a un terzo degli uomini di origine asiatica. È chiaro che alcuni sistemi migratori stanno entrando in una nuova fase della loro storia, caratterizzata da un progetto di insediamento stabile, di investimento nella società di approdo, che finiscono con l’imprimere una svolta ai processi e ai progetti migratori e a modificare radicalmente la collocazione degli stranieri nella società italiana. Così nuove domande vengono poste al sistema, domande che riguardano la scuola, la salute, i servizi e la casa. In particolare la scuola costituisce uno degli ambiti in cui l’integrazione viene maggiormente messa alla prova. All’inizio degli anni Ottanta nelle scuole italiane c’erano poche migliaia di alunni stranieri. Agli inizi del nuovo secolo questa quota è salita a quasi 300.000 unità. La crescita dunque è stata particolarmente forte, in particolare nei cicli inferiori. Eppure, al di fuori di dibattiti spesso astratti sui modelli di «interculturalità» a cui si pensa sia opportuno aderire, scarsa o nulla attenzione è stata data a quelle che le esperienze degli altri paesi di immigrazione ci indicano come le vere sfide che si giocano in questo settore cruciale, come, per limitarsi ad alcuni esempi, la riuscita scolastica, la formazione di competenze e abilità, le differenti strutture di opportunità di italiani e stranieri di seconda generazione.

Anche la situazione abitativa costituisce un importante terreno su cui si giocano le dinamiche di integrazione nel nostro paese. In Italia le opportunità di accesso alla casa per gli stranieri scontano, rispetto ad altri paesi, il modesto sviluppo dei programmi di edilizia residenziale pubblica e l’asfittico mercato degli affitti. Tutto ciò può definire condizioni abitative particolarmente gravose per gli stranieri e incoraggiare indirettamente la formazione di «quartieri di immigrati».

 

Le politiche nazionali tra inadeguatezze sostanziali, discrezionalità amministrative e chiusure legislative

Negli Stati contemporanei le politiche migratorie cercano di perseguire tre obiettivi: a) determinare volumi e composizione dei nuovi ingressi di stranieri, b) impedire – o più realisticamente contenere – i flussi migratori indesiderati e c) gestire la popolazione straniera già presente sul territorio del paese. Se valutate rispetto a questi obiettivi, le politiche migratorie perseguite dallo Stato italiano sono largamente fallimentari. I flussi legali sono una minoranza trascurabile dei flussi complessivi e rispondono principalmente a canali – quali il ricongiungimento familiare – dove la discrezionalità politica è fortemente ridotta. La maggioranza degli stranieri consegue una presenza legale grazie a sanatorie di massa, dopo un periodo di permanenza irregolare più o meno lungo. La popolazione straniera presente, con un titolo di soggiorno e sempre più spesso insediata da molti anni, resta in balìa di un apparato amministrativo altamente discrezionale che spesso non distingue in alcun modo chi è appena arrivato e chi risiede nel paese da decenni, se non addirittura dalla nascita. Né esiste alcuna strategia minimamente coerente di inclusione degli stranieri residenti e delle seconde generazioni.

Se l’irrazionalità sostanziale è comune, diverse sono le cause di tali fallimenti. In alcuni casi, si tratta di scelte legislative che non tengono conto delle caratteristiche strutturali dei sistemi migratori o dello stato dell’amministrazione pubblica. In altri, si tratta di applicazioni discutibili o insufficienti di scelte legislative ragionevoli. In altre ancora, dello scarto tra quanto previsto dalle norme e dalle procedure e quanto l’amministrazione pubblica effettivamente implementa.

Per quanto riguarda la domanda di lavoro, e quindi dei flussi di immigrati, il modo con il quale si è scelto di gestirli si è rivelato controproducente. Sulla carta, la domanda di lavoro può venire soddisfatta da un apposito sistema di quote che tiene conto sia delle qualifiche dei lavoratori sia delle più generali convenienze geopolitiche dello Stato italiano. La legge prevede inoltre la possibilità di negare tale ingresso in presenza di un disoccupato italiano disponibile a ricoprire tale incarico, evitando i rischi di una guerra tra poveri, e di ripartire tali quote tra le diverse regioni, al fine di bilanciare domanda di lavoro e possibilità del sistema dei servizi. Nella realtà, questo sistema non ha mai funzionato, né vi sono le condizioni affinché esso possa funzionare nelle condizioni date. La determinazione dei volumi d’ingresso non si basa su stime attendibili del fabbisogno annuale di lavoro straniero. Le procedure di concertazione stabilite, inoltre, sono farraginose e complicate: ne deriva un’emanazione inevitabilmente tardiva dei provvedimenti. Infine, l’amministrazione statale deputata alla gestione del sistema di quote non è semplicemente in grado di individuare in tempi ragionevoli l’esistenza o meno di disoccupati italiani disponibili a lavorare per le mansioni richieste. Da quando il sistema di quote è stato introdotto, quasi due decenni fa, le quote previste si sono sempre rivelate prive di rapporto con gli andamenti reali della domanda di lavoro straniero e molto ridotte persino rispetto alla domanda di lavoro straniero «conosciuta» (ad esempio attraverso le richieste già depositate o le dichiarazioni delle imprese raccolte col sistema Excelsior). Né il problema è solo l’ammontare delle quote. Il datore di lavoro che voglia assumere un lavoratore all’estero si trova a subire una procedura decisamente complicata, senza avere alcuna sicurezza sulla data d’ingresso del lavoratore richiesto. E si trova a dover assumere – affrontando molteplici obblighi – una persona che formalmente non ha mai visto. La legge 40/1998 ha operato l’unico tentativo di giungere a una procedura più realistica per l’ingresso dei lavoratori stranieri: l’istituto dello sponsor. Questo meccanismo è stato utilizzato tuttavia col contagocce dai governi di centrosinistra e cancellato dal governo di centrodestra.

Per quanto riguarda il contrasto dell’immigrazione irregolare, la politica migratoria italiana può vantare alcuni successi. In meno di quindici anni, un paese dalle frontiere precedentemente aperte, ha introdotto sistematicamente l’obbligo di visto e costruito un sistema di controllo, con tutti i suoi limiti, comparabile per efficienza a quello di altri paesi europei. Alcuni robusti sistemi migratori irregolari sono stati debellati e altri cominciano a mostrare un forte ridimensionamento. Resta da vedere tuttavia se tale sforzo ha prodotto una riduzione dei flussi migratori irregolari oppure una semplice alterazione delle direttive geografiche dei flussi. A favore della seconda ipotesi militano le dimensioni dell’ultima sanatoria, pari all’insieme delle tre sanatorie precedenti e avente per oggetto migranti entrati nel paese quando i meccanismi di controllo presenti erano sostanzialmente già in vigore. La graduatoria dei paesi di provenienza di coloro che vi hanno fatto ricorso mostra chiaramente un contrarsi dei sistemi migratori irregolari mediterranei, rispetto ai quali l’Italia ha applicato una politica dei visti particolarmente rigorosa e un notevole sforzo nelle operazioni di contrasto dell’ingresso clandestino per via marina. Ma mostra anche la forza dei sistemi migratori irregolari dell’Europa orientale, che risentono solo in misura minima della strategia perseguita dall’Italia, perché non hanno bisogno di richiedere un visto preventivo, perché possono ottenerlo in modo relativamente semplice da un altro paese Schengen o perché possono attraversare con relativa facilità un confine terrestre.

La gestione degli stranieri residenti è un problema presente in tutte le società sviluppate. Ed è un problema sempre più rilevante in Italia, dove un numero crescente di stranieri è composto da persone nate nel paese o residenti da molti anni. Degli stranieri titolari di permesso di soggiorno presenti in Italia il 1 gennaio 2003, il 63% era giunto in Italia almeno cinque anni e il 27% risiedeva nel paese da dieci anni o più. Le nascite da almeno un genitore straniero sono passate dall’1% del 1986 al 7% del 2000 e nelle aule scolastiche, come è stato già accennato, si trovavano, nell’anno scolastico 2003-04, 280.000 figli di immigrati, pari al 3,5% del totale. Per gli stranieri residenti, la politica migratoria oscilla tra discrezionalità e chiusura. Il che ha effetti sicuramente negativi nei percorsi di integrazione degli stranieri residenti, che si trovano spesso a non potere mettere in atto strategie di lungo periodo. Ma ha effetti negativi anche sulle possibilità di controllo dello Stato italiano: ampia parte degli uffici stranieri delle questure operano oggi come pseudo-anagrafi, sottraendo tempo prezioso all’attività di contrasto dell’immigrazione irregolare. La gestione di centinaia di migliaia di permessi di breve periodo, inoltre, ha progressivamente richiesto dosi sempre più massicce di discrezionalità amministrativa e la produzione di un numero crescente di espedienti burocratici. Chi avrebbe potuto immaginare un decennio fa che la ricevuta di una prenotazione all’ufficio stranieri avrebbe finito per acquisire lo status di un titolo di soggiorno? La legislazione migratoria italiana prevede, a partire dalla legge 40/1998, la possibilità di rilasciare agli stranieri residenti da alcuni anni un documento decennale – la carta di soggiorno – che sottrae il detentore dalla giostra dei continui rinnovi e gli consente la fruizione di una gamma più estesa di prestazioni sociali. Tale possibilità è stata tuttavia prima boicottata, sino a una condanna del Tar, a livello ministeriale. Successivamente, tale boicottaggio si è riprodotto in molti uffici periferici, che ignorano o boicottano il rilascio delle carte di soggiorno.

A livello legislativo si è invece riscontrata un’aperta ostilità a favorire la naturalizzazione degli stranieri residenti. La legge sulla cittadinanza, approvata all’unanimità nel 1992, richiede a coloro che sono privi di sangue «italiano» o «europeo», di documentare dieci anni di residenza ininterrotta, rispetto ai cinque previsti nella precedente legge del 1912. Si tratta di un requisito molto elevato, che non ha eguali nelle leggi sulla cittadinanza di altri Stati europei. La stessa legge, inoltre, lascia ai funzionari ministeriali una completa discrezionalità sia sui tempi di valutazione della domanda di naturalizzazione – non è infrequente che una domanda non riceva risposta prima di 5-6 anni – sia sui criteri di valutazione delle stesse. A fronte di centinaia di migliaia di stranieri presenti in Italia da oltre dieci anni, le naturalizzazioni – al netto di quelle presentate all’estero dai discendenti di italiani – sono state nel 2003 poco più di undicimila (11.186 per la precisione), oltre l’85% delle quali tuttavia conseguite per matrimonio con un cittadino italiano.

 

Le politiche europee: un vincolo pesante, ma virtuoso

Nel decennio-chiave per lo sviluppo del diritto e della politica italiana in materia di immigrazione (1989-1998), l’ancoraggio in Europa ha svolto un ruolo decisivo di vincolo esterno. Priorità e modelli, sia sul piano giuridico-istituzionale sia su quello amministrativo e operativo, sono stati modellati su quelli emergenti all’interno del club di cooperazione rafforzata creato dagli accordi di Schengen (1985 e 1990). Da un lato, questo ha penalizzato l’Italia, perché l’impostazione prevalente in ambito Schengen rifletteva soprattutto gli interessi di alcuni paesi di vecchia immigrazione, con una forte tradizione nel campo dell’asilo, e meno quelli di un paese di immigrazione emergente e con frontiere molto esposte, come il nostro. D’altro lato, però, gli accordi di Schengen hanno avuto effetti virtuosi. Per esempio, l’obiettivo di entrare nel club di Schengen ha spinto il parlamento italiano ad approvare in tempi relativamente rapidi una legge assai avanzata in materia di tutela dei dati personali, che rappresenta uno strumento essenziale anche sul fronte dei controlli migratori.

Superati definitivamente – tra la fine del 1997 e l’inizio del 1998 – i severi esami per l’ingresso nello spazio Schengen, i rapporti tra l’Italia e l’Europa in materia migratoria sono cambiati radicalmente. Lo spazio di manovra e di iniziativa in sede europea, per l’Italia, è diventato pari a quello dei soci fondatori. Questa maggiore potenzialità è stata ulteriormente rafforzata, almeno sulla carta, con il processo di «comunitarizzazione» avviato con il trattato di Amsterdam (firmato nel 1997 ed entrato in vigore nel 1999). Sino ad oggi la scarsa vocazione europea delle amministrazioni competenti in materia di immigrazione ha tuttavia impedito di sfruttare appieno le nuove opportunità. Va detto però che, su un terreno delicato e politicamente caldissimo – quello dei controlli e della lotta all’immigrazione irregolare – l’Italia ha conseguito risultati importanti. È finalmente passato il principio – ora consacrato anche in una norma del trattato costituzionale – per cui i costi connessi al controllo alle frontiere comuni devono essere condivisi. L’Agenzia europea per il coordinamento dei controlli, attiva dal 1 maggio 2005, è uno dei risultati tangibili di questa nuova impostazione.

Europeizzare, almeno in parte, i costi dei controlli è un obiettivo legittimo e ragionevole, ma largamente insufficiente. Appare evidente, ormai, a qualsiasi lettore di quotidiani, che il problema dell’immigrazione «non pianificata» non si risolve lungo le frontiere, ma aumentando i controlli nei luoghi d’impiego e/o agendo nei territori di origine e di transito. Limitandoci qui al versante internazionale, è evidente come il nesso tra politica migratoria e politica estera possa essere declinato in modi molto diversi. Ci si può limitare a deleghe in bianco per l’uso della forza nel contrasto delle migrazioni non autorizzate, come il governo italiano sta ad esempio facendo, tra le accuse delle ONG e del Parlamento europeo (ma nell’indifferenza dei media e delle istituzioni italiane), nei rapporti con la Libia. Oppure, si può tentare di mettere in piedi una politica più articolata ed equilibrata, che contempli la concessione di incentivi specifici e si inserisca in strategie più ampie di stabilizzazione e sviluppo. La linea sperimentalmente avviata dall’Italia alla fine del decennio scorso, con l’inclusione di quote privilegiate per determinati paesi nei decreti-flussi, si trova oggi in crisi, per la proliferazione eccessiva dei paesi beneficiari e le rigidità insostenibili dei meccanismi di assunzione. È evidente, d’altra parte, che simili sforzi bilaterali possono avere effetto solo con una ristretta cerchia di partner strategici. Nei confronti del resto del mondo, la politica migratoria estera di un paese di medio (e calante) peso non può che risolversi un sostegno convinto e attivo all’elaborazione di strategie comuni europee.

Al di là dell’ambito ristretto dei controlli migratori, è interesse primario dell’Italia – ormai uno dei principali paesi di immigrazione del mondo in termini di flussi – allargare ulteriormente l’agenda migratoria europea, battendosi per un aumento delle risorse e per un deciso cambiamento di impostazione. Meritano pieno sostegno le proposte avanzate recentemente dalla Commissione europea di aumentare fortemente i finanziamenti disponibili per il periodo 2007-2013, con la creazione di vari fondi ad hoc, tra cui uno per promuovere l’integrazione dei cittadini di paesi terzi nella UE. Ma, oltre a investimenti cospicui, il consolidamento di un contesto di convivenza multiculturale pacifica, in un’Europa sempre più vasta e diversificata, richiede politiche di inclusione coraggiose. La direttiva sullo status dei residenti di lungo periodo (2003/109/EC del 25 novembre 2003) va nella direzione giusta, ma molto resta da fare per consentire in tutti i paesi membri la partecipazione politica a livello locale e per favorire l’accesso alla cittadinanza.

 

Un problema che rimane aperto

La sicurezza è il principale problema citato dagli italiani a proposito dell’immigrazione, come si vedrà dalla prossima sezione. I dati di cui disponiamo ci dicono che questi timori hanno fondamenta reali. La quota degli stranieri sul totale delle persone denunciate in Italia, dal 1988 ad oggi, per ventuno reati assai diversi (che vanno dai furti alle rapine, dal traffico e spaccio di stupefacenti allo sfruttamento della prostituzione, dalla violenza sessuale all’omicidio) è continuamente aumentata ed è oggi molto alta. Allo stesso tempo, altri dati ci dicono che gli immigrati corrono molto più spesso degli italiani il rischio di essere vittime di questi reati. Ciò dipende dal fatto che la quota degli immigrati autori di reati è assai alta e, al tempo stesso, che essi tendono a derubare, a rapinare o a uccidere più che proporzionalmente i propri connazionali. Inoltre, tra l’Italia e i paesi europei di più antica immigrazione vi sono alcune importanti differenze. La prima è che l’Italia è oggi il paese europeo nel quale è maggiore la differenza fra il tasso di incarcerazione degli stranieri e quello degli autoctoni. La seconda è che, mentre in Gran Bretagna e in Olanda, in Francia e in Germania, nel Belgio e in Svezia gli immigrati che commettono reati sono spesso di seconda generazione, in Italia sono invece quasi esclusivamente di prima generazione e irregolari. La quota delle persone senza permesso di soggiorno sul totale degli stranieri denunciati va dall’83% per le rapine al 92% per la violazione della legge sugli stupefacenti.

L’esperienza degli altri paesi insegna che per ridurre il tasso di criminalità degli immigrati di seconda generazione è necessario fare il massimo sforzo per integrarli socialmente. Anche il nostro paese dovrebbe percorrere questa strada per evitare che in futuro, quando il numero degli immigrati di seconda generazione sarà rilevante, si presenti in dimensioni allarmanti la questione della criminalità. Ma cosa fare per  contenere il numero degli immigrati di prima generazione che commettono reati?

Le leggi approvate in Italia nel 1990, 1995, 1998 e 2002 hanno avuto qualche effetto sull’andamento di alcuni dei reati degli immigrati, soprattutto su quelli commessi quasi solo dagli irregolari, come lo spaccio e il traffico di stupefacenti, o ancora certi tipi di furto. Ma questi effetti sono stati nel complesso piuttosto modesti. Le leggi che hanno avuto effetti maggiori sono state quelle approvate durante il governo di centrosinistra (la Turco-Napolitano) e quello di centrodestra (la Bossi-Fini). Entrambe hanno avuto qualche successo, nella lotta contro le violazioni da parte degli immigrati della legge sugli stupefacenti. Questo fa pensare che entrambe le strade seguite – sia le regolarizzazioni che il miglioramento del sistema di controllo degli immigrati – possano servire a ridurre il numero dei potenziali autori dei reati, anche se è difficile dire quale delle due sia più efficace.

I risultati raggiunti dalle due leggi sono stati però inferiori a quelli che i loro sostenitori si proponevano e si aspettavano. Esse infatti non sono riuscite a invertire la tendenza in corso dalla seconda metà degli anni Ottanta, ma solo ad arrestare la crescita del numero dei reati commessi dagli immigrati. Inferiori alle aspettative appaiono in particolare gli effetti della legge Bossi-Fini. Come è noto, oltre a rendere più efficienti i meccanismi di controllo, essa ha portato alla regolarizzazione di un numero di immigrati straordinariamente alto, quasi tre volte più alto di quello delle due leggi precedenti. Eppure, la percentuale degli stranieri sul totale delle persone deferite per aver violato la legge sugli stupefacenti è diminuita solo nel 2003, in modo significativo, ma non straordinario (passando dal 30% al 27,4%), mentre è rimasta invariata nei primi mesi del 2004.

Se gli effetti di tutte queste leggi sulla criminalità degli immigrati sono stati limitati e insufficienti è principalmente perché le politiche restrittive messe in atto dall’Italia nel corso dello scorso decennio non sembrano essere riuscite a ridurre sensibilmente i flussi migratori irregolari. Questo può a sua volta dipendere da tre diversi fattori. In primo luogo, l’Italia non è mai riuscita finora a realizzare una politica attiva degli ingressi, che stabilisca quote realistiche di ingressi annuali di immigrati. E questa incapacità, a cui si è cercato di ovviare con periodiche sanatorie, ha fatto sì che, fra una regolarizzazione e l’altra, si riformasse nel nostro paese una popolazione di immigrati irregolari. In secondo luogo, l’immigrazione irregolare continua a essere favorita, nel nostro paese, dal vastissimo settore informale dell’economia e dalla scarsa efficienza del sistema di controlli pubblici sul mercato del lavoro. Infine, i meccanismi di controllo interno, per quanto migliorati, restano insoddisfacenti. Così, ad esempio, anche nel 2003 i centri di permanenza temporanea sono riusciti a raggiungere solo nella metà dei casi il fine per il quale sono stati creati: il rimpatrio degli immigrati trattenuti. Molti sono infatti ancora i paesi di provenienza degli immigrati con i quali il governo italiano non è riuscito a stipulare accordi di riammissione soddisfacenti. Inoltre, anche dopo l’approvazione della legge Bossi-Fini il nostro paese ha norme meno severe di altri paesi europei riguardo agli immigrati irregolari..

 

Alcuni orientamenti verso gli immigrati

Al di là delle immagini a senso unico, sia di segno positivo che negativo, due decenni di studi sugli atteggiamenti degli italiani sul tema dell’immigrazione mostrano un quadro nel complesso non molto diverso da quello presente in altri paesi, di più lunga esperienza migratoria. L’ultimo dato comparativo conferma questa valutazione. Per esempio, l’Indagine sociale europea del 2002 mostra che in Italia, non diversamente da quello che accade in altri paesi, solo una minoranza, ancorché non piccola, percepisce gli immigrati come una minaccia economica. Solo 35% degli italiani è sostiene che gli immigrati fanno scendere i salari, a fronte del 39% di europei che ha la stessa opinione. Solo il 41% circa ritiene che gli immigrati danneggino più i poveri che i ricchi. Inoltre, come accade nel resto d’Europa, anche in Italia gli immigrati sono percepiti come una minaccia economica soprattutto tra i meno istruiti e tra gli intervistati che si trovano in condizioni economicamente più deboli. Inoltre in Italia, anche in questo caso non diversamente da quanto accade in altri paesi come Francia, Regno Unito, Germania e Spagna, l’opinione che la presenza degli immigrati danneggi più i poveri che i ricchi è presente senza significative differenze tra chi si colloca a sinistra come tra chi si colloca a destra. Analogamente, secondo le indagini Itanes 2001 e 2004, opinioni favorevoli ad una politica di forte riduzione del numero di immigrati sono presenti in misura non marginale tra gli elettori dell’Ulivo e di Rifondazione. Questi dati possono essere interpretati come una prova che sinora le forze di centrosinistra sono riuscite a impedire che le preoccupazioni diffuse circa la competizione economica derivante dalla presenza di immigrati divenissero un issue elettorale. Ma non è detto che ciò potrà accadere anche nel futuro senza una politica attiva nei confronti dei problemi posti da un’estesa presenza della mano d’opera immigrata nel mercato del lavoro.

Vi è tuttavia un problema che in Italia suscita preoccupazioni decisamente maggiori che nel resto degli europei: la criminalità. In generale su questo problema emerge una domanda di forte severità. Per esempio, nel 2002 il 70% degli italiani era dell’opinione che l’immigrato che commette qualsiasi tipo di crimine deve essere rimpatriato, mentre della stessa opinione è solo il 51% degli altri europei. Sia in Italia che in Europa la domanda di severità verso gli immigrati che commettono crimini è distribuita di più negli strati di popolazione meno istruiti o economicamente più deboli. Ma sotto questo profilo in Italia le differenze tra più istruiti e meno istruiti o più ricchi e meno ricchi sono decisamente inferiori rispetto a quelle presenti in Europa nel suo complesso (per esempio nel caso dell’istruzione, in Italia del 19%, mentre in Europa ben del 30%; nel caso delle condizioni economiche familiari del 3% in Italia e del 15% in Europa). La stessa tendenza emerge se si considerano gli orientamenti ideologici. Mentre in molti paesi europei chi si colloca a sinistra è molto meno disposto a rimpatriare l’immigrato che commette «qualsiasi» tipo di crimine rispetto a chi si colloca a destra, in Italia la domanda di severità è diffusa a sinistra come a destra, senza differenza alcuna. Il che indica come l’allarme per la criminalità associata agli immigrati attraversi, altrimenti impermeabili, fratture ideologiche.

 

L’immigrazione viene percepita come una sfida all’identità nazionale degli italiani?

La presenza stabile di comunità di immigrati pone inevitabilmente il problema della loro integrazione nella comunità nazionale. Dalle ricerche d’opinione condotte in Italia sembra che la maggioranza degli italiani non percepisca gli immigrati come una minaccia di tipo culturale; non si dichiari ostile al riconoscimento di diritti agli immigrati; non manifesti un orientamento assimilazionistico nei confronti dei nuovi arrivati, valutando positivamente un loro eventuale mantenimento delle tradizioni culturali d’origine. L’ISE del 2002 mostra che solo il 21% degli italiani ritiene che gli immigrati rappresentano una minaccia per l’identità dell’Italia. Il 71% degli italiani sarebbe poi disponibile a riconoscere agli immigrati gli stessi diritti che vengono riconosciuti agli italiani. Per altro la stessa ISE mostra che l’opinione pubblica italiana sarebbe divisa a metà circa il fatto se sia preferibile o meno per un paese l’essere culturalmente omogeneo.

Da questi dati non si dovrebbe tuttavia concludere che tutto va bene così. Se si passa a esaminare quali sono gli orientamenti degli italiani su alcuni temi più specifici, emergono alcuni tratti che mostrano atteggiamenti più ambigui. Dalla stessa indagine ISE del 2002 emerge che gli italiani più che gli altri europei apprezzano positivamente l’omogeneità religiosa del paese. In Italia di questa opinione sono oltre sette italiani su dieci (75%), mentre in Europa sei su dieci (61%). Inoltre, se invitati a indicare quanto sono importanti alcune cose nel decidere se un immigrato può vivere nel paese ospitante, il 30% degli italiani indica la religione cristiana a fronte del 21% degli altri paesi europei. Mentre in Italia l’apprezzamento positivo dell’omogeneità religiosa è praticamente equidistribuito a tutti i livelli di istruzione, in Europa vi è una grande differenza tra chi è più istruito (meno favorevole) e chi non è istruito (più favorevole). La stessa tendenza si verifica se prendiamo in considerazione gli orientamenti ideologici, nel senso che in Italia c’è una diversità minore di quanta accada in altri paesi europei.

Una conferma di una forte preferenza verso l’omogeneità culturale viene anche da una recente indagine condotta tra novembre e dicembre del 2004 dalle università di Milano, Siena e Molise su un campione rappresentativo di 2000 casi. Il 61% degli italiani ritiene che per essere veri italiani è importante essere cattolici e il 94% condividere le tradizioni culturali degli italiani. La stessa indagine mostra inoltre che il 64% degli italiani sembra pensare che sia meglio per il paese se i diversi gruppi etnici si adattino e si mescolino tra loro piuttosto che mantengano distinte le loro tradizioni. Ma anche il 36% di italiani che pare in astratto multiculturalista in realtà risulta poi alquanto timoroso di fronte alle manifestazioni concrete di diversità. Fra quelli di loro che vengono posti di fronte all’eventuale richiesta di usare il velo sul luogo di lavoro, il 40% direbbe di no. Mentre fra coloro in principio favorevoli a che gli immigrati mantengano le loro tradizioni se posti di fronte all’ipotesi di rimuovere il crocifisso dalle aule, il 70% si opporrebbe a tale richiesta.

Questi dati sembrano dunque indicare che in realtà una gran parte degli gli italiani ragioni di fronte al problema di rapportarsi con la diversità secondo il modello culturale fornito dalla loro esperienza nazionale, e cioè un modello che pur tra molte sfumature è caratterizzato da una forte omogeneità culturale. Un modello inoltre che in alcuni casi tende a essere di tipo assimilativo e in altri di tipo esclusivista. Per esempio, appare ragionare secondo uno schema esclusivista quel 50% circa degli italiani che ritiene che un immigrato non possa divenire un «vero italiano», anche se lo vuole e lo chiede. Del resto il 44% degli intervistati nel 2004 da Itanes giudicava negativamente la proposta di Fini sul voto amministrativo agli immigrati regolari. Qualche mese dopo, il 60% degli intervistati dallo studio delle tre università riteneva che l’attuale legge sulla cittadinanza andasse bene così o dovesse essere resa ancora più restrittiva (si noti che nella domanda veniva spiegato che l’attuale legge rende molto difficile a una persona divenire cittadino italiano).

Forse la conclusione più onesta su questo punto è che al momento non esiste ancora una risposta chiara alla domanda posta all’inizio di questo paragrafo. Forse il tema della sfida alla nostra identità nazionale, o al modo in cui la intendiamo, avanzata dall’esigenza di integrare uomini e donne che vogliono in misure diverse conservare parte delle loro identità, non è ancora diventato un tema sul quale l’opinione pubblica ha posizioni chiare e univoche. Questo, del resto, sembra indicare il fatto che gli orientamenti ideologici in Italia discrimino poco. Forse il tema dell’integrazione non è (ancora) diventato una issue politicamente divisiva a tal punto da essere interpretato da taluni come una sfida alla propria identità culturale perché chi voleva farlo diventare tale non è stato in grado di farlo (la Lega Nord) e chi era in grado di farlo (AN) non ha voluto farlo, costretto, come era, dalla necessità di smaltire una ingombrante eredità ideologica. Ma se le cose stessero così, il problema di cosa significhi per la nostra comunità fare degli immigrati dei cittadini italiani non può essere aggirato scommettendo solo sull’italica arte d’arrangiarsi.