Le nuove priorità della politica estera di USA e UE

Di Federico Romero Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Lo scorso autunno qualcuno, a sinistra, temeva che un’eventuale e desiderata presidenza di John Kerry ci potesse mettere di fronte al dilemma di una politica estera non poi troppo diversa da quella di Bush. Ora abbiamo invece dovuto paradossalmente constatare che la seconda presidenza Bush si è marcatamente spostata non tanto verso un’inesistente agenda di Kerry, ma certo verso il suo stile e i suoi accenti. Nei discorsi del presidente e del Segretario di Stato Condoleeza Rice la democratizzazione del Medio Oriente non è più un processo da mettere in moto con atti di forza, ma una tendenza da assecondare sostenendone i promotori interni; e la Road map per il negoziato israelo-palestinese torna a ricevere un’attenzione non puramente verbale. Sul piano dottrinario gli accenti si sono spostati verso una visione wilsoniana che incentra la costruzione di un contesto internazionale pacifico e sicuro sulla diffusione della libertà, mentre nella retorica pubblica il richiamo all’urgenza della forza ha lasciato il campo all’utilità della cooperazione e del consenso.

Lo scorso autunno qualcuno, a sinistra, temeva che un’eventuale e desiderata presidenza di John Kerry ci potesse mettere di fronte al dilemma di una politica estera non poi troppo diversa da quella di Bush. Ora abbiamo invece dovuto paradossalmente constatare che la seconda presidenza Bush si è marcatamente spostata non tanto verso un’inesistente agenda di Kerry, ma certo verso il suo stile e i suoi accenti.

Nei discorsi del presidente e del Segretario di Stato Condoleeza Rice la democratizzazione del Medio Oriente non è più un processo da mettere in moto con atti di forza, ma una tendenza da assecondare sostenendone i promotori interni; e la Road map per il negoziato israelo-palestinese torna a ricevere un’attenzione non puramente verbale. Sul piano dottrinario gli accenti si sono spostati verso una visione wilsoniana che incentra la costruzione di un contesto internazionale pacifico e sicuro sulla diffusione della libertà, mentre nella retorica pubblica il richiamo all’urgenza della forza ha lasciato il campo all’utilità della cooperazione e del consenso. In particolare, la riapertura del dialogo con gli europei ha dominato i primi gesti pubblici e indicato la volontà di rabberciare almeno alcune delle lacerazioni inflitte alla tela del multilateralismo nel precedente mandato.

Non c’è da pensare che l’orso abbia improvvisamente cambiato pelle, perché il pur visibile ridimensionamento di alcuni esponenti del neoconservatorismo non altera comunque la psicologia fondamentalmente unilateralista dell’Amministrazione. Né si deve attribuire queste novità al passaggio da un mandato all’altro, che fatalmente innescherebbe delle conversioni. Il fatto ben più sostanziale è che Washington riflette con prontezza, e con invidiabile agilità, il rapido mutamento di scenari che sta producendosi in varie aree, e adatta quindi i suoi toni e i suoi approcci alle nuove agende che da lì emergono.

È alle trasformazioni in corso oggi e ancor più a quelle rapide e imponenti che si possono intuire per il domani che dobbiamo prestare la nostra attenzione, superando la comprensibile ma deleteria tentazione di restare ancorati ai problemi e ai conflitti di ieri, come quei famigerati generali che si esercitano sempre a combattere le battaglie del passato.

A quasi quattro anni distanza dall’11 settembre bisogna prendere atto del fatto che le sensibilità collettive – in primo luogo dell’America, ma anche degli europei – verso la minaccia del terrorismo di matrice fondamentalista vanno mutando, perché riflettono una nuova percezione non solo di cosa esso è ma anche di ciò che non può riuscire a essere. Sul piano internazionale, infatti, il terrorismo può infliggere lutti e danni anche su larga scala, che ogni paese deve cercare di prevenire e impedire, e può con ciò diffondere ramificate e pervicaci insicurezze collettive. Ma è ormai difficile ipotizzare che esso possa davvero erigersi ad attore primario in grado di monopolizzare la vita internazionale, di minacciare seri, tangibili rivolgimenti geopolitici – in Medio Oriente come altrove – di infliggere shock drammatici al sistema internazionale. Questa grande paura che ha attraversato il mondo, e in particolare l’America, subito dopo l’11 settembre appare ora ampiamente ridimensionata. Dopo quattro anni senza altri attentati in America, uno solo di grandi proporzioni in Europa e un sensibile calo di quelli commessi in altre parti del mondo (ad eccezione ovviamente dell’Iraq, che è teatro del tutto particolare) le nostre società si stanno adeguando a trattare il terrorismo alla stregua di una malattia cronica – ché tale indubbiamente sarà – invece di temerlo come patologia esplosiva di cui si rischia un crescendo inarrestabile e catastrofico.

Per l’Amministrazione Bush, in particolare, ciò significa che la fase iniziale della risposta, quella segnata dall’urgenza dell’offensiva, è ormai passata. La «guerra al terrore» (terminologia non abbandonata ma ormai sintomaticamente retrocessa a un uso mediatico assai più circoscritto) è chiaramente entrata in nuova fase, che coincide non tanto con il secondo mandato del presidente quanto con una diversa analisi dei rischi e della loro urgenza. Ora si tratta di muovere al di là della rottura strategica, culturale e diplomatica rappresentata dal lancio offensivo della «guerra al terrore» e dell’azione preventiva; si tratta di ricucire alcune delle fratture che essa provocò, in particolare con gli europei; e si tratta soprattutto di avviare invece delle stabilizzazioni positive, in primo luogo in Iraq e più in generale in Medio Oriente.

Questo cambiamento d’agenda è sensibile a tutti i livelli ma è particolarmente netto e vivido in Iraq, dove le elezioni hanno segnato un forte punto di svolta, per tutti. Lì infatti siamo di fronte alla tensione fondamentale tra uno sforzo di stabilizzazione e pacificazione (con alcuni, precari elementi di democratizzazione) e la sua negazione violenta, rabbiosa ma evidentemente priva di sbocchi. L’agenda di oggi e di domani – per gli iracheni, per gli Stati Uniti ma anche per noi – è trovare i modi e i canali per stimolare, facilitare e proteggere quell’opera di stabilizzazione di un nuovo regime quanto più democratico possibile. Non ve ne sono altre immaginabili e men che meno perseguibili. Restare inchiodati ai termini conflittuali della lacerazione che si aprì all’inizio del 2003 – invasione o meno, guerra o no – non ha più senso non perché non fosse giusto opporsi allora alla guerra cosiddetta preventiva, ma perché è divenuto futile rispetto a uno scenario decisamente mutato.

La vera questione, in tutto il Medio Oriente, è quella di attivare gli strumenti per favorire e sostenere quei moti di apertura e cambiamento in senso democratico che sono emersi – pur timidamente e frammentariamente – negli ultimi dodici mesi. Si tratta di aiutare i soggetti e le organizzazioni che li promuovono; di moltiplicare i contatti, le comunicazioni e gli scambi – di carattere culturale e commerciale – che possono estenderli e radicarli; di rispondere positivamente alle domande che da lì provengono senza per questo finire per essere – o anche solo per apparire – come dei «ri-colonizzatori occidentali».

È una scelta strategica, questa, che riguarda ovviamente in primo luogo l’Unione europea in quanto tale, ma nella quale anche l’Italia può e deve avere una sua voce e un suo ruolo promotore. In tale contesto bisogna in primo luogo individuare i nostri obbiettivi e interlocutori, precisare i nostri scopi e poi muoverci per conseguirli. In talune situazioni e condizioni ciò potrà avvenire in cooperazione con gli Stati Uniti, e in altri momenti separatamente. Il passaggio cruciale, tuttavia, è che l’UE e l’Italia smettano di invertire quell’ordine, come troppo spesso si fa. Smettano cioè di partire dalla valutazione sull’opportunità o meno di agire con gli USA, dall’angosciato interrogarsi su quanto vogliamo allinearci o distanziarci da Washington, per derivare poi da questo il giudizio sulla sostanza delle politiche che intendiamo perseguire. Perché così facendo non si costruiscono delle politiche europee, si alimenta all’infinito il ciclo di aspettative e frustrazioni che la UE produce nell’opinione pubblica europea, e non si fa altro che moltiplicare il già grande potere solitario degli Stati Uniti.

Questa logica dovrebbe valere in modo particolare per ciò che riguarda il conflitto israelo-palestinese, che resta l’epicentro non tanto della tensione mediorientale quanto di ogni plausibile sforzo di depotenziarla nella prospettiva di superarne la logica infinitamente circolare. Quale ruolo effettivo può avere la UE? Credo sia giunto il momento – sia per l’esaurimento delle logiche precedenti che per talune trasformazioni favorevoli sul terreno – in cui è necessario scegliere cosa si vuole. Per anni la UE (e in generale gli europei, chi più chi meno) ha appoggiato la causa dell’indipendenza palestinese, com’è giusto e ovvio, e ha sostenuto materialmente l’Autorità palestinese. A questo impegno di sostegno simbolico e finanziario, tuttavia, è corrisposto un ben minore impegno di carattere esplicitamente politico. Quest’ultimo, infatti, si esplicava sostanzialmente nella ripetuta, ma anche inefficace richiesta di una maggiore apertura da parte israeliana e, soprattutto, di un’azione più stringente degli Stati Uniti affinché essi forzassero i governi di Israele ad addivenire alla pace. Si è trattato cioè di un ruolo sostanzialmente retorico in favore dell’accordo e della pace più che di un intervento effettivo che provasse ad avvicinarne la realizzazione.

Continuare in questo ruolo di pungolo verso gli Stati Uniti e di favore verso l’indipendenza palestinese è necessario. Ma la UE può e deve provare a fare anche di più, pur a rischio d’insuccesso. È ormai chiaro che tra le condizioni necessarie per un progresso verso la pacificazione e l’accordo ce ne sono molte – la maggior parte – che dipendono da scelte di Israele. Lì solo gli Stati Uniti hanno un’effettiva, seppur non onnipotente, capacità di esercitare una vera pressione internazionale. Ma vi sono altre condizioni, non meno necessarie, che riguardano primariamente la parte palestinese: da un graduale disarmo del terrorismo a un’effettiva, schietta accettazione del principio dello scambio di territori, così come delineato, ad esempio, negli accordi «privati» di Ginevra. Se la UE vuole avere un ruolo effettivo, essa deve assumersi una maggiore responsabilità diretta nel sollecitare e favorire la transizione dei palestinesi verso posizioni effettivamente mediabili e negoziabili (e verso forme di mobilitazione meno violente) tali da consentire di ingaggiare un dialogo da cui la destra israeliana non possa sempre rifuggire in nome della legittima e indispensabile sicurezza dei suoi cittadini. Quanto più la UE adottasse un ruolo di pungolo e stimolo nei confronti dei palestinesi – analogo e parallelo a quello che si chiede agli USA nei confronti di Israele – e tanto più la sua funzione potrebbe assumere un’efficacia non solo retorica. Perché se vogliamo assumere influenza internazionale, e non solo chiederla come graziosa (e ormai sempre più improbabile) concessione accessoria degli USA, dovremo innanzitutto decidere per cosa la vogliamo esercitare, e poi indirizzarla verso realizzazioni fattive, ancorché controverse. Per chi ambisce a essere un soggetto internazionale talvolta è meglio rischiare di fallire facendo una cosa utile piuttosto che limitarsi a guardare e commentare.

Non passa quasi giorno, peraltro, senza che arrivino segnali, spesso prepotenti, del fatto che la vita internazionale non si esaurisce nei problemi del Medio Oriente, e anzi che il baricentro dello scenario mondiale va spostandosi verso l’Asia orientale e meridionale. È lì che vanno delineandosi le novità che più influenzeranno il nostro futuro; è lì che divengono ormai evidenti i nuovi, grandi protagonisti del domani; è lì che si profilano anche alcune delle tensioni con cui tutti dovremo fare i conti. La crescita economica e tecnologica di molti di quei paesi, su grande scala, è ormai così robusta da condizionarci anche nella vita quotidiana, ma questa non è che una dimensione del problema.

Il dialogo sino-indiano e l’attenuazione (comunque non risolutiva) dell’attrito tra India e Pakistan additano nuove dinamiche che acquisiranno rilevanza non solo regionale. I brutti segnali di frizione tra Cina e Giappone non riguardano solo la memoria storica, ma la oggettiva difficoltà di adattare concordemente gli equilibri politici e di sicurezza dell’Estremo oriente al graduale ma inesorabile terremoto rappresentato dall’ascesa della Cina. Punti già consolidati di tensione, come lo status di Taiwan o la nuclearizzazione della Corea del Nord non solo restano irrisolti ma rischiano di agire da scintilla per rivolgimenti ben più grandi.

Ma non c’è solo la Cina. Ogni europeo cresciuto negli anni della guerra fredda aveva introiettato il termine «India» come sinonimo di carestia e miseria sconfinata, in un universo simbolico in cui i bambini indiani erano le vittime impotenti di un destino apparentemente implacabile. Per chi ha dunque cinquanta anni o giù di lì, nessun segnale dei cambiamenti epocali che vanno trasformando l’Asia è stato più vividamente emblematico (e stupefacente, e commovente) della orgogliosa dichiarazione con cui il governo dell’India, all’indomani dello tsunami, ha annunciato alla regione e al mondo che il suo paese non aveva bisogno di assistenza internazionale, ma avrebbe anzi esso stato erogato soccorsi e aiuti ai paesi circostanti. Quel gesto ha reso repentinamente tangibile, e ineludibile, ciò che fino ad allora si poteva solo estrapolare dai trend delle statistiche economiche: le nazioni dell’Asia, in particolare le più grandi, stanno effettivamente ridisegnando i loro percorsi; stanno acquisendo un peso inimmaginabile anche solo pochi anni fa; e sono ormai protagonisti di primo piano nell’arena mondiale.

Questo non vuol solo dire che le dinamiche economiche e culturali della globalizzazione saranno segnate da nuovi flussi e influenzate da nuovi attori, cosa peraltro già ben percepibile, ma che i problemi regionali dell’Asia – che fino a ieri ci toccavano ben poco – acquisiranno una crescente centralità, e che i nuovi colossi asiatici avranno sempre più voce in capitolo anche sulle tematiche mondiali e i conflitti più lontani. Già ora, ad esempio, gli accordi commerciali e petroliferi che l’Iran sta stringendo con la Cina e l’India indicano quanto gli interessi di quei paesi vadano ramificandosi proprio nell’instabile contesto mediorientale, e come Teheran afferri l’occasione offerta dai colossi asiatici per diversificare i suoi appoggi e dotarsi di nuove risorse diplomatiche.

Tutto questo esige che l’Europa e l’Italia sappiano guardare avanti e confrontarsi con questi scenari, invece di restare per diversi aspetti legati a una geografia mentale che viene progressivamente superata dalla realtà. È anche sintomo di questa inadeguatezza la battaglia che l’Italia ha fatto contro i progetti di riforma dell’ONU che allargherebbero il Consiglio di Sicurezza ai nuovi (e vecchi) poli più forti dei vari continenti: Giappone, Germania, India, Brasile. Perché la regressione dell’Italia a un cerchio più esterno di paesi meno influenti che ciò comporterebbe è cosa certamente amara (ancorché realistica alla luce del nostro peso effettivo) ma di ben minore importanza rispetto alla necessità di dare all’ONU maggiore rappresentatività ed efficacia, e di impostare positivamente le nostre stesse relazioni con quei paesi alla luce delle opportunità crescenti che essi rappresenteranno in futuro.

Per ciò che riguarda l’Europa, e specificamente la UE, è chiaro che essa non potrà avere un ruolo influente nella ridefinizione degli equilibri strategici in un area lontana come l’Estremo Oriente, e si limiterà a essere una voce magari positiva ma lontana. Tuttavia essa dovrà cercare di essere massimamente presente in chiave commerciale e finanziaria, e magari culturale. Il problema da affrontare con lungimiranza – date queste basi di partenza – è quello di bilanciare le nostre priorità, di non sottovalutare la rapida dinamicità di quegli scenari, e di non dimenticare che anche se si tratta di un’area per noi lontana essa tenderà non di meno ad acquisire una crescente centralità per tutti i principali attori mondiali, a cominciare dagli USA. Ad esempio, la decisione annunciata e poi apparentemente congelata di revocare l’embargo sulla vendita di armi a Pechino riflette un dilemma non facile da sciogliere. Possiamo decidere che perseguire i nostri interessi commerciali e stabilire nuove aree di cooperazione con la Cina debba essere comunque prioritario, probabilmente presumendo che l’ascesa anche militare di Pechino non costituisca un problema. Ma è necessario essere consapevoli del fatto che una simile decisione ci introduce, anche se da una porta laterale e con un ruolo marginale, in un gioco complesso e del tutto aperto sulla sicurezza futura dell’area, entro il quale non solo gli USA, ma anche il Giappone o la Corea del Sud non potrebbero che accogliere negativamente una partecipazione europea al rafforzamento militare della Cina. Sia pure in via indiretta, quindi, ciò introdurrebbe una crepa nei nostri rapporti più consolidati di alleanza e cooperazione, e proprio sul terreno più delicato della sicurezza. Ciò si riverserebbe ovviamente sulle relazioni dirette, in particolare con gli Stati Uniti, anche in tutti gli altri scenari per noi più vicini e cruciali. Poiché non ha ovviamente senso pensare di sostituire l’asse strategico atlantico con uno, del tutto fantomatico, sino-europeo, bisogna almeno soppesare bene le conseguenze di una scelta che pure appare ovvia sotto il profilo commerciale.

Che sia il Medio Oriente o l’Estremo Oriente tutto in ultima analisi ci rimanda, come si vede, alla questione del nostro rapporto con gli USA, e alle alternative forse non entusiasmanti ma ineludibili che l’Europa ha di fronte.

Per un verso la UE può decidere di assecondare e magari stimolare quella presa di distanza da Washington, quella progressiva autonomizzazione che viene chiesta da non poca parte dell’opinione pubblica europea e da taluni suoi governi, e che è stata bruscamente incentivata dalla ruvidezza dell’unilateralismo americano degli ultimi anni. Si tratta di una strada che accentuerà ovviamente le frizioni con Washington, ma che riesce difficile vedere quali vantaggi possa comportare nei principali scenari mondiali, dove la nostra influenza (già non grande, e comunque destinata a scemare gradualmente tanto quanto ascendono altri grandi protagonisti mondiali) si basa in genere sul nostro essere parte di uno schieramento occidentale relativamente coeso.

Rischieremmo cioè di scambiare un legittimo senso di orgoglio, e talune opportunità non decisive, per una ulteriore riduzione della nostra influenza, che finirebbe per rastremarsi ben più di quanto già ora non sia alle sole ristrette aree direttamente contigue ai nostri confini.

Oppure possiamo optare per una ripresa (e parziale ridefinizione) della collaborazione transatlantica come asse primario della nostra collocazione internazionale, sfruttando il fatto che le condizioni che precipitarono la rottura del 2002-2003 sono alle nostre spalle, e che l’agenda statunitense della democratizzazione offre un terreno assai meno controverso e ben più affine – sotto il profilo sia degli ideali che dei relativi strumenti di azione politica – delineando quindi un percorso perseguibile in comune. Una ripresa di cooperazione multilaterale può in questo senso essere utile e positiva (in primo luogo per l’Europa) sia in relazione all’Iran – che costituirà il primo terreno di sperimentazione in tal senso – che all’Iraq e al conflitto israelo palestinese. Se questa è la scelta dell’Europa dovremo ovviamente scontare il fatto di essere, e di continuare a sentirci, un partner importante ma minore, e quasi mai effettivamente paritario. Ma non possiamo non ricordare che ciò non deriva solo, e neppure principalmente, dagli Stati Uniti. È una condizione, infatti, che discende direttamente dalla nostra storia, dalle scelte sventurate che gli europei fecero in passato e dalle molte scelte – talune passive e altre positive – che abbiamo fatto negli ultimi decenni in merito a ciò che l’Europa intende essere e non essere.

Se l’Europa sta costruendo al suo interno, e intorno ai suoi confini, un’area di pace e di stabilità, non di meno dobbiamo avere ben presente che sul più ampio sfondo del panorama mondiale quello dell’Europa è il problema di chi deve comunque saper gestire un graduale (e possibilmente non traumatico) declino, una diminuzione del nostro peso relativo. Non è un arte facile, e richiede innanzitutto di astenersi da quei passi, magari seducenti ma del tutto irrazionali, che possono invece accelerarlo improvvisamente, come la nostra storia del Novecento dovrebbe averci insegnato.