«Non? Non! Non...»: il referendum sulla Costituzione in Francia

Di Gilles Finchelstein Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

29 maggio: ore 22.00.

Arrivano i risultati. Deludenti, per chi si è battuto in favore della ratifica della Costituzione. Ma senza sorprese per chi ha seguito da vicino la campagna. La Francia dunque ha detto «no». Nettamente. Chiaramente. Indiscutibilmente. Ma perché? E come? Oggi bisogna cercare di comprendere. Partendo dalla pre-campagna. Per sbrogliare la matassa della campagna, analizzare i risultati, misurarne le prime conseguenze. È quanto si cercherà di fare con questo articolo.

 

29 maggio: ore 22.00.

Arrivano i risultati. Deludenti, per chi si è battuto in favore della ratifica della Costituzione. Ma senza sorprese per chi ha seguito da vicino la campagna. La Francia dunque ha detto «no». Nettamente. Chiaramente. Indiscutibilmente. Ma perché? E come? Oggi bisogna cercare di comprendere. Partendo dalla pre-campagna. Per sbrogliare la matassa della campagna, analizzare i risultati, misurarne le prime conseguenze. È quanto si cercherà di fare con questo articolo.

 

La pre-campagna

Il voto è stato preceduto dalla campagna. E prima ancora, dalla fase preliminare, quella in cui si prepara la scena. E che in realtà condiziona già molte cose. Perché il sisma del 29 maggio viene da lontano.

 

Perché Jacques Chirac si è rassegnato al referendum, piuttosto che sceglierlo

La Costituzione francese avrebbe consentito due opzioni per la ratifica del Trattato costituzionale: la via parlamentare o il referendum popolare. Il presidente della Repubblica ha esitato a lungo. E da esperto animale politico, ha misurato i rischi.

Il primo era dato dagli incerti del voto popolare. I due referendum organizzati in Francia sull’Europa hanno presentato una costante: considerata facile all’inizio, nell’ultima fase l’operazione si è rivelata gravida di rischi. Nel 1972, al voto sull’adesione della Gran Bretagna, il presidente Pompidou ha dovuto incassare un’astensione massiccia. Nel 1992, sul Trattato di Maastricht, il presidente Mitterrand ha ottenuto il «sì» con una risicata maggioranza del 51,4%. Da quei referendum, così come dagli altri due organizzati negli ultimi quattro decenni, emerge almeno una certezza: le cose non vanno mai come si era previsto.

Il secondo rischio temuto da Jacques Chirac era la «sanzione politica». Un re f e rendum può anche rappresentare un’occasione per rispondere a una domanda che non è stata posta. Ora, nel 2004 i francesi hanno sconfessato il presidente della Repubblica e il suo governo per ben due volte: in marzo, la destra è riuscita a conservare solo due regioni su 22; e alle elezioni europee di giugno l’UMP ha raccolto appena il 16% dei suffragi.

Il terzo rischio era infine quello di una rivolta di tipo sociologico. Da vari anni, tutti i referendum sull’Europa trascendono la contrapposizione sinistra-destra per rivelare un divario sociale: «il popolo contro le élite». Lo si è già visto, in Francia, al voto per Maastricht. E più recentemente in Irlanda per il Trattato di Nizza, e in Svezia per l’euro. In un contesto contrassegnato dalla depressione economica, dalla sofferenza sociale e dal discredito politico, vi era il rischio reale che anche qui – come in Irlanda o in Svezia – gli operai, gli impiegati, i lavoratori precari si rivoltassero contro una posizione percepita come elitaria.

Eppure, Jacques Chirac ha finito per scegliere il referendum. Bisogna vedere in questa sua decisione il peso della storia e delle circostanze: la filiazione gollista, il referendum visto come l’espressione più compiuta delle democrazia; l’ombra di Mitterrand, che già aveva fatto questa scelta per il Trattato di Maastricht; la decisione di Tony Blair, che ha scartato la ratifica parlamentare; la dichiarazione di Valery Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione: «un Trattato è ratificato dal parlamento; una Costituzione è ratificata dal popolo». E poi la pressione dei partiti, che tutti – compreso il suo – chiedevano il referendum. Indubbiamente, c’è stato anche un errore di analisi che ha giocato un ruolo nella sua scelta. Considerando che la Francia ha una tradizione europea radicata e mai smentita, visti i dati delle ultime elezioni europee, in cui le liste nazionaliste avevano segnato il passo, e a fronte dei primi sondaggi, dai quali sembrava emergere una larga maggioranza pronta a ratificare la Costituzione, Jacques Chirac ha finito per lasciarsi convincere. E in occasione della sua tradizionale intervista del 14 luglio – la festa nazionale – ha annunciato la sua scelta: i francesi sarebbero stati chiamati alle urne.

 

Come il partito socialista ha preso posizione… senza risolvere nulla

Per mettere a punto la propria posizione, il partito socialista ha organizzato, il 1° dicembre 2004, un referendum interno, invitando gli iscritti al voto. È bene rendersi conto di quanto questa scelta fosse straordinaria, nella prima accezione del termine. Straordinaria per la procedura, dato che il referendum è estraneo alla cultura politica del partito socialista: è stata la prima volta. Straordinaria anche riguardo alla questione di fondo, dato che finora il Partito Socialista aveva dato prova di un impegno costante, e nel complesso consensuale, per la costruzione europea. La scelta di François Hollande, segretario del Partito Socialista, di indire un referendum interno, è stata decisa in due tempi: inizialmente è stato un eccesso di debolezza, una concessione fatta alle minoranze dell’ultimo Congresso del 2003. Poi, nella fase finale, c’è stato invece un eccesso di fiducia: dopo le vittorie riportate dal Partito Socialista alle elezioni regionali, e poi a quelle europee del 2004, François Hollande ha lanciato il referendum, e ha prospettato al tempo stesso – non certo a caso – la propria candidatura alle elezioni presidenziali, sperando di trarre un vantaggio personale da quello scrutinio interno.

Il dibattito sul referendum interno è stato il più aspro che il Partito Socialista avesse conosciuto da almeno un decennio. Vi si intrecciavano di fatto numerose questioni: l’impegno europeo, il controllo del partito, l’orientamento politico, senza contare una lotta personale, dopo la scelta di Laurent Fabius, il numero due del partito, di passare dalla parte del «no». La partecipazione è stata eccezionale: ha votato più dell’80% degli iscritti – una percentuale che non ha precedenti né ai congressi, né alle designazioni. Ci si aspettava un risultato risicato, ma il responso delle urne è stato netto: i «sì» hanno raggiunto quasi il 60%. Molti, sia tra gli osservatori che tra i responsabili del partito, pensavano che la faccenda fosse ormai chiusa: per François Hollande la leadership era realmente acquisita, e il referendum nazionale sembrava solo una formalità. Ma è stato un duplice errore.

Se si osserva da vicino il dibattito interno, quali sono le constatazioni che emergono? Il testo era complesso e difficile da spiegare anche ai militanti politicizzati. Molti erano fortemente tentati dal «no», semplicemente per non votare un’altra volta come Jacques Chirac, dopo il voto «obbligato» al secondo turno delle presidenziali contro Jean-Marie Le Pen. C’erano grandi interrogativi sul funzionamento dell’Europa. Il grosso dello schieramento del «no» era costituito – un ribaltamento che ha dell’incredibile – dai giovani! E c’era anche di peggio: il referendum era riuscito nella non piccola impresa di dividere il partito socialista senza risolvere assolutamente nulla. Dopo aver voluto il referendum, dopo aver chiesto, durante tutta la campagna, che ciascuno si inchinasse al voto dei militanti, i fautori del «no» si sono affrancati, uno alla volta, dalle regole collettive. L’«ala sinistra» del partito ha fatto apertamente campagna comune con il Partito Comunista e con l’estrema sinistra. Quanto a Laurent Fabius, ha moltiplicato i suoi interventi sui media, soprattutto a ridosso del voto del 29 maggio. E la direzione del partito, non avendo saputo reagire in tempo, non ha avuto altra scelta che quella di lasciar fare, sia pure a denti stretti…

Ma la discussione su un testo si svolge sempre in un contesto. Quello che ha preceduto il voto era – e questo è il minimo che si possa dire – gravido di minacce. Tre sono gli indicatori che davano la misura del degrado del clima. Il primo, la fiducia nel futuro: su questo tema il 63% dei francesi aveva la sensazione (non condivisa solo dal 9%) che «la situazione fosse in via di deterioramento». Sulla stessa domanda, nell’ottobre 2000 le risposte pessimiste erano il 40%, contro un altro 40% di ottimisti. Il secondo, la lotta contro la disoccupazione, la prima priorità dei francesi: il 90% riteneva che l’azione del governo fosse inefficace (contro l’8% di parere diverso). E il terzo, popolarità del primo ministro: con il 75% di risposte negative (contro il 21%) si è superato il record negativo di tutta la storia della Quinta Repubblica.

 

La campagna

In Spagna il risultato del referendum era scontato, e la campagna è stata atona. Lo è stata anche in Olanda, sebbene qui l’esito fosse incerto. In Francia invece abbiamo avuto una campagna appassionata. I libri sulla Costituzione sono stati per varie settimane al primo posto nelle vendite editoriali, e i dibattiti televisivi registravano livelli di audience elevati. Pochi giorni prima del voto, un sondaggio indicava che per l’83% dei francesi la Costituzione era stato uno dei temi di conversazioni degli ultimi mesi. Tutti i responsabili politici francesi si sono impegnati nel dibattito, compresi i «grandi vecchi». Per l’occasione, Valery Giscard d’Estaing e Simone Veil hanno abbandonato l’obbligo di riservatezza (in quanto membri del Consiglio costituzionale); e sono usciti allo scoperto anche Lionel Jospin e Jacques Delors. Molti responsabili politici europei hanno espresso i rispettivi punti di vista, contribuendo così alla creazione di un vero spazio pubblico europeo.

Eppure, al termine di questa campagna molti francesi erano sconcertati, e nell’ultima settimana, a ridosso del referendum, quasi un terzo dei cittadini intenzionati a votare non aveva ancora preso una decisione. Come si spiega questo disorientamento? Innanzitutto, non erano più riconoscibili le tradizionali linee di demarcazione. Il «sì» era sostenuto dalla destra e dal centro – cioè dalla maggioranza di Jacques Chirac, dal Partito Socialista e dai Verdi. Lo schieramento del «no» comprendeva l’estrema destra, il Partito Comunista, l’estrema sinistra, ma anche una parte della destra – quella «nazionalista », più una minoranza del Partito Socialista e dei Verdi. Il dibattito referendario è stato dunque trasversale, sia rispetto alla contrapposizione sinistra-destra che alla maggior parte delle famiglie politiche. Questo argomento va però relativizzato, perché di fatto i francesi sono ormai abituati alla trasversalità del dibattito europeo e l’elettorato francese si sta sempre più affrancando dalla contrapposizione sinistra-destra. La fedeltà ai partiti non è certamente più quella d’una volta.

In secondo luogo, il disorientamento si spiega con la complessità del Trattato. Questa complessità – 448 articoli, 36 protocolli, l’interminabile terza parte – ha contribuito ad alimentare i «no». Tutti i francesi hanno ricevuto a domicilio il testo integrale del Trattato; e molti sono stati infastiditi dalla difficoltà di comprenderlo. Ma anche quest’argomento incide relativamente: il Trattato di Maastricht era almeno altrettanto complesso, eppure nel 1992 i francesi hanno votato «sì». La vera specificità del dibattito, che indubbiamente rappresenta anche la spiegazione più convincente dello sconcerto dell’elettorato francese, è stata la sua confusione. Nel 1992, la discussione su Maastricht si strutturava intorno a un unico tema – l’euro – e poneva a confronto posizioni divergenti: c’erano i favorevoli e i contrari. Stavolta invece tutto è stato diverso: nel dibattito si intrecciavano numerosi temi, ciascuno dei quali dava luogo a interpretazioni divergenti sul medesimo articolo.

 

La dinamica del «no»

Si spiega così quella sorta di rincorsa a cui abbiamo assistito. Mai, in tutta la sua storia elettorale, la Francia aveva conosciuto nulla di simile (si veda il grafico che segue). Il «sì» è rimasto massicciamente in testa (intorno al 60%) fino a marzo; ma tra il 18 marzo e il 20 aprile il fronte del «no» ha preso il sopravvento con un’ampiezza e una rapidità senza precedenti. Poi è sembrato per breve tempo che il «sì» riprendesse quota, di nuovo con straordinario impeto e velocità. Infine, a tre settimane dallo scrutinio, ha finito per imporsi il no, nonostante un ultimo accesso di debolezza nei tre giorni precedenti il voto, come hanno dimostrato gli ultimi sondaggi non pubblicati.

Grafico

La dinamica del «no» si spiega con tre ragioni.

Primo: le «convergenze parallele». Il «no» è stato sostenuto da uno schieramento eterogeneo. Gli argomenti avanzati erano diversi, e talora contrapposti. Non vi è stato accordo su nulla. Ma il fronte del «no» è riuscito a trasformare in forza questa diversità, utilizzando con efficacia il marketing virale. Ha da subito imposto la propria griglia di analisi del Trattato: un «Trattato liberista», proclamando in un manifesto: « Abbiamo tutti una buona ragione per dire ‘no’», e riuscendo così a fare la somma dei contrari.

Secondo: l’appoggio dell’attualità. Basta passare in rassegna i vari avvenimenti venuti ad alimentare la campagna referendaria per misurare fino a che punto l’attualità fosse entrata in sintonia con gli argomenti del «no». La mobilitazione sociale per il potere d’acquisto; l’aumento, annunciato in crescendo, del tasso di disoccupazione; lo scandalo per la rivelazione della liquidazione percepita dal manager del Gruppo di distribuzione Carrefour; la battaglia sulle importazioni del tessile cinese; le controversie quasi quotidiane sulle delocalizzazioni. E come unico contrappeso per dare dell’Europa un’immagine positiva, il primo volo dell’A380 di Airbus. È stato inoltre proprio in coincidenza con quell’evento che si è registrata una passeggera prevalenza dei «sì».

Terzo: le illusioni di potenza. I sostenitori del «sì» hanno cercato di spiegare il progresso rappresentato dal Trattato, e di porre in evidenza i pericoli di un suo rifiuto: assenza di un «piano B», indebolimento della Francia… Ma quelli del «no» sono riusciti a convincere gli elettori dell’inconsistenza di questi argomenti. Nella fase finale della campagna, la maggioranza dei francesi (il 55% contro il 40%) pensava che la Francia avrebbe ottenuto la rinegoziazione del progetto di Costituzione europea. Ma c’è di meglio – o forse di peggio: una maggioranza (del 54% contro il 40%) riteneva che l’influenza della Francia «non avrebbe risentito negativamente» dalla vittoria del «no». In definitiva, i francesi guard a vano con preoccupazione a un successo del «sì», più di quanto temessero le conseguenze di una vittoria del «no» (il 45% contro il 36%).

 

I risultati

Partecipazione alta, risultato netto: la sera del 29 maggio il verdetto era incontestabile. La partecipazione è stata del 70%: una percentuale pari a quella del referendum per Maastricht, o del primo turno delle elezioni presidenziali. Più alta che alle ultime regionali (62%) e legislative (64%). E molto superiore a quella delle ultime elezioni del Parlamento europeo (43%).

Il «no» ha vinto con il 54,7% dei suffragi espressi, pari a 2,6 milioni di voti in più (contro un vantaggio di soli 540.000 voti per il Trattato di Maastricht, nel 1992). Ma occorre andare al di là delle pure e semplici cifre per entrare nel dettaglio dei risultati, e soprattutto per comprenderne il significato.

 

Analisi dei risultati

Di vario geografico: Parigi, Lione, Strasburgo, Tolosa o Nantes hanno votato «sì». Il «no» è maggioritario nelle periferie urbane e nelle zone rurali, come se il contesto urbano fosse divenuto sinonimo di spirito europeista.

Di vario sociologico: già il voto del 1992 sembrava esprimere una contrapposizione tra «popolo» e «élite». Che dire allora di quello del 2005? Se si guarda allo sviluppo del voto dei quadri dirigenti da un lato e di quello operaio dall’altro, si può constatare che i primi, dopo aver esitato durante la campagna, hanno continuato in larga misura a sostenere la Costituzione; mentre gli operai, che nel 1992 apparivano ancora divisi, sono stati quasi unanimi nel respingerla. La differenza tra il voto dei quadri e quello degli operai è di ben 43 punti – tanto che qualcuno non ha esitato a parlare di un «voto di classe».

Tabella 1

Il divario demografico: nel 1992, sia i «giovani» che gli «anziani» avevano votato in maggioranza per il «sì»; mentre nel 2005 è emerso un vero divario demografico. Come già aveva prefigurato il referendum interno al Partito Socialista, tra i giovani è prevalso il «no», mentre gli anziani hanno votato «sì» ancora più massicciamente che nel 1992. Nel complesso, mentre in quell’occasione si erano rilevati 5 punti di differenza tra il voto dei giovani tra i 18 e i 24 anni e quello degli ultrasessantacinquenni, oggi questa differenza è arrivata a ben 22 punti. Inoltre va notato che anche la fascia intermedia, tra i 25 e i 59 anni, corrispondente alla popolazione attiva, si è spostata massicciamente verso il «no».

Tabella 2

Divario politico: restano alcune costanti nei risultati del 2005 rispetto a quelli del 1992: il Partito Comunista e l’estrema destra erano e sono contrari. Ma per converso, si sono verificati veri e propri sconvolgimenti in seno all’UMP e nell’elettorato socialista, con balzi di 34 e di 45 punti in direzioni opposte. La sinistra ha optato in maggioranza per il «no», ma sarebbe affrettato parlare del risultato del 29 maggio come di un «voto di sinistra». Se in effetti si guarda al peso rispettivo delle diverse famiglie politiche, si nota che su 100 «no», 59 provengono dalla sinistra e dagli ecologisti, e 41 dalla destra o dall’estrema destra.

Tabella 3

 

Comprendere i risultati

Resta infine un’ultima domanda: quali sono state, al momento del voto, le motivazioni dei «no»? I sondaggi realizzati il giorno stesso del voto consentiranno di fare almeno in parte luce su questo mistero.

In primo luogo, la situazione politica e sociale nazionale ha avuto evidentemente un grande peso. Almeno il 40% di chi ha votato «no», o addirittura il 50%, secondo alcuni istituti, ha detto di aver voluto esprimere la propria «esasperazione per la situazione attuale».

In secondo luogo – dimensione questa da non sottovalutare – la stessa Europa rappresenta una delle cause del «no» al Trattato. Anche in quest’ottica occorre valutare adeguatamente il fatto che si sono sommate motivazioni contrastanti. Molti (quasi un terzo) hanno ritenuto la Costituzione troppo «liberista». Ma un altro 30% circa ha reagito con irritazione alla sua complessità. Altri ancora (attorno al 25%) hanno considerato che il Trattato rischiasse di minacciare l’identità della Francia. Infine, una percentuale compresa tra il 20% e il 30%, vedeva con preoccupazione gli allargamenti già avvenuti e quelli prospettati, e in particolare l’apertura dei negoziati con la Turchia.

 

Conclusione: quali le conseguenze?

Dopo la battaglia è necessario un bilancio: un’Europa bloccata, una Francia indebolita, la sinistra divisa, il partito socialista lacerato.

 

Per l’Europa

Evidentemente è ancora presto per misurare la portata delle conseguenze per il futuro dell’Europa. Ma nonostante tutto si è colpiti nel constatare la rapidità, la violenza e l’ampiezza della crisi, che supera anche le previsioni più pessimistiche. E nel rendersi conto di quanto fosse illusoria l’idea di poter rinegoziare il Trattato in tempi brevi. Non solo i «no» dei socialisti francesi sono diversi, i «no» della sinistra francese sono inconciliabili, i «no» della Francia sono incompatibili, ma si può vedere fin d’ora che i «no» della Francia e quelli dell’Olanda si pongono in totale contraddizione tra loro.

 

Per la Francia

La vittoria del «no» ha accentuato la crisi a destra. Jacques Chirac ha superato i record di impopolarità di tutti i presidenti della Repubblica, dal 1958 ad oggi. È stato formato un nuovo governo – benché essenzialmente con gli stessi ministri – che non è stato bene accolto dalla maggioranza, dai media e dai francesi. Il voto del 29 maggio ha amplificato la destrutturazione, e non ha consentito in alcun modo di ristrutturare il campo politico.

Inoltre, la vittoria del «no» ha cristallizzato la crisi a sinistra: una crisi dissimulata, che covava da vari anni. Oggi due sinistre si contrappongono. Da un lato, una sinistra «neo-comunista» tenta un congiungimento con alcuni spezzoni dell’estrema sinistra, col Partito Comunista, con i movimenti altremondialisti e con una frazione del Partito Socialista. C’è però da chiedersi se un’aggregazione del genere sia possibile, su quale linea e intorno a quale candidato alle presidenziali. D’altra parte, una sinistra riformista, socialdemocratica ed europeista sta tentando di conserva re la maggioranza in seno al Partito Socialista. François Hollande, anche se indebolito, resta il Segretario. Laurent Fabius è rinfrancato, ma ha perso il suo posto nel direttivo del partito. La data del prossimo congresso è stata anticipata al 17-18 novembre di quest’anno. Sarà una battaglia decisiva per l’orientamento del Pa rtito Socialista francese, destinata a prefigurare quella che alla fine del 2006 contrapporrà i candidati socialisti alla presidenza della Repubblica. Da un lato, sicuramente Laurent Fabius, sempre impopolare ma ormai di nuovo in sella; e dall’ a l t ro un rappresentante dell’attuale maggioranza del p a rtito: potrebbe essere Dominique Strauss-Kahn, tuttora popolare e statista di riconosciuta statura. Ma è una storia tutta da decidere.