Democrazia ed elezioni: un rapporto da migliorare

Di Gianpaolo Rossini Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Mentre le virtù della democrazia varcano, con il convincimento o con la forza, confini fino a qualche tempo fa ritenuti inaccessibili, sorgono nuovi interrogativi nei paesi in cui da più lungo tempo si è consolidata la democrazia rappresentativa. Riguardano i sistemi elettorali e la loro efficacia rappresentativa, nonché il costo dell’accresciuto utilizzo del meccanismo di voto come mezzo per selezionare i rappresentanti della volontà dei cittadini e per interagire con essi. Nel corso degli ultimi due decenni molte democrazie hanno mostrato di soffrire di cicli elettorali che talvolta si sono intersecati con consultazioni «spurie» come i re f e rendum. La spesa pubblica lievita nei periodi precedenti le elezioni, in quanto i governi utilizzano il loro potere discrezionale per incrementare le probabilità di rielezione.

Mentre le virtù della democrazia varcano, con il convincimento o con la forza, confini fino a qualche tempo fa ritenuti inaccessibili, sorgono nuovi interrogativi nei paesi in cui da più lungo tempo si è consolidata la democrazia rappresentativa. Riguardano i sistemi elettorali e la loro efficacia rappresentativa, nonché il costo dell’accresciuto utilizzo del meccanismo di voto come mezzo per selezionare i rappresentanti della volontà dei cittadini e per interagire con essi.

Nel corso degli ultimi due decenni molte democrazie hanno mostrato di soffrire di cicli elettorali che talvolta si sono intersecati con consultazioni «spurie» come i re f e rendum. La spesa pubblica lievita nei periodi precedenti le elezioni, in quanto i governi utilizzano il loro potere discrezionale per incrementare le probabilità di rielezione.

La presenza del ciclo elettorale e la propensione a inflazionare le economie hanno generato cambiamenti istituzionali di rilievo, come ad esempio, l’indipendenza della banca centrale. Nata in Inghilterra1 per intermediare per conto del tesoro di Sua Maestà è ora, quasi ovunque, sganciata dalle esigenze del governo nel finanziamento della spesa pubblica. In alcuni casi, come in Eurolandia, questo divorzio tra finanziamento delle eccedenze di spesa pubblica e governo della moneta si è spinto fino a un oscuramento della funzione di prestatore di ultima istanza. Ovvero, una delle funzioni principali per cui sono nate le ban che centrali ha finito per essere quasi cancellata dalla necessità di tagliare il terreno sotto i piedi alla propensione dei governi ad abusare della loro potestà sovrana di spesa, soprattutto a favo re della maggioranza che li sostiene.

In taluni casi si è osservato che persino il tasso di cambio di una moneta può essere oggetto di ciclo elettorale, ovviamente se è flessibile. La forte svalutazione del dollaro tra il 2002 e il 2004 nei confronti di euro e yen può essere in parte attribuita a un prolungato ciclo elettorale che ha preceduto le presidenziali USA nell’autunno 2004. Per un paese che ha un cambio flessibile e con una discreta integrazione internazionale, il tasso di cambio può agevolare le politiche di un governo prossimo alle elezioni, in quanto si ottiene così uno stimolo all’attività economica senza pesare sulla spesa interna, ma sulle esportazioni, ovvero la spesa altrui. Sul cambio può esercitare qualche influenza – più temporanea che permanente – una banca centrale solidale con il governo, anche se poco disposta a venire meno ai precetti dell’indipendenza. Politiche simili possono divenire fonte di instabilità dei tassi di cambio.

Ma il ciclo elettorale non è responsabile solo di sforamenti della spesa pubblica o di deprezzamenti e/o apprezzamenti del cambio. Un po’ tutta la gamma di interventi nell’economia ne è affetta. Negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo si è in parte posto rimedio a ciò tracciando confini severi alla discrezionalità anche per altre politiche, come quelle industriali, e in particolare per i sussidi alle imprese. Ma questi vincoli non si dimostrano adeguati. Perché la gamma di interventi nell’economia è assai ampia e variabile. E soprattutto perché, a fronte di una accresciuta consapevolezza dell’esistenza del ciclo elettorale, è paradossalmente lievitato – in Europa in primis – il numero di appuntamenti elettorali e affini. Abbiamo limato il peso del ciclo elettorale, ma inflazionato il voto. Il risultato è stato di accrescere il costo2 del funzionamento della democrazia rappresentativa, senza aggiungere benefici visibili, anzi accrescendone debolezza e instabilità.

Accanto a questo aspetto paradossale e un po’ inquietante delle relazioni tra democrazia, economia ed elezioni, se ne evidenzia un altro relativo alla reale contendibilità della politica. La domanda è se dove vige un sistema maggioritario – puro o spurio che sia – la politica non abbia finito per essere ancora più facile preda dei cicli elettorali oltre che divenire meno aperta, e di conseguenza meno partecipata e democratica.

 

Concorrenza in politica come in economia?

In economia le virtù della concorrenza sono unanimemente riconosciute anche se spesso neglette nella pratica delle agenzie di sorveglianza (antitrust) e nelle norme civili.

In economia la concorrenza richiede che i prezzi di mercato siano stabiliti senza che alcuno abbia un peso dominante, possibile se entrate e uscite sono libere e non onerose per ogni operatore, ovvero se c’è contendibilità. Un mercato ha forme socialmente desiderabili se operare in esso non risulta precluso ad alcuno. E se nessuno è in grado da solo di piegarlo significativamente ai suoi interessi. In caso diverso, si formano delle rendite. Anche quando sono pochi a operare in un mercato, interagire con questi pochi non deve risultare impossibile a chi intenda farlo. È questo un aspetto cruciale che definisce il grado concorrenzialità e quindi di democrazia economica di un mercato. Assume rilevanza per le agenzie di sorveglianza quando sono chiamate a sanzionare comportamenti non ortodossi, ovvero non rispettosi della libertà di mercato.

E in politica? I pilastri su cui poggia la concorrenza si avvicinano a quelli della democrazia. Ogni cittadino contribuisce alla formazione di una maggioranza nei confronti della quale può essere in sintonia o meno. Le posizioni dominanti sono solo temporanee ed espressione non di un gruppo ristretto, bensì di una maggioranza espressa dal voto. Far valere il criterio della libera entrata in economia è difficile. In politica lo è forse ancora di più.3 Anche perché i sistemi elettorali di cui disponiamo non sono sempre in grado di assicurare rappresentanze aperte ai cittadini attraverso effettiva concorrenza. Non tutti possono proporsi all’elettorato. Non solo per via di diverse capacità e culture. Ma anche per il livello delle risorse economiche richieste per entrare nell’agone politico e per la diversa abilità (o spregiudicatezza) nell’ottenere finanziamenti a un programma politico. Negli Stati Uniti l’ammontare dei fondi spesi complessivamente nella campagna presidenziale del 2004 dai candidati si è avvicinato ai quattro miliardi di dollari. Nell’ottobre del 1999 la brillante senatrice repubblicana Elisabeth Dole abbandonò la gara per le presidenziali USA del 2000, prima delle primarie. Dichiarò di non avere abbastanza fondi per proseguire la campagna elettorale. Vano si rivelò il notevole seguito nella base dello stesso partito, che non smentì le dichiarazioni della Dole, ma addirittura le apprezzò.

In Europa non cadiamo ancora negli eccessi americani, sebbene le campagne elettorali stiano divenendo sempre più costose e frequenti. Con l’aggravante di avere una serie continua di impulsi destabilizzanti dovuta al moltiplicarsi degli appuntamenti elettorali.

La lunga stringa di scandali politici che ha costellato l’Europa degli ultimi quindici anni, dalla Germania di Kohl, alla Francia di Chirac e Juppé, alle vicende italiane di tangentopoli, ci suggerisce che anche qui il costo di sostenere la competizione elettorale è elevato. Ed è ben più alto di quanto l’elettorato attivo sia disponibile a offrire in modo trasparente e legale a sostegno dei suoi beniamini.

In ogni caso chi riesce ad attrarre fondi nelle competizioni elettorali finisce per legare le sue decisioni molto di più agli interessi di chi l’ha sostenuto finanziariamente che non a quelli di chi ha semplicemente espresso la sua preferenza elettorale. Il voto è segreto. È difficile individuare esattamente le fasce di preferenze, soprattutto tra le frange più mobili dell’elettorato. Questo spinge i vincitori di un’elezione a beneficiare in forma privilegiata coloro che hanno apportato risorse economiche e hanno dato così un «voto palese». Si accentua per questa via la cosiddetta «dittatura della maggioranza», paventata da Alexis de Tocqueville, perchè dittatura di una parte della maggioranza sulla maggioranza stessa. Le prove? L’abolizione dell’imposta di successione da parte del presidente Bush durante il suo primo mandato (2000-2004). Ma anche molte privatizzazioni. Non solo in paesi in transizione dal socialismo. Tutte operazioni che segnalano benefici elargiti a gruppi molto ristretti di sostenitori, tracciabili in un rapporto privilegiato nel tempo.

Al contrario di quanto si pensava solo una decina d’anni fa, queste anomalie delle nostre democrazie non sono ridotte, bensì esaltate in sistemi maggioritari poco contendibili soprattutto se associati a un ricorso eccessivo al voto. Perché sistema maggioritario e frequenti elezioni aumentano i costi della politica, rendendola meno aperta.

 

I vizi del sistema maggioritario e di altri congegni

In economia si chiama principio di minima differenziazione dei prodotti. Si verifica se i consumatori hanno redditi simili.

In politica si chiama ricerca del consenso dell’elettore mediano, quello che appartiene al gruppo più numeroso il cui voto è cruciale soprattutto nei sistemi elettorali maggioritari. Ad esempio, in Italia circa l’80% delle famiglie possiede una casa. Con il sistema maggioritario chi vuole avere una rappresentanza parlamentare deve difendere i proprietari di immobili. Con un sistema proporzionale si può benissimo puntare al 20% di non proprietari e ottenere una rappresentanza parlamentare. In paesi avanzati in cui la distribuzione del reddito è più equa il gruppo mediano è molto ampio. E quindi politici di diversi orientamenti finiscono per convergere su proposte molto simili, visto che devono farsi paladini degli interessi dello stesso gruppo preponderante di elettori.

Se poi consideriamo lo spazio ormai limitato accordato alle politiche discrezionali – soprattutto in Eurolandia – diviene ancora più arduo differenziare i programmi elettorali4 in maniera sostanziale. Per questa ragione, con il maggioritario assumono ruoli di primo piano personalismi, dotazioni finanziarie e localismi. Tutti elementi che hanno poco a che vedere con gli interessi dell’elettore medio di un paese.

La difficoltà a differenziarsi da parte dei partiti politici, accentuata dal maggioritario, fa crescere la mobilità politica dell’elettorato. Questo spinge ancor più i governi in carica a usare le poche cartucce discrezionali di cui dispongono a favore di ristretti gruppi di sostenitori con i quali i legami assumono un carattere molto forte. Questi gruppi mettono mano ai loro portafogli per sostenere una pubblicità aggressiva a favore dei loro candidati, come avviene tra imprese che devono avvalorare una differenza pressoché inesistente del loro prodotto rispetto a concorrenti affini. Il che si osserva sovente per prodotti di consumo non durevole, soprattutto in campo alimentare.

Il localismo è un altro effetto perverso del sistema maggioritario per elezioni parlamentari. La difficoltà a differenziarsi su temi nazionali spinge al massimo l’accento su questioni locali. Questo gioca a favore della formazione di gruppi, forti localmente, ma deboli a livello nazionale, che conducono alla frantumazione del quadro politico nazionale e a instabilità.

Guardiamo all’Italia. Uno sbarramento, ad esempio al 5%, a livello nazionale con sistema proporzionale impedirebbe derive localiste. Con sbarramento al 5% e sistema proporzionale possiamo avere al massimo venti raggruppamenti politici. Con il sistema maggioritario di oggi ne possiamo avere, alla camera, in numero pari al 75% dei seggi, ovvero oltre 470. I localismi, aiutati dal sistema maggioritario, possono accentuare il ciclo elettorale nazionale trasferendolo a livello locale, dove gruppi ancora più ristretti possono beneficiarne grazie alla minore trasparenza e a un più debole controllo da parte dei cittadini. Per averne una prova basta verificare tra i cittadini quanto sia rara la conoscenza dello stato delle finanze locali a fronte di una discreta conoscenza di quelle nazionali.

 

Il vezzo (o vizio?) di troppe consultazioni elettorali

«Meanwhile, the children have gathered round, very impressed by this ritual of making a sign on a piece of paper, hiding it, putting it in a box. At what age, one wonders, will they realise what a farse it is?».5 Non è una citazione anarchica, ma lo sfogo di uno scrittore inglese che risiede in Italia e ironizza sull’inflazione di elezioni nella scuola frequentata dal figlio.

È proprio dagli eccessi nell’uso di procedure di voto che dovremmo partire per ridare forza alle nostre democrazie, non solo a livello nazionale. Un numero elevato di elezioni riduce la contendibilità del sistema politico, perché fa aumentare i costi per partiti e candidati. Gonfia gli oneri per i contribuenti. Ne fa diminuire la partecipazione (turnout) per eccesso di appuntamenti a fronte di scarso peso del voto individuale. In certi casi – ad esempio a livello locale – l’elettore ha l’impressione che il meccanismo di voto non garantisca un accettabile processo di selezione. In altri – ad esempio elezioni per il Parlamento europeo – la probabilità di un beneficio derivante dall’esprimere il voto è del tutto insignificante. O, tecnicamente, il budget pro-capite – non solo economico – che è in gioco è minimale e allontana il cittadino dal voto o lo prepara a proteste irrazionali. I no francesi e olandesi alla Costituzione dell’UE del 29 maggio e del 1 giugno 2005 non sono solo il rigetto di un testo criptico di 350 pagine, ma anche il segno di una volontà popolare che fatica a trovare espressione in organismi sovranazionali sui quali quasi nulla può, quando gli si chiede di eleggere un Parlamento europeo le cui prerogative sono scarsamente visibili oltre che quasi inesistenti. Il risultato è una protesta irrazionale contro una democrazia che sembra chiedere sempre più spesso il consenso agli elettori, ma che tende a marginalizzarlo con impressionante facilità, ricalcando i paradossi della sovranità del consumatore, reiterata a ogni angolo della strada, ma il più possibile esorcizzata da chi la esalta.

Consideriamo alcuni casi paradigma di eccesso di appuntamenti elettorali.

 

Un caso politico

In Italia i cittadini sono chiamati ad almeno 6-7 appuntamenti elettorali, ciascuno con cadenza al più quinquennale. Votiamo per Parlamento europeo, senato, camera, assemblea regionale, consiglio provinciale, consiglio comunale, e altri organismi come circoscrizioni, quartieri, comunità montane, ecc. Se setacciamo le campagne elettorali per il Parlamento europeo e per le province, non manchiamo di trovare impegni elettorali su temi sui quali gli eletti non avranno alcuna competenza istituzionale. Se ne sono accorti nei paesi di nuova accessione alla UE, alle prime elezioni per il Parlamento europeo nel 2004. Al punto che in alcuni casi la partecipazione al voto ha di poco superato le due cifre percentuali.6 Un evento il cui significato non è stato adeguatamente valutato, certo non secondario se paragonato a quello dei referendum francese e olandese di maggio-giugno 2005. Quanti in Italia voterebbero per i consigli provinciali in test elettorali ad hoc? Pochi, visto che le province sono istituzioni rappresentative costose, inutili,7 con competenze oscure ai più.

 

Un caso di istituzioni pubbliche: le università

Le università sono in buona parte autogestite da una rete di organi decisionali e legislativi, cui si accede con il voto. Oggi un docente vota per almeno dieci organismi, con diverse cadenze. Rettore (ogni 4 anni), consiglio di amministrazione (ogni 3 anni), rappresentante nel senato accademico (ogni 4 anni), preside di facoltà (ogni 3 anni), presidente del consiglio di laurea (ogni 3 anni), direttore di dipartimento (ogni 3 anni), Consiglio universitario nazionale (ogni 4 anni), commissioni dei fondi di ricerca (ogni anno), commissioni per i concorsi (4-6 mesi). Se non basta, in questi organismi si svolgono ulteriori elezioni per costituire commissioni. Nessun dubbio: troppe competizioni elettorali. Distolgono energie da ricerca e didattica. Irrigidiscono la gestione, perché emergono non pochi conflitti di interesse essendo l’elettorato passivo costituito da interni (insiders). Basterebbero alcuni appuntamenti chiave, come l’elezione del rettore, mentre si potrebbe introdurre in altri casi l’estrazione a sorte da liste di docenti e dipendenti disponibili al governo della loro istituzione. I vantaggi? Opportunità per tutti di assumere responsabilità di governo. Un ricambio continuo con rappresentanti meno rigidi in quanto privi di mandato politico dell’elettorato. Minori risorse dedicate alle competizioni elettorali. Minore conflittualità. Se poi in taluni casi si vuole mantenere un meccanismo selettivo, si può abbinare voto ed estrazione. Ad esempio, si eleggono rappresentanti in misura sette volte superiore a quella necessaria e tra gli eletti si estrae chi dovrà ricoprire la carica. Oppure, con una sequenza inversa, prima si estrae e poi si elegge.

 

Un caso di istituzioni private: le imprese medio-grandi

All’indomani degli scandali Enron e Parmalat si ritenne8 che i meccanismi di voto nelle grandi imprese a proprietà diffusa (public companies) non garantissero abbastanza nella selezione dei consigli di amministrazione, perché troppo vicini a maggioranze inclini a utilizzare a scopi privati le risorse d’impresa a scapito di minoranze e di dipendenti. Anche in questo caso sembrava conveniente affiancare al voto procedure di estrazione causale di alcuni membri del consiglio di amministrazione – qualcuno, estremizzando, addirittura suggeriva membri esterni senza possesso di alcuna quota azionaria. A ben vedere si tratta di esigenze che appaiono ancora più impellenti in imprese privatizzate aliene da concorrenza in quanto in posizione di monopoli naturali non contendibili.

 

La partecipazione: un bene da salvaguardare con meno elezioni

Il ricorso al suffragio è inflazionato e alcune istituzioni per cui viene usato sono marginali. Vi sono elezioni con partecipazione molto bassa. Altre appaiono poco utili e non sempre in grado di selez i o n a re gli eletti. In più, le elezioni consumano risorse preziose oltre a irrigidire gestione e mobilità. Aprire a meccanismi di estrazione a sorte, come per le giurie popolari in Corte d’Assise, può fare risparmiare risorse, rendere la politica e la gestione di molte istituzioni più aperta e, infine, evitare l’accumulo di insoddisfazione che soprattutto il meccanismo elettorale maggioritario può provocare.

L’erosione della partecipazione al voto (turnout) è un fenomeno che accomuna tutte le democrazie. Non è lineare e assume aspetti erratici che lo rendono insidioso e imprevedibile. Il cattivo funzionamento del sistema elettorale (dovuto al maggioritario con o senza ballottaggio) e il suo uso spregiudicato può indebolire il sistema democratico. Il no dei francesi nel referendum del 29 maggio 2005 non è solo una sconfitta di Chirac, ma anche del sistema maggioritario con ballottaggio che ha consentito la rielezione del presidente francese nel 2002 a capo di un’alleanza che aveva come collante solo il timore di una affermazione di Le Pen. Con un’elezione parlamentare la Francia avrebbe forse eletto un altro presidente che non avrebbe avuto la necessità – o l’ingenuità – di misurarsi su un referendum come quello del 29 maggio 2005.

La diffusione della democrazia rappresentativa basata sul voto anche in contesti locali e limitati, come quartieri, istituzioni pubbliche, università e scuole finisce per avere costi eccessivi in termini di risorse impiegate e per le distorsioni che queste provocano. In taluni casi si finisce per creare classi politiche di amministratori in grado di avere una influenza sproporzionata sulle scelte delle stesse istituzioni, in quanto esperti più nel controllo del consenso che non nell’amministrare la cosa pubblica nell’interesse della comunità.

Il principio cui ci ispiriamo è che la partecipazione all’amministrazione di cose pubbliche o appartenenti ad ampi gruppi sia un bene prezioso da salvaguardare. Ma come?

Ridurre ove possibile il ricorso al voto sostituendolo con estrazione o sistema misto estrazione-voto, iniziando esperimenti in comunità locali e in istituzioni particolarmente corrive nell’uso del voto. Porre limiti severi alla rielezione. Ridurre i costi informativi, introducendo maggiore chiarezza e comparabilità. A questo scopo si può chiedere ai candidati di presentare schemi di programma standard con voci comuni a tutti, lasciando comunque a ogni candidato di esprimersi in libertà su tutti gli argomenti che intende affrontare. I programmi standard potrebbero dare al cittadino una immediata idea di quali sono le prerogative degli organismi che stanno eleggendo, in modo che ciascuno possa valutare non solo il candidato, ma anche se valga la pena votare. Tutto questo può fare risparmiare risorse, impedire una diminuzione della partecipazione e rendere più efficaci le consultazioni.9

In più, occorre metter mano al sistema maggioritario. Il risultato del referendum francese, i crescenti localismi in Italia, i risultati sconcertanti delle elezioni dell’aprile 2005 in Gran Bretagna,10 dove un partito con il 22% dei voti prende il 10% dei seggi, non lasciano dubbi sulle carenze del sistema maggioritario se paragonato a un proporzionale con soglia al 5%.

L’inflazione elettorale, con tutti i pericoli che essa comporta, è talvolta figlia di istituzioni che faticano a giustificare la loro esistenza sulla base delle scarse competenze loro assegnate. Una democrazia per funzionare bene deve avere carattere di trasparenza e chiarezza e basarsi su istituzioni che non sono troppo onerose. Se invece la democrazia richiede un progressivo appesantimento il suo grado di desiderabilità è soggetto a erosione e crea spazio ai detrattori della democrazia. La povera Costituzione europea ne è un esempio. Forse bastava lasciarla scrivere al Parlamento europeo, eletto e legittimato, al quale doveva esserne demandata l’approvazione. Si è preferita una strada meno diretta e meno democratica. Ora ne paghiamo il conto.

 

 

 

Bibliografia

1 Si veda: J. Clapham, The Bank of England, I: 1694-1797, Cambridge University Press, Cambridge 1944.

2 Sul costo delle elezioni si veda: United Nations Publications, ACE Project: Administration and Cost of Elections, 2000, CD-ROM Version 0.1.

3 Si veda: G. Rossini, Concorrenza in politica e sistema elettorale, in «Il Mulino», 3/1995, pp. 495-503.

4 Si veda A. Clunan e Rossini, Democratici o repubblicani: che cosa cambia per il welfare degli Stati Uniti, in «Il Mulino», 5/2004, pp. 926-934. In questo contributo si pone l’accento sulle scarse differenze tra Bush e Kerry nella campagna elettorale del 2004 per le presidenziali USA.

5 T. Parks, An Italian Education, Secker and Warburg, Londra 1995, p. 175.

6 Le percentuali di votanti alle elezioni per il Parlamento europeo del 2004 hanno visto ai livelli minimi la Slovacchia (16%), la Polonia (20%) e la Repubblica Ceca (27%). Per comparazione: Francia e Germania (43%), Inghilterra (38%), Svezia (37%), Italia (73%).

7 La Costituente voleva la scomparsa delle province con l’introduzione dell’ordinamento regionale. Ma questa buona intenzione non si tradusse in dettato costituzionale.

8 Si veda: J. S. Demski, Corporate conflicts of interest, in «Journal of Economic Perspectives», 17/2003, pp. 51-72.

9 Ad esempio nei referendum si potrebbe rendere più difficile la loro effettuazione. E poi associare al quorum anche la possibilità che una parte possa prevalere se ottiene il consenso del 50%+1 del quorum quando questo non è raggiunto.

10 Qui i laburisti con il 35% dei voti si sono presi 356 seggi su 646 disponibili, i liberali con il 22% ne hanno presi 62 (meno del 10%) e i conservatori con il 32% dei voti ne hanno presi 228.