Lisbona: promesse, ritardi, rinvii

Di Pier Carlo Padoan Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Dopo il Consiglio europeo Nei mesi scorsi il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità ha infiammato gli animi. Ma i dibattiti sulla riforma del Patto sono stati tre, non uno solo. Il primo è quello sul «tre per cento» e si e svolto a colpi di dichiarazioni e di lettere ai giornali. Da parte di molti paesi si chiedeva di eliminare, anche formalmente, il limite sul deficit (considerato anche che il numero di paesi che già lo supera è estremamente elevato). Perché – ci si è chiesti – mantenere una regola che comunque non è rispettata, visto che farebbe comodo avere più spazio di manovra? Rispondeva negativamente il fronte dei disciplinati (i piccoli paesi del Centro e Nord Europa, la Commissione, la BCE). Il secondo dibattito è quello vero e proprio sulla riforma del Patto, che si è concluso al Consiglio europeo di marzo.

 

Dopo il Consiglio europeo Nei mesi scorsi il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità ha infiammato gli animi. Ma i dibattiti sulla riforma del Patto sono stati tre, non uno solo. Il primo è quello sul «tre per cento» e si e svolto a colpi di dichiarazioni e di lettere ai giornali. Da parte di molti paesi si chiedeva di eliminare, anche formalmente, il limite sul deficit (considerato anche che il numero di paesi che già lo supera è estremamente elevato). Perché – ci si è chiesti – mantenere una regola che comunque non è rispettata, visto che farebbe comodo avere più spazio di manovra? Rispondeva negativamente il fronte dei disciplinati (i piccoli paesi del Centro e Nord Europa, la Commissione, la BCE). Il secondo dibattito è quello vero e proprio sulla riforma del Patto, che si è concluso al Consiglio europeo di marzo. Qui le questioni, più complesse, hanno riguardato i criteri di applicazione delle regole di disciplina, l’opportunità di considerare diversamente alcune componenti di spesa ai fini della valutazione del deficit, oltre alla spinosissima questione di come rafforzare il criterio del debito. I due dibattiti, che hanno visto in buona sostanza i medesimi schieramenti contrapposti, si sono inevitabilmente intrecciati. Anche nel peggiore dei modi, perché ogni proposta avanzata dai paesi del primo gruppo, anche se oggettivamente ragionevole, veniva rigettata dal secondo, perché interpretata (a volte a ragione, altre volte no) come strumentale per ottenere un puro e semplice allentamento della disciplina.

Il terzo dibattito, quello più rilevante, sul modello di crescita che l’Europa vuole darsi negli anni a venire, avrebbe dovuto trovare una naturale conclusione in qualche forma di integrazione, o quantomeno di avvicinamento, tra Patto di Stabilità e Strategia di Lisbona. Quella Strategia di Lisbona che, sacrosanta nei principi e negli obiettivi, non ha avuto fino ad oggi gambe per camminare. I deboli tentativi di trovare delle gambe nella riforma del Patto di Stabilità sono stati sconfitti. Da questo punto di vista il «secondo» dibattito sul Patto ha, apparentemente, annullato il «terzo». Nei paragrafi che seguono riconsideriamo rapidamente quello che Lisbona potrebbe dare all’Europa, quello che finora ha dato e quali prospettive l’Europa ha di fronte a sé alla conclusione del Consiglio europeo di marzo.

 

Quello che Lisbona potrebbe dare

Anche se la Strategia di Lisbona fino ad ora non ha prodotto risultati rilevanti, esiste un’ampia letteratura empirica che mostra i benefici che l’Europa potrebbe ottenere da un’applicazione dei principi stabiliti a Lisbona, anche tenendo conto di una riconsiderazione dei termini originari della Strategia medesima.1 Gli studi considerano diversi aspetti della Strategia di Lisbona, ma hanno un elemento in comune: una applicazione anche parziale della Strategia comporterebbe benefici rilevanti in termini di crescita.

Guiso, Jappelli, Padula e Pagano2 hanno valutato i benefici di crescita per i paesi membri della UE nell’ipotesi che i mercati finanziari europei dovessero raggiungere un grado «ottimale» di integrazione, definito dal grado di integrazione dei mercati finanziari degli Stati Uniti. Essi considerano anche un caso di second best in cui il grado di integrazione di riferimento è quello dei paesi europei più avanzati sotto questo profilo: l’Olanda, la Svezia e il Regno Unito. Gli autori trovano che, a seguito dell’integrazione finanziaria, il PIL europeo potrebbe aumentare fino al 10%, con benefici maggiori per quei paesi, come l’Italia, i cui mercati finanziari sono più distanti dal livello ottimale. Il Fondo monetario internazionale nell’edizione del World Economic Outlook di settembre 20023 ha presentato risultati di simulazioni relative che indicano che misure di liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei prodotti potrebbero aumentare il PIL europeo di diversi punti percentuali (e fino al 10% in alcuni casi). Bayoumi, Laxton e Pesenti4 hanno calcolato i benefici che si potrebbero ottenere da una deregolamentazione diffusa dei mercati dei prodotti in Europa. I guadagni di crescita potrebbero raggiungere il 7% e quelli in termini di produttività il 3%. La Commissione europea5 ha condotto simulazioni di una serie di misure di politica economica direttamente collegate alla Strategia di Lisbona (SL). Gli studi della Commissione mostrano che la sola politica di deregolamentazione (per esempio portando il grado di regolazione dei mercati dei prodotti ai livelli degli Stati Uniti) non sarebbe in grado di colmare il divario di reddito pro-capite con gli Stati Uniti stessi. Per ottenere un tale risultato l’Europa dovrebbe accrescere la spesa in R&S, educazione e ICT. La combinazione di queste misure potrebbe aumentare il tasso di crescita potenziale europeo dello 0,5-0,75% all’anno per un periodo dai 5 ai 10 anni.

In un recente lavoro6 è stato esaminato l’impatto sulla crescita in Europa di una serie di misure previste dalla Strategia di Lisbona. Nel modello la crescita dipende dalla accumulazione di conoscenza, sia direttamente, tramite la produzione di brevetti, sia indirettamente tramite la diffusione di conoscenza in un mercato integrato e deregolamentato. La crescita aumenta significativamente (dell’1%) a seguito di una maggiore integrazione dei mercati dei servizi e della riduzione dei costi di diffusione (ottenuti da un approfondimento del mercato interno). Effetti simili, anche se di misura inferiore, si ottengono a seguito di una diminuzione del grado di regolazione dei mercati dei prodotti. E ciò in quanto una maggiore integrazione dei mercati dei servizi favorisce l’accumulazione di tecnologia e, per questa via, la crescita. I risultati più significativi si ottengono però tramite una maggiore disponibilità di capitale umano, che agisce sulla crescita in quanto permette una maggiore accumulazione di conoscenza sia nei paesi che producono innovazioni sia in quelli che ricevono innovazioni tramite la diffusione. La cosa da notare è che la maggiore disponibilità di capitale umano (e quindi maggiori investimenti in istruzione) richiede più tempo per produrre effetti sulla crescita di quanto non sia il caso, ad esempio, della deregolamentazione, ma gli effetti sono più consistenti e duraturi.

In definitiva, gli studi confermano che gli obiettivi di Lisbona richiedono una strategia articolata, una combinazione di liberalizzazione, integrazione e investimento in conoscenza, per produrre risultati significativi in termini di crescita.

 

Quel che Lisbona ha dato finora

Esiste, insomma, un accordo crescente e diffuso7 che una mancata attuazione della Strategia di Lisbona avrebbe costi rilevanti per l’Europa in un contesto in cui, da anni, l’economia dell’Unione sembra aver perso molta della sua vitalità. Ma a cinque anni dal Consiglio europeo di Lisbona poco è stato fatto sul piano delle politiche che avrebbero dovuto accompagnare la Strategia. Un recente rapporto del Center for European Reform8 presenta un bilancio dei primi cinque anni della Strategia di Lisbona, considerando sia i settori di applicazione che i paesi. Ne emerge un quadro molto diversificato e complessivamente poco confortante.

In termini di settori, il rapporto segnala progressi soddisfacenti nel campo della società dell’informazione, se si tiene conto della spesa per le tecnologie ICT e per computer. Ma, come è noto, un maggior numero di computer non aumenta la produttività delle imprese se non si accompagna anche a una riorganizzazione dei metodi di lavoro all’interno delle imprese medesime. Assai meno soddisfacente è l’andamento della spesa in R&S. Molti paesi hanno stabilito obiettivi in percentuali del PIL e l’Unione nel suo complesso dovrebbe raggiungere il 3% nel 2010. Ma ora sappiamo che anche se tutti i paesi membri raddoppiassero le risorse pubbliche, nel 2010 la percentuale sarebbe ancora al 2,5%. Cruciale nel produrre questo risultato è il ritardo della componente privata della spesa in R&S. Ciò segnala che il problema dell’innovazione in Europa non è solo la spesa ma anche, e forse soprattutto, la carenza di incentivi a innovare da parte delle imprese. La Commissione europea, dal canto suo, ha portato avanti importanti progetti, come Galileo o Ariane, ma ha finora fallito nell’obiettivo principale: la creazione di un brevetto europeo, senza il quale il costo di brevettazione in Europa rimane cinque volte più elevato di quello USA.

Ugualmente insoddisfacente la situazione nel campo delle liberalizzazioni di servizi e utilities (che, come mostrano i risultati ricordati nel paragrafo precedente, sarebbero essenziali per sostenere la crescita in Europa). Nei mercati dell’energia gran parte della liberalizzazione si deve completare e molti mercati sono ancora dominati dalle stesse imprese presenti prima della liberalizzazione, mentre le imprese straniere forniscono in media solo un quinto del fabbisogno nazionale.

Un po’ più avanti si trova, almeno sulla carta, il settore dei servizi finanziari che, grazie al Financial Sector Action Plan, dovrebbe far fare un significativo passo avanti verso la creazione di un mercato finanziario integrato (e anche questo, come visto, avrebbe importanti effetti positivi sulla crescita). Ma il vero ostacolo è la mancanza di una direttiva adeguata in materia di fusioni e acquisizioni nel sistema bancario.

Un problema ancora maggiore è costituito dalla mancata approvazione della direttiva generale dei servizi (la direttiva Bolkestein) che trova l’opposizione di Francia e Germania e che il Consiglio europeo appena concluso ha deciso di rinviare. I sostenitori della direttiva fanno notare che la liberalizzazione del settore, che fornisce due terzi dell’occupazione dell’Unione, potrebbe accrescere il prodotto di oltre mezzo punto percentuale e l’occupazione di circa 600.000 unità. I critici della direttiva sostengono invece che una eccessiva liberalizzazione darebbe vita a una corsa verso il basso negli standard di lavoro, sopratutto da parte dei nuovi paesi membri.

Oltre che dalla liberalizzazione, uno stimolo importante alla crescita potrebbe venire dalla deregolamentazione, un obiettivo fortemente sostenuto dai paesi del Nord Europa e dal Regno Unito. In questo campo le responsabilità del ritardo si dividono equamente tra Commissione e paesi membri. La Commissione ha fatto poco per ridurre la gigantesca mole di regole che ha prodotto in passato (anche se ha recentemente annunciato di voler eliminare un centinaio di proposte di direttiva) e ciò è molto preoccupante visto che, grazie al mercato interno, l’Unione produce circa metà della legislazione che interessa le attività delle imprese. I paesi membri dal canto loro, alcuni in particolare, hanno fatto poco per accelerare la trasposizione delle direttive comunitarie. Inoltre, la velocità si è ulteriormente ridotta. Circa un quarto delle direttive deve essere ancora trasposto nelle legislazioni nazionali.

Qualche progresso si deve registrare nel campo degli aiuti di Stato, dove si sta accelerando il passaggio a un sistema di incentivi orizzontali. La domanda pubblica, sulla carta, è molto liberalizzata ma, sempre secondo il CER, nella pratica solo il 3% dei contratti pubblici sono assegnati a imprese di altri paesi.

L’obiettivo per il tasso di occupazione, ambiziosamente fissato al 70%, non verrà raggiunto. Anche per via della contenuta crescita del reddito, quella dell’occupazione rallenta, sebbene in alcuni casi le riforme del mercato del lavoro stiano producendo frutti che però, a loro volta, non riescono a tradursi in maggior prodotto. Un esempio. Dal 1998 al 2003 in Italia, in gran parte grazie alle riforme del mercato del lavoro iniziate con il pacchetto Treu e proseguite con la legge Biagi, il tasso di occupazione è cresciuto del 4,1%, l’incremento più elevato dopo l’Estonia e l’Irlanda, ma la crescita del reddito è andata progressivamente declinando. Qualche progresso si sta verificando in termini di allungamento dell’età pensionabile e tutti i principali paesi hanno avviato riforme dei sistemi pensionistici.

Viste dal lato dei paesi, le differenze di risultati nella strada verso Lisbona sono molto significative. Il CER compila una graduatoria – riportata nella Tabella 1 – dei 27 paesi considerati (i 25 paesi membri dell’UE più Bulgaria e Romania, che sono già coinvolti nella Strategia di Lisbona) in base ai risultati ottenuti confrontando i valori degli oltre cento indicatori identificati dalla Commissione. La posizione in classifica (prima colonna) è definita in base al comportamento di ogni paese sulla media degli oltre cento indicatori, mentre la seconda colonna indica il numero di obiettivi di Lisbona raggiunti (su un totale di 17 obiettivi quantificabili). La tabella offre un quadro solo in parte inatteso. I paesi più avanzati sono quelli del Nord Europa e il Regno Unito. Alcuni dei nuovi membri mostrano un comportamento tutt’altro che disprezzabile, anche tenendo conto del minor tempo che hanno avuto a disposizione (ma va tenuto conto anche del vantaggio di catching-up degli ultimi arrivati). I grandi paesi mostrano invece progressi modesti e l’Italia, assieme agli altri paesi mediterranei, si colloca verso la coda della classifica Ma il rapporto del CER definisce il nostro paese l’ultimo in assoluto, il «cattivo» per eccellenza, tenuto conto anche della modesta performance in termini di crescita.

In conclusione, con molta lentezza e in ordine sparso l’Europa si muove verso gli obiettivi di Lisbona, anche se ha dovuto ammettere che gli obiettivi fissati nel 2000 per il 2010 sono stati stabiliti con eccessivo ottimismo.

Tabella 1

 

Quello di cui l’Europa avrebbe bisogno

I risultati molto poco incoraggianti dei primi cinque anni della Strategia di Lisbona sono la dimostrazione del fatto che l’Europa non ha, tutt’ora, una strategia di crescita efficace. E una strategia efficace può funzionare se basata su due pilastri: un pilastro europeo e i pilastri nazionali. Con l’eccezione dell’introduzione dell’euro (il cui obiettivo però è quello della stabilità monetaria) l’ultima strategia di crescita che l’Europa si è data in ordine di tempo risale a quasi due decenni fa, e si chiama mercato interno, l’estensione a (tanti) altri settori della liberalizzazione del commercio delle merci che aveva rappresentato il motore originario per lo sviluppo del continente. Insomma, la crescita attraverso l’integrazione. Si tratta di una strategia che può ancora dare molti frutti se si pensa a quanti mercati (dei prodotti e dei servizi) rimangono fortemente segmentati. Ed è inoltre, come abbiamo visto, del tutto coerente con la Strategia di Lisbona. L’altra strategia è quella delle riforme, delle spese per l’invecchiamento, dei mercati del lavoro e dei prodotti, dei sistemi nazionali di innovazione. Non è una strategia europea ma, nel migliore dei casi, una strategia nazionale. Contrariamente a quanto si dice spesso, non è vero che i paesi europei non fanno le riforme. Anche il rapporto CER prima ricordato ne dà atto. Continuare sulla via delle riforme dei mercati e delle liberalizzazioni è indispensabile per aumentare la capacità di offerta, che rimane bassa. Questo rimane in gran parte compito delle politiche dei governi dei paesi membri, ma evidentemente non è sufficiente.

In Europa esiste anche un problema di aspettative, di sfiducia generalizzata e ciò richiede un’iniziativa di portata europea. Questo fattore è stato determinante per il successo iniziale del mercato interno (quando, alla fine degli anni Ottanta fu annunciato e ritenuto credibile, gli investimenti delle imprese, soprattutto quelli strategici, subirono un forte balzo in avanti) e della convergenza verso l’Unione monetaria (quando i mercati finanziari ebbero fiducia nell’impegno di aggiustamento dei bilanci pubblici). Insomma, un progetto «europeo», ritenuto tale dai mercati, fornirebbe quell’elemento in più che rende possibile sfruttare i benefici delle riforme. Un progetto europeo avrebbe la caratteristica di un «bene pubblico». Per disegnare un simile progetto bisognerebbe rovesciare la logica che oggi sembra prevalere, quella del top-down. La Strategia di Lisbona non decolla perché viene vista come una «burocratica» richiesta che, dall’alto, viene sottoposta all’attenzione dei governi, i quali nel frattempo, hanno altre cose da fare (l’aggiustamento di bilancio e le riforme). La proposta avanzata da più parti di legare gli obiettivi di Lisbona alla riforma del Patto di Stabilita, per rafforzare gli incentivi all’attuazione delle politiche, non ha avuto successo.

Si dovrebbe pensare allora a un processo bottom-up, in base al quale i governi nazionali trasferiscono a livello europeo (per esempio a un’agenzia della spesa o alla Commissione) una parte del loro bilancio (che dovrebbe essere contabilizzata fuori dai vincoli del Patto di Stabilità) per contribuire a progetti europei in due campi – le infrastrutture e il sistema di ricerca – a cui, volendo invocare il principio di sussidiarietà, è difficile negare il significato di beni pubblici europei. Una simile iniziativa avrebbe due vantaggi: darebbe uno scossone positivo alle aspettative di crescita, perché indicherebbe la volontà di destinare risorse a tale scopo, e non sarebbe soggetta alla critica che si vogliono mettere da parte delle voci di spesa allo scopo di allentare la disciplina, perché sarebbe la Commissione, di cui tanti invocano il rafforzamento, a fare la politica di spesa.

Una critica avanzata a un simile progetto è che si tratterebbe di un salto in avanti verso il trasferimento di poteri di bilancio verso una istituzione sovranazionale. Ma pur con tutte le critiche che le si possono avanzare la BCE funziona bene. Casomai sarebbe necessario estenderne i poteri ad altri campi per favorire lo sviluppo di mercati finanziari autenticamente integrati. La politica di concorrenza sta definendo standard a livello globale. La politica commerciale dell’Unione dispone degli strumenti per partecipare attivamente al governo del commercio mondiale favorendo la crescita europea (ma vedremo cosa farà nel caso della Cina!). Gli europei, in altri termini, hanno dimostrato che sono in grado di darsi istituzioni sovranazionali efficienti, capaci di definire e difendere obiettivi e interessi dell’Unione. Sarebbe ora che si affrontasse senza timori reverenziali anche la questione della politica fiscale europea sulle stesse basi.

 

Quello che è successo

Raramente in passato un Consiglio europeo si è trovato ad affrontare decisioni complesse come quelle all’ordine del giorno nella riunione del 22 e 23 marzo scorsi in tema di riforma della politica economica europea. Sul tavolo della trattativa tra i 25 vi erano la riforma del Patto di Stabilità, la struttura e la dimensione del bilancio dell’Unione e il rilancio della Strategia di Lisbona. Non tutte le decisioni erano da prendere in quell’occasione, ma i tre livelli di decisione si sono inevitabilmente intrecciati.

Il Consiglio europeo ha mandato due messaggi forti. Il primo riguarda il Patto di Stabilità, che è stato profondamente cambiato. Il secondo riguarda la Strategia di Lisbona, che invece ha subito una grave battuta d’arresto. Il nuovo Patto di Stabilità sarà governato molto più in base alla qualità che alla quantità. Sono rimasti i riferimenti del 3% per il deficit e del 60% del debito. Sono stati introdotti diversi criteri più flessibili per valutare le violazioni temporanee al vincolo del 3% e per allungare i tempi necessari per rientrare nei vincoli stabiliti. Si e accresciuta la responsabilità di chi, Commissione e Consiglio, è chiamato ad applicare le nuove regole. Le giustificazioni alle deviazioni temporanee sono, sulla carta, condivisibili. Sono infatti basate sul principio che l’Europa deve affrontare problemi strutturali fondamentali – come la riforma delle pensioni o la carenza di infrastrutture, materiali e immateriali – la cui soluzione è necessaria a innalzare la crescita e, allo stesso tempo, rafforzare la sostenibilità del debito. Da questo punto di vista le nuove regole avvicinano di non poco il Patto e la Strategia di Lisbona. Ma nella pratica questo sarà tutt’altro che facile e trasparente. Non sarà facile valutare, per esempio, l’impatto pluriennale di una riforma delle pensioni sul bilancio pubblico, o il contributo della medesima riforma alla crescita, o il suo effetto sull’occupazione. La questione non è solo tecnica. È soprattutto politica. Bisognerà arrivare a una metodologia condivisa. Non sarà facile, ma neanche impossibile, e tuttavia in tutti i casi in cui ciò non sarà possibile si aprirà lo spazio per la discrezionalità e la contrattazione. Meglio sarebbe stato definire ex ante quali voci di bilancio ammettere alla lista delle circostanze eccezionali, legandole chiaramente alla Strategia di Lisbona.

Non è pero detto che il risultato finale sarà un peggioramento della qualità della finanza pubblica in Europa. Il tasso di intelligenza del Patto di Stabilità dipenderà da quello usato dai governi nell’utilizzare le nuove regole per perseguire una strategia al sostegno della crescita e dell’innovazione. Questa corsa verso l’intelligenza potrebbe essere rafforzata da due elementi. Il primo dovrebbe provenire da una sorveglianza efficace e preventiva da parte della Commissione, come previsto anche dalle nuove regole. Il secondo potrebbe venire da una maggiore disciplina di mercato. Diverse agenzie di rating hanno annunciato che il nuovo Patto potrebbe aprire la strada a una maggiore differenziazione dei mercati nella valutazione del debito emesso dei paesi europei. In paesi ad alto debito e a peggiore qualità della finanza pubblica ne sarebbero penalizzati tramite premi di rischio più elevati. E ciò, auspicabilmente, accrescerebbe l’incentivo per i paesi ad accelerare l’aggiustamento. Ne deriverebbe un circolo virtuoso tra politiche e mercati, come quello di cui ha beneficiato l’Italia al momento dell’ingresso nell’euro.

Il segnale sulla Strategia di Lisbona è più preoccupante. La decisione di ritirare la direttiva sui servizi è stata motivata da ragioni politiche, sopratutto quella di non irritare Francia e Germania anche in vista del referendum sulla Costituzione. Certo, una decisione così importante avrebbe potuto essere gestita meglio, proprio per la rilevanza della sua adozione. Come abbiano visto, la liberalizzazione dei servizi avrebbe un impatto diretto e indiretto molto alto in termini di occupazione e di crescita. Diretto perché il settore dei servizi occupa quasi due terzi della forza lavoro europea. Indiretto perché un mercato dei servizi più liberalizzato favorirebbe la crescita della produttività, la diffusione dell’innovazione e abbasserebbe i costi per il settore manifatturiero.

Tra le tante lezioni da trarre da questo episodio se ne può sottolineare una. La Strategia di Lisbona è un progetto europeo che richiede una forte leadership nazionale. Allo stato attuale i grandi paesi europei non vogliono o non possono, con l’eccezione del Regno Unito, porsi alla testa di un processo di liberalizzazione che rappresenterebbe una spinta decisiva per il successo della Strategia di Lisbona. Una parziale giustificazione a questa resistenza è che il loro capitale politico è impegnato in altre riforme, altrettanto importanti. Ma i costi di lungo periodo di una simile scelta potrebbero essere superiori ai benefici.

 

 

Bibliografia

1 Si veda M. J. Rodriguez, European policies for a knowledge economy, Edward Elgar, Londra 2003; Facing the Challenge. The Lisbon strategy for growth and employment, relazione del Gruppo ad Alto livello presieduto da Wim Kok, novembre 2004.

2 L. Guiso, T. Jappelli, M. Padula e M. Pagano, EU Finance and Growth, in «Economic Policy», 19/2004.

3 Fondo monetario internazionale, World Economic Outlook, aprile 2003.

4 T. Bayoumi, J. Laxton e P. Pesenti, When leaner isn’t meaner: Measuring benefits and spillovers of greater competition in Europe, IMF, ottobre 2003.

5 Commissione europea, The EU Economy 2003 Review, 2003.

6 P. Guerrieri, B. Maggi, V. Meliciani, P. C. Padoan, Technology diffusion, services, and endogenous growth in Europe. Is the Lisbon Strategy still alive?, Mimeo 2005.

7 Per una rassegna della letteratura in merito si veda: Commissione europea, The economic costs of non-Lisbon, Occasional paper n. 16, marzo 2005.

8 Center for European Reform, The Lisbon Scorecard V, disponibile su www.cer.org.uk.