Mercato del lavoro e fiscalità nelle politiche occupazionali

Di Salvatore Biasco Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Per formazione sono abituato a ritenere che il cuore delle politiche occupazionali sia nelle politiche di investimento e in quelle che sollecitano una competitività e vitalità delle imprese e del paese, mentre le politiche relative al mercato del lavoro hanno una funzione di sussidiarietà, quando addirittura non hanno una funzione strettamente sociale. È un’impostazione keynesiana, che rivendico. È vero che siamo di fronte a indirizzi complementari, ma, pur nella loro complementarietà, essi non hanno pesi identici, per cui le politiche dell’occupazione richiedono di essere affrontate soprattutto dal punto di vista delle politiche di sviluppo.

 

Inquadramento delle politiche e appunti per il programma

 

I puzzle del trend occupazionale

Per formazione sono abituato a ritenere che il cuore delle politiche occupazionali sia nelle politiche di investimento e in quelle che sollecitano una competitività e vitalità delle imprese e del paese, mentre le politiche relative al mercato del lavoro hanno una funzione di sussidiarietà, quando addirittura non hanno una funzione strettamente sociale. È un’impostazione keynesiana, che rivendico. È vero che siamo di fronte a indirizzi complementari, ma, pur nella loro complementarietà, essi non hanno pesi identici, per cui le politiche dell’occupazione richiedono di essere affrontate soprattutto dal punto di vista delle politiche di sviluppo.

I dati sull’occupazione in Italia stanno, però, mettendo a seria prova questo mio convincimento. Innanzitutto, dal 1997 è in corso un ciclo di ripresa dell’occupazione che non ha avuto interruzioni neppure negli anni in cui la crescita si è praticamente fermata, dal 2001 a oggi. Nonostante la debolezza della crescita del reddito, infatti, l’occupazione è cresciuta dal 1997 con tassi medi annui dello 0,9% fino al 2003, con una particolare performance nel 2003 (+1,5%, con reddito a solo +0,3%). Nel 2004 si è registrata una frenata nel processo di creazione di nuovi posti di lavoro, che ha comportato comunque un incremento dello 0,7% (e un’addizione, tutt’altro che trascurabile, di 167.000 unità di occupazione). La disoccupazione italiana, che era il 12% della forza lavoro nel 1997, a fine 2003 è stata dell’8,7% e oggi è all’8%; la partecipazione dei lavoratori attivi sul totale della popolazione in età lavorativa è salita dal 51% al 57,8% e, in modo sorprendente, nell’ultimo periodo i nuovi assunti sono in maggioranza a tempo indeterminato1 (e donne). Non tutto è in attivo; altri dati mostrano un bicchiere mezzo vuoto invece che mezzo pieno, nel senso che, se è vero che l’occupazione cresce, ciò avviene solo nel Nord mentre da 4 anni è praticamente ferma al Sud (anzi diminuisce di 47.000 unità del 2004 e ancor più diminuiscono le persone che escono dal mercato del lavoro, presumibilmente perché rinunciano a cercare occupazione o entrano nel sommerso). E tutto ciò avviene nonostante un sostanziale incremento di occupati in edilizia e un buon andamento del settore. Inoltre, l’incremento di occupazione nel paese non si traduce in incremento di consumi, e questo lascia pensare che dopotutto esso sia in gran parte apparente, in quanto forza lavoro che già percepiva un reddito ed è stata regolarizzata.

Questi dati, in presenza di ristagno della produzione e perdita di competitività, sono, in un certo senso, un puzzle. Sono state date varie spiegazioni, che elenco senza necessariamente sposarle. Ad esempio una, già citata, che vi incida la regolarizzazione degli immigrati (tanto è vero che l’incremento maggiore di occupazione sta avvenendo in edilizia e in agricoltura). Ma anche che ciò sia l’effetto dell’uscita dal mercato del lavoro delle coorti di età più anziana, per le quali la partecipazione era più bassa, e dello slittamento in avanti, in loro sostituzione, di coorti di età per le quali la partecipazione è stata via via più alta. E, ancora, che abbiano avuto effetto per un certo tempo gli incentivi all’occupazione varati con la Finanziaria del 2000; che sia il portato della spostamento dell’economia verso i servizi, e poi che vi sia anche un ruolo della moderazione salariale, che ha ridotto il costo relativo del lavoro a fronte di una più elevata dinamica della produttività e dei prezzi. Infine, non ultima tra le spiegazioni addotte, che abbia inciso la maggiore flessibilità consentita dalle riforme del mercato del lavoro che hanno avuto inizio dal 1997.

Quali che siano le spiegazioni, una cosa è certa: i dati vanno iscritti in un regime di flessibilità – sia esso o meno rilevante – (e, per quel poco che è sopravvissuto, di incentivi) che è sostanzialmente ancora quello messo in piedi dal centrosinistra, pur avendo perso tantissimi pezzi e non avendone guadagnato alcuno. Perché è vero che è stata varata la legge 30 (cosiddetta legge Biagi), il 24 ottobre 2003, però le disposizioni attuative si sono completate (neppure interamente) nel corso del tempo e solo ora la disciplina sta diventando operativa (ma non per tutti gli istituti). Le imprese non hanno ancora familiarizzato con le nuove fattispecie contrattuali e l’impatto della legge Biagi sembra per ora limitato: non solo i canali prevalenti di reclutamento sono i lavori a contratto standard a scapito di quelli atipici (che nel 2004 diminuiscono in termini assoluti), ma, per questi ultimi, sono le forme contrattuali pre-esistenti a incidere in prevalenza, il part-time e il contratto di inserimento (erede rivisitato del contratto di formazione lavoro), il cui contributo supera il 60% delle nuove fattispecie. Occorrerà disporre dei dati 2005 per dire qualcosa di più consono, ma sempre prematuro, sull’impatto della legge 30. Né il contesto pre-Biagi aveva novità di rilievo. Il centrodestra non ha infatti varato altre misure prima della legge 30, se si fa eccezione per quelle di liberalizzazione del lavoro temporaneo; ma il lavoro temporaneo non è cresciuto (è rimasto costante intorno al 10% nel totale delle forze di lavoro occupate), anzi fino a che hanno avuto un appeal i precedenti incentivi per l’occupazione ha avuto anche un leggero calo e poi nel 2004 ha perso oltre un punto e mezzo. Quindi, non è il quadro predisposto dal centrodestra che ha fatto aumentare l’occupazione e che determina la performance del mercato del lavoro.

Forse la mia impostazione incline a tenere il fuoco della performance occupazionale sulle politiche di sviluppo (piuttosto che sulle politiche del lavoro) va emendata, ma certo una affermazione mi sento di mantenere: una crescita dell’occupazione con reddito pressoché stagnante non è sostenibile, perché non è pensabile che se il reddito continua a crescere molto debolmente l’occupazione possa a tempo indefinito crescere con saldi significativamente positivi e ritmi molto elastici, contando solo su provvedimenti che riguardino il mercato del lavoro.

 

Il regime predisposto dal centrosinistra

Cerchiamo allora di richiamare il regime che era stato messo in piedi dal centrosinistra proprio sui due ordini di indirizzo nelle politiche occupazionali: politiche del rafforzamento dell’apparato produttivo e politiche specificamente dirette al mercato del lavoro. Solo un breve cenno, perché presuppongo che la politica del centrosinistra sia nota. Un punto va, tuttavia, sottolineato: il centrosinistra è stato molto consapevole che questi erano i due corni del problema.

Qualche provvedimento può essere anche stato discutibile, qualcosa può non aver funzionato o funzionato meno, ma la stella polare sul primo versante è stata quella di imbastire politiche premiali. Bisognava tendere certamente a un abbattimento del carico fiscale e contributivo, ma le imprese dovevano essere artefici esse stesse di tale abbattimento – con comportamenti virtuosi che lo producevano automaticamente – innalzando il livello di investimento, offrendo occupazione aggiuntiva, fondendosi, patrimonializzandosi e via discorrendo. Il credito d’imposta sull’occupazione era un provvedimento congeniato per chi offrisse occupazione incrementale a tempo indeterminato a giovani disoccupati; se ne poteva usufruire per tre anni e aumentava del 50% per il Sud. Tutte le altre politiche rivolte alle imprese erano politiche dello stesso tipo, premiavano investimenti e, ancora, occupazione. (Ricordo che l’occupazione in questi anni è venuta essenzialmente dalle piccole imprese). Il negoziato con la comunità economica europea (in cui l’Italia poteva far valere il ritrovato prestigio e la ritrovata affidabilità del paese) aveva avuto come esito una norma che consentiva alle imprese di dedurre dal reddito una percentuale dell’investimento fatto nelle aree svantaggiate, fino a conseguirne per via fiscale l’ammontare massimo di sovvenzione ammessa dalla comunità, che, variando per dimensione aziendale e regioni, in Calabria arrivava al 70% dell’investimento intrapreso ed era poco più bassa in altre regioni meridionali. Fra l’altro, il credito di imposta, potendo essere conservato nel tempo e essere fruibile solo a valere sulla tassazione dei profitti e dei contributi, spingeva a far emergere reddito, ma finiva anche per premiare imprese che fossero effettivamente tali, imprese prevalentemente in attivo.

 

Una potente politica pro Sud.

Se mi è consentita una digressione, basta cogliere la differenza di questa impostazione meridionalistica in controluce a quella verso la quale il centrodestra propende. Il credito d’imposta superava il criterio di ripartizione territoriale nell’indirizzo dei flussi di agevolazione e quindi costringeva gli enti territoriali a catturare tali flussi concentrandosi sui servizi, le infrastrutture, le semplificazioni offerte alle imprese. Di contro, oggi assistiamo da un lato al ripristino del criterio ripartitivo delle risorse pubbliche e dall’altro all’agitazione di una differenziazione nella tassazione dei profitti e dell’IRAP tra Nord e Sud, la quale o è pura retorica – dato che la Comunità non la consentirà mai – o è politica di finanziamento della gestione, molto diversa da una politica che condizioni i benefici all’accrescimento dell’offerta, della capacità di produrre o dell’occupazione.

E sullo stesso binario si muovevano un po’ tutte le politiche del centrosinistra, come ad esempio la DIT: essa consentiva alle imprese di prendersi benefici fiscali, permanenti e non occasionali, investendo e apportando nuovo capitale e, poiché per definizione un nuovo apporto avviene con le imprese che nascono, esse partivano con consistente alleggerimento fiscale. La “Visco per gli investimenti” o “Visco Sud” aveva lo stesso effetto, sempre di premiare e spingere verso comportamenti virtuosi.

In più, ma qui ci sarebbe da aprire un capitolo lungo, nel cui merito non entro, facevano parte di questa strategia, occupazionale e produttiva al tempo stesso, i contratti di area, i contratti di programma, i patti territoriali. Forse la linea dei crediti di imposta lasciava presagire un indebolimento di questo indirizzo e probabilmente un successivo ridimensionamento. E forse sarebbe stato bene che fosse così, evitando quell’intermediazione di fondi tra il quadro politico locale e l’amministrazione centrale o regionale, su cui la Casa delle Libertà ha imbastito un ritorno al vecchio meridionalismo.

Questo era un corno dal quale il problema occupazionale è stato affrontato. L’altro è stato il pacchetto Treu, e quindi l’intervento sulla legislazione mirata al mercato del lavoro. Il pacchetto Treu (1997) apriva ai privati il collocamento, e lo regionalizzava con i Centri per l’impiego, istituiva in modo controllato il contratto di lavoro interinale, rendeva più conveniente il part-time, regolarizzava il lavoro a tempo determinato in ambito contrattuale. Più avanti (1999), è stata votata la staffetta tra giovani e anziani e vi sono stati anche vari provvedimenti di sostegno all’imprenditoria giovanile e all’autoimpiego (soprattutto i prestiti d’onore). Non sto affermando che tutto ha funzionato, ma era un quadro dentro il quale si incominciava a intravedere una politica non di emergenza dell’occupazione. Si affermava anche una politica di emersione del lavoro nero, fatta di sapiente accerchiamento dell’evasione, ma basata più sulla convenienza a emergere che su provvedimenti di stampo repressivo.

 

L’azione demolitoria del centrodestra

Con l’avvento del centrodestra, del primo aspetto delle politiche occupazionali – quello rivolto alle imprese con obiettivo la crescita e i comportamenti virtuosi – a poco a poco non è rimasto nulla: pezzo dopo pezzo quelle politiche sono state demolite e oggi per le imprese non è in piedi quasi nulla di significativo e di selettivo. Solo per i primi uno o due anni alcuni istituti sono sopravvissuti. L’architettura del centrosinistra su questo versante ora non c’è più, ma è difficile individuare da che cosa sia stata sostituita.2

Basta riferirsi all’esordio per capire il modo di operare. Ad esempio, nel primo mese in cui Tremonti è diventato ministro ha abolito la DIT, senza sostituirla con nulla. È venuta molti mesi dopo “la Tremonti per gli investimenti” (provvedimento congiunturale e non strutturale), e dopo una sequela di annunci, che hanno determinato un buco temporale fra la cessazione di un provvedimento e l’operatività dell’altro. Il risultato è che, nell’attesa, gli investimenti si sono fermati e l’Italia si è trovata già in recessione quando si è invertito il ciclo internazionale, subendo un contraccolpo più alto di quello di altri paesi. Il centrodestra, ha pensato contemporaneamente di regolarizzare il sommerso con politiche miracolistiche, alla Tremonti, nella convinzione di arrivare a 900.000 emersi nel giro di tre mesi. Dopo varie riaperture di termini e correzioni, due anni dopo, alla chiusura, gli emersi risultavano in totale 3.840.

C’è poi stato l’attacco lento, ma inesorabile, a tutti gli altri pezzi del mosaico messo in piedi dal centrosinistra e che formavano nell’insieme una strategia. Per esempio, oggi il credito di imposta sugli investimenti va prenotato, ci sono dei plafond, le domande del 2004 – se ripresentate negli anni successivi – potrebbero essere esaurite nel 2009, quelle del 2005 nel 2012. È facile immaginare in quali condizioni di certezza operi un’impresa che fa investimenti e che programmi l’espansione produttiva al Sud. Anche il bonus per l’occupazione ha perso appeal: ridimensionato e soggetto a eccessivi adempimenti e condizionalità, è ormai praticamente inoperante. Molti di questi provvedimenti hanno avuto effetti retroattivi. La STM di Pasquale Pistorio – il terzo produttore mondiale di microchips – aveva raddoppiato l’impianto a Catania, invece che raddoppiarlo a Singapore o in Francia, sulla base della struttura di incentivi esistente allora; oggi l’azienda si pente di quella scelta (che annuncia di non ripetere per i nuovi investimenti), perché improvvisamente quello che era un impegno dello Stato si è trasformato in qualcos’altro.

Nel 2004, per il credito di imposta solo le domande ripresentate sono state ammesse, e le nuove escluse. Su 39.000 imprese che hanno presentato domanda del 2003 già 21.000 sono quelle che hanno rinunciato a ripresentarla; 7.000 delle 18.000 ripresentate sono state accettate. La micro-manovra dell’autunno 2004, per aggiustare il bilancio dell’anno, è andata di nuovo a finire tutta sulle imprese: il sostegno a 20.000 programmi di investimento è stato sospeso, se non cancellato. Non solo la 488 incappa nei limiti di spesa, ma anche i patti territoriali, il bonus per l’occupazione ecc. Il bando 2004 è saltato, quello del (marzo) 2003 ha visto le graduatorie pubblicate a fine 2004; non si sa quando si avranno effettivamente le erogazioni. Al CIPE sono ferme le domande di contratti di programma ormai da mesi. Tutto ciò crea sfiducia nello Stato, che cambia le regole del gioco in corso d’opera, blocca le erogazioni proclamando che è un semplice slittamento, come se il tempo fosse neutrale per l’impresa. Ma è difficile per le imprese fidarsi di ciò che viene dichiarato: anche per il credito di imposta si disse che era solo uno slittamento temporaneo, ma la riattivazione avvenne con fatica e con regole diverse. Con tetti di spesa del 2004 reiterati nel 2005, il rischio è che si produca il blocco di tutti i bandi in corso. Vi è poi stata la levata d’ingegno di una finanziaria che, per dare alimento ai consumi, trova risorse in parte a scapito delle imprese: di nuovo una scarsa attenzione per la politica di offerta. Non è sorprendente poi che il pacchetto competitività non abbia fondi.

Questa è la situazione. Rimangono in piedi, anche se stentatamente, sia politiche di programmazione negoziata trasformate nel vecchio meridionalismo in cui il ceto politico intermedia fondi tra centro e società locale, sia di finanziamento straordinario alla programmazione regionale, attuate con discrezione politica e prive di efficacia.

Quindi tutta la politica occupazionale del centrodestra è stata giocata su un solo versante, quello del mercato del lavoro, con il faticoso varo della legge Biagi (legge 30).

 

I conti con la legge Biagi nel programma dell’Unione

Do per acquisito che l’Unione dovrà riprendere politiche occupazionali che passano per il rafforzamento mirato dell’apparato produttivo, ripensandole, coordinandole e rendendole non eccessivamente costose. Ma, la legge Biagi?

Non essendo un economista del lavoro ho il vantaggio – spero – di leggere la legge Biagi in termini distaccati, analitici, non dottrinari. Vedo due partite che si giocano su questa legge: una è verso l’approccio frammentato alla regolarizzazione del mercato del lavoro (di cui accennerò ora) e l’altra verso la protezione del lavoratore nel mercato del lavoro (che rinvio al prossimo paragrafo).

Con la Biagi arriva alle estreme conseguenze l’approccio – che era stato, con più accortezza, anche del centrosinistra col pacchetto Treu – della flessibilità al margine e in entrata,3 che ora vede un enorme ampliamento della quantità di strumenti contrattuali di cui dispongono le imprese. Procedendo in questo modo, si pone l’occupazione di giovani, donne e anziani su strade separate e su percorsi professionali diversi rispetto a quelle di altri lavoratori (chiamiamoli regolari) con contratti più standardizzati. Come ricorda Ichino,4 oggi il diritto pieno del lavoro vale grossomodo per undici milioni di occupati (già è attenuato i lavoratori permanenti a tempo parziale). Circa due milioni e mezzo, forse più, sono i lavoratori in imprese sotto i 15 addetti, che sicuramente non hanno l’articolo 18 e presumibilmente il sindacato. Poi ci sono altri due milioni e mezzo di lavoratori atipici (di cui circa 500.000 sono co.co.co e, prossimamente, ex co.co.co), che non hanno né articolo 18, né tutele, né sindacato. A questi andrebbero aggiunte le partite Iva fittizie e i lavoratori sommersi. Con la legge Biagi si allarga la casistica contrattuale per l’entrata nel mercato del lavoro, con qualche tutela in più per gli atipici e la fine delle collaborazioni continuative, sostituite dal contratto a progetto.

Il centrosinistra rispetto a questo approccio può avere due atteggiamenti diversi. Senza necessariamente demonizzare questa impostazione, si può propendere per un’altra (che io prediligo) di maggiore uniformità del mercato, con poche variazioni da un contratto standard, regolamentate contrattualmente e di natura complementare. Il contratto standard, però, deve avere anche una qualche ridefinizione.

I pilastri di un approccio uniformato del mercato del lavoro sono: costi certi di licenziamento per le imprese (di qualsiasi dimensione), uniformità dei contributi previdenziali per tutti e forse un salario minimo e sgravi contributivi generalizzati e strutturali (non limitati nel tempo) sui salari più bassi. Accanto a questo, una politica sociale attiva verso l’occupazione che deve essere integrata con il complesso delle politiche di welfare (ma questa è una costante in qualsiasi ipotesi). Non è detto che ia una strada semplice. Comporta le incognite di una rinuncia a qualche garanzia piena degli occupati, che è contraria alla tradizione sindacale italiana e richiede contesti di relazioni industriali (anche sanciti da Carte) di fiducia reciproca tra le parti.5 L’uniformità dei contributi (a un livello inferiore all’aliquota massima odierna) incappa, poi, in mille problemi di transizione e, senza questa, il mercato si frammenterebbe comunque. Per cui, è più un approccio di prospettiva da tenere come orizzonte che una soluzione a immediata portata di mano, una volta al governo. Semplice o difficile, questa è una strada possibile: cercare di capire come tenere più uniformato il mercato.

C’è, però, un secondo modo di fare conti con l’approccio differenziato del mercato del lavoro che è interno all’approccio stesso. La legge 30 nasce da una lettura del mercato del lavoro come “mercato” in senso proprio, ed equivoca sul ruolo degli attori collettivi, il sindacato in primo luogo, che vede – all’unisono con una certa teoria economica – non come elemento di organizzazione, stabilizzazione e, in un cero senso, efficienza6 del mercato, ma come elemento di deviazione dal suo libero gioco. Se l’obiettivo originario del centrodestra era quello di mettere l’occupazione su percorsi individuali, emarginando il sindacato, questo obiettivo non è stato conseguito. Nella sostanza, perché il sindacato è rientrato dalla finestra sia attraverso l’azione negoziale con le associazioni imprenditoriali di categoria, sia nelle prescrizioni stesse della Biagi. La legge lascia molti punti da definire attraverso i contratti di lavoro, le commissioni bilaterali, e altri istituti.

Sempre più mi convinco che la legge è un terreno nel quale si esercitano i rapporti di forza contrattuali. Dà un quadro di possibilità, ma è inevitabile che queste siano gerarchizzate e regolamentate attraverso l’azione collettiva dei contratti tra le parti sociali, che stabiliscono le modalità di applicazione della norma in ambiti specifici. Flessibilità vuol dire contrattazione, e questo è vero nei fatti, indipendentemente da quello che c’è scritto nel dettato normativo. Le recenti conclusioni di accordi di categoria (commercio, edili, calzature, chimica, tessili e altri minori, nonché la piattaforma dei metalmeccanici) mostrano che è così. Dentro questi contratti si finisce per gestire gran parte di questa materia; la legge Biagi viene posta su un binario controllato, vengono stabiliti dei paletti e le regole assumono un migliore equilibrio. Prendiamo il contratto del commercio, ad esempio: contratti a termine, sì, ma dentro un limite del 20% degli occupati a tempo indeterminato; contratti interinali fino al 15% e comunque l’insieme delle figure atipiche non deve superare il 28% del totale degli occupati. In altri contratti collettivi vi sono altri tipi di restrizioni numeriche, nonché la definizione dei presupposti per l’applicazione dei vari istituti; comunque un qualche controllo della flessibilità e delle causali autorizzative. Tutta la partita dell’apprendistato è stata regolata anche se differentemente per contratto, sia nella quantità, sia nel tipo di inquadramento, sia nel periodo di durata in relazione al tipo di formazione da conseguire, nonché nelle ore di formazione, nel tutoraggio (anche se l’operatività è sospesa in attesa dei profili normativi che le regioni devono stabilire o recepire dagli stessi accordi). In quasi tutti i contratti il part-time è stato delimitato con una certa reinterpretazione innovativa della normativa predisposta dal legislatore in materia di licenziamenti, e anche quell’aspetto di flessibilità e di disponibilità oraria del lavoratore che è la parte critica della nuova configurazione del part-time (perché finisce per essere in contraddizione con le esigenze dei destinatari dell’istituto) risulta dagli accordi posto su un binario controllato. Fra l’altro, il contratto dei servizi ripropone la possibilità di denuncia unilaterale del patto di flessibilità da parte di un lavoratore senza che ciò sia motivo di giusta causa. Perfino accordi interconfederali sono intervenuti nella disciplina applicativa (come per il contratto di inserimento, in materia di periodo di prova e trattamento economico e normativo) e si è pervenuti al Contratto nazionale per i lavoratori interinali (siglato con le Agenzie del Lavoro), che verrà esteso a i lavoratori in regime di somministrazione a tempo indeterminato.

Qui c’è la partita da giocare dentro la legge 30. Se la strada dell’unificazione del mercato del lavoro non è a portata di mano (come ritengo, specie nell’immediato), è dentro la Biagi che occorre operare, a partire da come la legge si è evoluta, non dalle intenzioni di partenza. In sintesi, in essa va lasciata giocare la contrattazione fra imprese e sindacati. Qualcuno di questi contratti interesserà poco l’offerta e la domanda e riguarderà un numero limitato di lavoratori, seguendo un destino di oblio. Quelli più significativi saranno inevitabilmente governati sempre più. E d’altra parte le stesse imprese si sono mostrate propense alla gestione della legge 30, non forzando nella richiesta di usufruirne per la flessibilità in entrata e mostrando scarso interesse ad alcuni istituti contrattuali.

La tendenza da assecondare è quella di rendere i percorsi individuali sempre più collettivi (e connessi alle caratteristiche territoriali). Questo non vuol dire che un futuro governo di centrosinistra debba essere neutro. Non deve, a partire dalla facilitazione di questa tendenza per tutte le fattispecie contrattuali. Correzioni vanno apportate – del part-time ho accennato; del lavoro a progetto va recuperato il fine della norma rendendo difficili gli aggiramenti e le scappatoie verso le partite IVA e il lavoro nero o i progetti fasulli, ma senza inutili rigidità; e poi, che senso ha consentire in sede di certificazione del contratto la rinuncia alle tutele appena introdotte? l’apprendistato deve identificare gli incentivi alla formazione per i lavoratori e le imprese, ecc – ma non c’è bisogno di crociate, e soprattutto le correzioni vanno lasciate laicamente a una pacata verifica di come i vari istituti hanno operato nel tempo e di quali siano le loro ricadute, rivelate dai fatti, sul versante dell’efficacia occupazionale e delle tutele. La Carta del lavoro dovrebbe essere la cornice in cui operare ed è importante vararla.

Questo è un punto sulla legge Biagi, volto ai problemi aperti di tipo regolatorio e contrattuale. Nonostante la pregnanza di tali problemi – su cui, ripeto, è indubbio che un governo di centrosinistra debba intervenire (preferibilmente senza isterismi) – un altro punto è più importante e parte dalla constatazione che il fuoco della degenerazione precarizzante non è in questo o quell’istituto, ma nel fatto che possa esservi una sequenza nell’utilizzo di questi strumenti da parte del lavoratore, il che produrrebbe una condizione non regolata per un arco di vita molto lungo. Che ci sia qualche precarietà all’ingresso sarebbe relativamente importante se il percorso fosse definito e agevole verso un’occupazione permanente (e se vi fossero adeguati ammortizzatori). Quindi, il punto su cui occorrerebbe esercitare una riflessione, unita a sforzo di immaginazione e una fantasia normativa, è l’incentivazione alla stabilizzazione, la rete di sicurezza nel mercato del lavoro, la continuità contributiva e i percorsi di valorizzazione formativa e professionale.

Personalmente, considero possa far parte di questa riflessione una proposta della UIL che punta a una copertura finanziaria obbligatoria oltre il tempo per cui un lavoratore ha avuto un contratto specifico (un quinto in più del tempo del contratto), finalizzata a una attività formativa obbligatoria, la quale possa anche essere commutata in crediti formativi nel caso in cui il lavoratore trovi un’altra occupazione. La formazione andrebbe ovviamente certificata. Certo, i contratti diverrebbero più costosi, ma anche questa è una correzione sopportabile e forse opportuna. Al di là delle singole strumentazioni volte a evitare il prolungarsi della precarietà nei giovani e nelle fasce deboli (non ultime l’incentivazione alla stabilizzazione del posto di lavoro), contano anche misure di contesto come quelle mirate alla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita (in primis gli asili nido), le politiche di formazione, quelle della casa per le giovani coppie, gli assegni di servizio alle famiglie (ma queste anche le do per scontate e condivise).

 

La protezione nel mercato del lavoro

C’è una seconda parte della legge Biagi sulla quale c’è stata molta retorica sollevata da chi l’ha condivisa, dove essa è presentata come una legge che “sposta” il baricentro dai rapporti di lavoro ai processi di occupabilità. Nella realtà non sposta alcun baricentro. Innesta nel quadro problemi, diciamo, di gestione attiva del collocamento che si affiancano (ma non vedo perché si debba ipotizzare che la sostituiscano o la indeboliscano) alla difesa del lavoratore nel rapporto di lavoro. Questa difesa è sempre questione di rapporti di forza contrattuali e non si vede perché la parte dell’approccio che mira all’occupabilità debba produrre un sovvertimento delle relazioni industriali esistenti. Se si prende sul serio la retorica si finisce per non capire che la protezione del lavoratore nel mercato del lavoro è anche un obiettivo del centrosinistra, che su questo punto c’erano state al suo interno molte proposte e riflessioni che andavano (oltre il “pacchetto Treu”) nella direzione di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e correggere i difetti dell’offerta per renderla appetibile alle imprese. Questi obiettivi devono rimanere parte integrante dell’impostazione programmatica del centrosinistra. E su questo terreno esso dovrà accettare la sfida della qualità della pubblica amministrazione. Perché la riforma del collocamento implica che l’inserimento dei lavoratori si realizzi incontrando questi lavoratori uno per volta, componendo delle liste su base regionale, che non escludano nessuno che abbia problemi di occupazione non regolare o di occupazione non adeguata. Il successo dipende poi dalla capacità di mettere fondi, impegno, di crederci, tarando sulla funzione integrata del collocamento parte degli ammortizzatori sociali. Certo, ritorna un problema di governo del quadro, perché il fatto che siano state scritte delle norme e create delle istituzioni non assicura nulla e tutto si gioca sulle capacità implementative. Il centrosinistra dovrà decisamente spingere oggi (e operare domani) a che la parte del leone e la regia nel collocamento sia pubblica, l’accreditamento delle agenzie private sia una cosa seria, a che la concorrenza con quelle pubbliche (che pure ci sarà) si eserciti piuttosto sul piano della specializzazione. Però, l’approccio di difesa dei lavoratori sul mercato del lavoro teso a migliorare l’occupabilità è un approccio che va difeso e parte dalla necessità di mettere il pubblico in condizioni di esercitare una regia efficace.

Ma è difficile da gestire, specie con le forze delle sole regioni, sia amministrative che finanziarie; in primo luogo, delle regioni del Meridione. Ci vogliono infatti delle task forces che siano in grado di mettere a fuoco, individualmente, quale sia l’handicap specifico di un singolo lavoratore, che possano indirizzarlo o verso un impiego ovunque lo si offra, o verso la formazione o verso l’autoimpiego, e queste non sono piccole formalità, ma funzioni specializzate. Il livello centrale non può abdicare, riservandosi solo il compito di istituire la borsa del lavoro (i ritardi che ha accumulato questo governo nella definizione degli standard e di interconnessione fra le borse del lavoro regionali sono l’ennesima riprova della difficoltà che esso ha avuto a procedere con l’informatizzazione della pubblica amministrazione, che avrebbe dovuto essere uno dei volani dell’economia italiana. Le regioni hanno poi messo del loro e la borsa non è ancora operativa, bloccando la stessa operatività della legge). Sono molti i passaggi in cui le regioni non devono essere lasciate sole, specie quelle meridionali; ma hanno bisogno di coordinamento, pungolo, definizione del quadro normativo generale e mezzi finanziari finalizzati: è richiesto uno sforzo finanziario delle regioni affinché i Centri per l’impiego siano territorialmente vicini ai lavoratori; che i lavoratori che si trasferiscono siano dotati di un sostegno finanziario per un periodo dato che consenta loro di alleviare i costi di insediamento in un una nuova località; occorre predisporre condizioni di trasparenza dei criteri attraverso i quali vengono selezionate le domande (che non sia il computer o il programma ad attribuire i pesi relativi, che comunque ci sia trasparenza di questi pesi, che le imprese possano ricevere tutte le domande corrispondenti, senza discriminazione). La formazione e la certificazione dei crediti formativi devono essere monitorate e tenute in raccordo col fabbisogno professionale delle imprese, regionale o nazionale. C’è la necessità di stabilire le convenzioni con istituti finanziari affinché verifichino i progetti nel caso di autoimpiego e diano il sostegno manageriale e non solo finanziario. C’è la necessità di ridisegnare con le forze economiche, con il sindacato e con le imprese, tutti gli incentivi in sede regionale, per renderli più consoni alle esigenze locali, più mirati, ma anche più congegnati in modo tale da essere fruiti da imprese regolari (come parte di un programma che renda conveniente l’emersione). In più vanno curati i collegamenti in rete degli stessi Centri, con standard omogenei.

La riforma del collocamento disegnata dalla Biagi non esclude questo tipo di azioni, ma sono scettico sulla sua applicabilità fuori da una fortissima volontà politica (riflessa anche dall’investimento non solo finanziario in queste istituzioni e nel rafforzamento delle capacità della pubblica amministrazione), che necessitano un ruolo attivo e vigile del governo centrale, che il centrosinistra non può non rivendicare. Se le cose stanno come stanno a Napoli, dove, con 750 persone occupate nei Centri per l’impiego nel 2003, soltanto tre nello stesso anno sono coloro che hanno trovato lavoro attraverso il collocamento, allora il problema è serio. Ma è anche vero che a Napoli è in corso un processo, di qualche interesse, che ha portato a smantellare le vecchie liste egemonizzate da gruppi che pretendevano l’esclusiva dell’assorbimento in attività lavorative, si è fatta una lista generale, si è cominciato un censimento individuale (con accorgimenti e inserimenti volti ad accrescere la produttività dei Centri), anche se poi questo lavoro – finché la borsa del lavoro langue, le interconnessioni non ci sono e le banche dati non sono complete – non può produrre grandi risultati in questo momento. Ma quando la borsa decollerà, come potranno agire i centri per l’impiego della Sicilia se solo il 15% degli addetti dichiara di conoscere l’uso del computer e nessuna struttura – eccetto quella di Palermo, che ha un vecchio programma – ha un software di incontro domanda-offerta?7

 

Un menu più largo

La questione delle politiche occupazionali, affondate dal versante del mercato del lavoro non investe, tuttavia, solo la legge Biagi. Altri temi si sovrappongono, che non sono qui trattati per mantenere il baricentro su questo punto, ma che sono altrettanto rilevanti per la performance occupazionale e hanno i loro punti critici. Li accenno per completezza.

Senza un quadro di ammortizzatori sociali nessuna riforma del mercato del lavoro è completa, ma se per produrne un quadro adeguato al sostegno all’occupabilità occorre economizzare sulla copertura di altri rischi la via è impervia.

Il problema dell’occupazione degli anziani mette in gioco la questione dell’età pensionabile, anche se qui penso che occorra indicizzare alle tavole di mortalità finestre e montanti della riforma Dini.

La riduzione del cuneo fiscale richiede copertura finanziaria, che dovrebbe trovarsi, con schemi diretti, in un spostamento verso la rendita (in primo luogo finanziaria) del carico che oggi grava su lavoro e imprese.8

I servizi alle famiglie, soprattutto i servizi reali, devono trovare adeguate coperture nell’ambito di un welfare rinnovato, che sviluppi nuovi mercati, ma anche qualche copertura assicurativa obbligatoria in più (per la non autosufficienza).

Non vado avanti, perché ogni capitolo richiederebbe una trattazione adeguata e il quadro è già complesso se limitato alla materia analizzata. Riassumo quindi la mia lettura delle politiche per l’occupazione cui ci troviamo di fronte e delle prospettive in cui porle: le innovazioni normative sul mercato del lavoro partono da un’ottica monca, dopo che delle politiche di sviluppo è stato fatto scempio. Pongono, però, al centrosinistra il problema di avere delle coordinate su come procedere sul terreno della normativa del lavoro (oltre, ovviamente, al recupero di una visione “sviluppista” dei problemi occupazionali). Se la via di una uniformazione del mercato del lavoro è preclusa (o lenta), la legge Biagi va governata in un processo collettivo attraverso l’intervento delle parti sociali e va indirizzata verso soluzioni che facilitino il percorso che porti in tempi ragionevoli un lavoratore dentro un contratto standardizzato, con continuità contributiva. Nella riforma del collocamento, anch’essa da governare avendo chiari i punti di attacco, va messo quell’impegno politico e quella determinazione che finora sono mancati a questo governo.9

 

 

 

Bibliografia

1 Nel 2004 il numero di lavoratori dipendenti permanenti è aumentato in misura superiore a quello dell’occupazione totale dei lavoratori dipendenti (139.000 contro 78.000).

2 La riduzione generalizzata dell’aliquota di prelievo dai profitti era già programmata in scadenza temporale dal centrosinistra. È stata peraltro attuata con un allargamento della base imponibile. Il “pacchetto competitività” viene (verrà) a fine legislatura; ha scarsi fondi a disposizione; qua e là riesuma il sistema di tassazione premiale del centrosinistra, ma in un contesto confuso, più preoccupato della comunicazione elettorale resa possibile dall’esistenza di alcuni capitoli che dell’efficacia e del finanziamento di ciò che è in essi contenuto. Paradossale è il caso delle fusioni tra imprese, che dopo essere state rese strutturalmente meno convenienti con la controriforma Tremonti, ricevono spiccioli di agevolazione con il pacchetto competitività.

3 Le differenze di impostazione e presupposti è lo stesso Treu a esporle.

4 Sul “Corriere della Sera” del 16 ottobre 2003 (le cifre sono aggiornate all’ultima rilevazione ISTAT, che ridimensiona molto il numero dei lavoratori coordinati e continuativi, non professionisti).

5 Ma anche un’architettura della contrattazione coerente con questo indirizzo, in cui abbia maggior peso la contrattazione territoriale o aziendale (anche per motivi derogatori).

6 Per la trattazione di questo punto rinvio al lucido articolo di G. Rodano, Aspetti problematici della legge 276/2003. Il punto di vista della teoria economica, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, 3/2004.

7 Traggo l’informazione da A. Lorizzo, in “Sole 24 Ore-Sud”, 4 agosto 2004.

8 Una proposta in questa direzione é avanzata in un mio articolo: S. Biasco, Un fondo per ridurre il costo del lavoro, in “Il Sole 24 Ore”, 22 giugno 2000.

9 Una versione precedente di questo articolo appare nel libro (fuori commercio): AA.VV., Viaggio nel futuro del lavoro, Bologna 2005, che raccoglie gli Atti del Convegno omologo tenuto a Modena presso la Festa Nazionale dell’Unità del Lavoro il 17-18 settembre 2003, distribuito dalla Federazione DS di Modena.