Elezioni regionali, l'Unione verso il 2006

Di Giuliano Amato Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Questo numero della nostra rivista si apre con un articolo di Paolo Segatti, che offre una prima analisi dei risultati delle elezioni regionali. È un’analisi che lo stesso autore considera ancora parziale, ma basta a sorreggere tre solide riflessioni politiche: la prima riguarda gli elettori, la seconda la coalizione di centrodestra, la terza la nostra coalizione di centrosinistra. Gli elettori. Si era diffusa l’opinione che diversi elettori si fossero disamorati del centrodestra, ma non si fossero avvicinati al centrosinistra, perché questo – si diceva – appare loro confuso e non attrezzato come forza di governo (il programma, il programma, dov’è il programma?).

Questo numero della nostra rivista si apre con un articolo di Paolo Segatti, che offre una prima analisi dei risultati delle elezioni regionali. È un’analisi che lo stesso autore considera ancora parziale, ma basta a sorreggere tre solide riflessioni politiche: la prima riguarda gli elettori, la seconda la coalizione di centrodestra, la terza la nostra coalizione di centrosinistra.

Gli elettori. Si era diffusa l’opinione che diversi elettori si fossero disamorati del centrodestra, ma non si fossero avvicinati al centrosinistra, perché questo – si diceva – appare loro confuso e non attrezzato come forza di governo (il programma, il programma, dov’è il programma?). Di qui la previsione che ci sarebbero state più astensioni che spostamenti. Ebbene il voto delle regionali ha messo in evidenza non solo le astensioni (che effettivamente ci sono state), ma anche cospicui spostamenti, avvenuti per di più in ogni parte d’Italia e con caratteristiche che hanno un importante valore politico. Sono avvenuti infatti nel Mezzogiorno, sono avvenuti nell’elettorato urbano anche settentrionale, sono avvenuti fra i giovani, che sono ormai in prevalenza più vicini al centrosinistra. Ha cominciato a prendere corpo così una maggioranza di centrosinistra che non è soltanto numerica. Vi si cominciano a leggere le potenziali caratteristiche di una maggioranza che è tale perché le diverse parti del paese così come i diversi segmenti generazionali della popolazione si riconoscono sempre più nel centrosinistra. Si profila insomma un cambiamento ben più profondo di quello derivante da un puro gioco di astensioni, amplificato dai meccanismi elettorali. Ed è un cambiamento da leggere anche in relazione al modo in cui gli elettori hanno distribuito i loro voti nel centrosinistra, premiando fortemente l’area riformista, che è cresciuta sia dove c’era la Lista Unitaria, sia dove c’erano le liste dei suoi partiti, ed è cresciuta altresì attraverso la crescita dell’UDEUR. È tanto facile quanto corretto desumerne che l’elettorato che si è rivolto a noi di sicuro lo ha fatto, non all’insegna della protesta, ma in nome della domanda di un nuovo e diverso impegno nel governare il paese. E anche questo concorre a spiegare e a motivare la trasversalità generazionale e geografica di una tale domanda.

Il centrodestra. Trattandosi di elezioni regionali, il centrodestra ha pagato le inadeguatezze della sua azione di governo ai diversi livelli, in un mix che è probabilmente diverso da caso a caso. Di sicuro vi sono regioni in cui ha perso dopo anni che l’opposizione ha avuto buon gioco a definire di «vero e proprio mal governo». Ma di sicuro ha pesato ovunque la caduta di credibilità complessiva per una pluralità di motivi, che vanno dalle promesse non mantenute al pervicace diniego dell’andamento reale delle cose in nome di una immagine rosea che si è cercato di contrapporre ai fatti sino ai limiti dell’incredibile. A un paese che si sentiva sempre più indebolito nel proprio presente e sempre più insicuro del proprio futuro si è continuato a dire che tutto andava bene e che il declino e la perdita di competitività erano un’invenzione della sinistra e della stampa nazionale e straniera da essa influenzata. Quando, alla fine, si è adottato un provvedimento sulla competitività, ciò è apparso più un’ammissione di colpa che l’avvio di un vero cambiamento. In più, e forse al di sopra di tutto, il centrodestra ha pagato i lenti, ma inesorabili effetti del virus letale che mina dall’inizio la Casa delle Libertà.

Lo avevamo denunciato già nella campagna elettorale del 2001 e a rileggere ora le cose che dicevamo in quei mesi dovremmo definirci a dir poco profetici. Il fatto si è che l’inesorabile incomponibilità fra le domande della Lega e quelle di Alleanza Nazionale e dell’UDC, i partiti più radicati nel Mezzogiorno, si coglieva a vista d’occhio già allora. Ma allora l’ascolto per noi era in ribasso ed era invece ai suoi vertici l’innamoramento di una parte del paese per la Casa delle Libertà e per il suo leader. Poi però la coalizione è stata messa alla prova e, dopo neppure due anni, la sua vita è diventata una verifica continua, nel crescente esasperarsi del conflitto fra quelle domande incomponibili. Se leggiamo in questa chiave i risultati elettorali, ne esce una sentenza che appare assai difficilmente appellabile: il perno della coalizione, Forza Italia, non riesce a fare a meno della Lega nel nord, dove la stessa Lega è la sua bombola di ossigeno. Ma l’ossigeno diventa veleno al centro sud, dove perdono gli altri alleati e perde per prima proprio Forza Italia, che in qualche regione è uscita meno che dimezzata. Questo significa che il paese ha capito. E il cedimento, che è strutturale e che ha trovato nella riforma costituzionale voluta dalla Lega il suo principale fattore efficiente, difficilmente potrà essere rappezzato con l’usuale ricorso agli effetti speciali.

Il che porta il discorso su di noi, il centrosinistra. Sarà pur vero che in occasione delle elezioni regionali ancora non avevamo il programma per quelle politiche (ma non aveva senso la richiesta che già lo avessimo a un anno e mezzo da quell’appuntamento), certo si è che avevamo, come sempre, dei buoni candidati e che loro avevano dei buoni programmi regionali. Sui mass media, per una serie di ragioni, filtravano solo conflitti e burrasche (dalle firme della Mussolini alle baruffe chiozzotte), ma nel contatto con gli elettori erano la sanità, le infrastrutture, la casa e il lavoro a farla da padroni. E i nostri candidati hanno vinto in primo luogo su questo terreno.

Certo, davanti alla riconquistata maggioranza degli elettori (su scala peraltro più ridotta dell’elettorato nazionale) e davanti alle prospettive che ciò apre per il futuro, non possiamo far finta di non sapere che cosa realmente vuol dire chi insiste a chiederci di esibire il programma, che ancora non c’è. Vuol dire che anche a noi viene imputato un virus, quello della incomponibilità, nel nostro caso, fra i riformisti e i comunisti di Rifondazione. Anche noi, perciò, saremmo una coalizione capace di vincere le elezioni, ma destinata essa stessa a frantumarsi davanti ai problemi di governo. Poiché i precedenti (la caduta del governo Prodi) giocano a favore di un tale argomento, non possiamo ignorarlo, né replicare attraverso la sola enunciazione delle nostre buone intenzioni. Ora il nostro compito è preparare credibilmente la coalizione non solo a vincere le elezioni politiche, ma a governare il paese.

Le elezioni regionali hanno dato dei segnali positivi anche a questo riguardo. Non c’è solo il rafforzamento, già ricordato, dell’area riformista (che la legittima a far sentire e pesare la sua voce). C’è anche la vittoria in Puglia del candidato presidente di Rifondazione Comunista. E se non viene dal nulla il rafforzamento dell’area riformista, preparato dalla pur lenta costruzione della Federazione «Uniti nell’Ulivo», dal nulla non viene neppure la vittoria di Nichi Vendola. Viene, certo, dalle sue indubbie qualità personali e dal suo efficace radicamento in buona parte dell’elettorato pugliese, ma viene anche dal lavoro di Fausto Bertinotti nel ri-orientare l’asse del suo partito, pagando un prezzo cospicuo nel recente Congresso. E ora tanto il presidente Vendola quanto il suo partito non potranno non identificarsi con le istituzioni regionali e con la maggioranza che in esse si esprime.

È solo un punto di partenza, ma è un buon punto di partenza. Su di esso dobbiamo lavorare con il duplice obiettivo di rendere chiara e mobilitante la nostra offerta al paese, e forti e non equivoche le intese fra di noi. Non dobbiamo perderci, a questi fini, nel falso dilemma che contrappone progetto e programma. Serve il progetto, perché è essenziale dire agli italiani quale futuro vogliamo, quale Italia vogliamo consegnare ai nostri figli e per quale mondo vogliamo batterci; ma non meno essenziale è lavorare sui percorsi, sui temi specifici, sui dossier di governo, da un lato per dare consistenza al progetto, dall’altro perché non vi siano equivoci fra di noi, né mine destinate a esplodere poi sul percorso.

Sarà questo il nerbo del lavoro in cui la coalizione sarà impegnata nei prossimi mesi. La nostra Fondazione e la nostra rivista mettono a disposizione tutte le energie di cui dispongono e tutta la loro capacità di raccoglierne e di mobilitarne altre. Con quella dose non piccola di fiducia in più, che viene dall’undici a due conquistato sul campo all’inizio di aprile.