Ritorno in Italia 1

Di Glauco Della Sciucca Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

Negli scampoli iniziali di una diretta per il telegiornale della mezzanotte, va in onda il servizio da New York, rigorosamente live, di uno dei suoi corrispondenti più noti, il giornalista principe della televisione commerciale: Aldo Maria Branchi. Il celebrato conduttore di notiziari e speciali dal Nord America, sta concludendo il suo ultimo collegamento dagli States, armato di un palese moto d’orgoglio, e mescolato all’ostentato, strumentale barlume della malinconia che tanto piace alla sonnolente audience di quella fascia oraria.

Negli scampoli iniziali di una diretta per il telegiornale della mezzanotte, va in onda il servizio da New York, rigorosamente live, di uno dei suoi corrispondenti più noti, il giornalista principe della televisione commerciale: Aldo Maria Branchi.

Il celebrato conduttore di notiziari e speciali dal Nord America, sta concludendo il suo ultimo collegamento dagli States, armato di un palese moto d’orgoglio, e mescolato all’ostentato, strumentale barlume della malinconia che tanto piace alla sonnolente audience di quella fascia oraria. «…Infine, desidero ringraziare voi tutti, gentili ascoltatori. Questo era il mio ultimo servizio dagli Stati Uniti, … dopo otto anni. Concludo restituendo la linea allo studio di Roma. Rimandandovi ai prossimi appuntamenti televisivi dall’Italia, il vostro Aldo Branchi vi saluta da New York». Soundtrack time, Mr. Branchi! Aldo è tornato dagli Stati Uniti, e lo ha fatto portando con sé un bagaglio colmo d’inutili cravatte Bloomingdale’s, dischi di musica classica comprati nel merchandising shop del Lincoln Center – tanto per compiacere le aspettative della giovane compagna di turno – e agende dell’anno nuovo firmate New Yorker, da regalare magari a qualche disinteressato amico di Roma.

Interrotta, deliberatamente, la grande avventura professionale americana per progetti ancora più grandiosi, Aldo è tornato con il cuore d’un uomo pacificato di sé e del mondo. Un tragitto dall’America alla vita, lastricato di buoni propositi. Tanto per prendere per i fondelli se stesso, e salvare le apparenze con i suoi più reconditi, egocentrici e cupi sensi di colpa.

Perché una eccessiva dose di ambizione mai domata, placata ove possibile dal tiepido sciabordio di scrupoli sorti per l’improvvisa consapevolezza della vita, condisce di grigi colori un quadro in cui, dietro l’impatto d’un luccichio, acceso a intermittenza di cinismo e abiezione, si nasconde tutto il dilemma della domanda «Che cos’è esattamente la paura della realtà? E quella della famiglia?». Non lo sa nessuno. Proprio per questo esiste l’ambizione. Dietro la satura immagine del vincente, insomma, si nasconde tutt’altra persona. Ma andiamo per ordine.

Eccolo, Aldo Maria. Lo vediamo attraversare tronfio e burbanzoso tutta l’area «Arrivi Internazionali» dell’aeroporto Leonardo Da Vinci, tra sportelli d’informazioni, neon di shopping, scritte illuminate e luci varie di Bar Caffè con velleità di Starbuck’s. Aldo appare soddisfatto di sé, felice addirittura delle sfumature.

Dei generici sorrisi, cioè, delle hostess, convinto com’è che questi vengano rivolti tutti indifferentemente a lui. Il suo sguardo, compiaciuto perfino dalla ressa davanti ai check–in dei voli in partenza per i Caraibi – dove businessmen in vacanza e sguaiati new-middleclass abbronzati fanno la fila per andare ad amare a pagamento lontani da falsi moralismi indiscreti – è la voce di quella marcia spedita e sostenuta, come fosse quasi una falcata militaresca.

Il petto in fuori, poi, da tipico italiano dalla sensibilità media, e quell’impermeabile beige svolazzante, ci offrono la prova di ciò che egli sta immaginando. Cioè che tutto, ma proprio tutto l’aereoporto di Roma sa realmente della sua esistenza, pronto e onorato di accoglierlo fra le sue braccia, per annunciarne il ritorno in patria. E se nessuno sa del suo arrivo, fa lo stesso. Ciò che conta, è che egli lo sappia, di essere arrivato.

Sulla strada che si lascia alle spalle l’ingresso «Voli Internazionali», il musicale incantesimo che l’accompagnava, repentino e brusco, svanisce. Fuori, infatti, fa freddo, e insolitamente pochi sono i taxi parcheggiati. La desolazione di quei solitari marciapiedi sanno di cattivo presagio. Mentre i pochi passeggeri in entrata, diretti all’ingresso, si tengono con le mani i cappotti. Sfidando, a testa bassa, il vento e il gelo di una Roma ostinatamente invernale.

Aldo, rallentando quella camminata da vecchio mattatore, è impietrito dal vivere un traumatico risveglio di imprevista tristezza. Eccolo, ora, incontrare gli occhi dell’autista, uno di quelli mandati, con tanto di auto di rappresentanza, a prenderlo al suo arrivo in Italia.

Questi è un omino minuscolo, su una sessantina mal portata, piccolo, e ancora nero di bulbo. Ha le rughe, pesanti, e l’aria emaciata di un ferroviere d’altri tempi, uno che già lo sai carico d’annessi figli disoccupati, moglie con vene varicose a carico, crediti al discount, e valori retrò. Basta guardarlo parchi di egoismo, per notare che questo tizio, possiede la tenerezza e la mestizia di chi, trapiantato a Roma agli inizi degli anni Settanta, non ha più nulla da chiedere alla vita. Perché la vita non ha niente di rilevante da offrirgli.

Aldo poggia le due valigie a terra, tenendosi chiuso l’impermeabile con una mano, e l’espressione lessa di chi forse non ha ancora saputo fatto bene i conti con la realtà. E non per colpa del fuso orario.

«Dottore, bentornato, vuol darmi le valigie?» esordisce l’autista. «Prenda pure, gra… grazie. La manda l’azienda, vero? Quanti autisti stanno assumendo? Lei lo sa? Ma non sarebbe meglio affidarsi agli appalti? Mah ..! Mi porti dritto in sede… e facciamo presto» sospira di amara freddezza Aldo, accentuando l’occhio interrogativo – col nauseato verso all’ingiù della bocca – sulla irritante dignità di quel gentile autista, di candore felice, per aver caricato sulla berlina un volto familiare dell’azienda. Un volto familiare della televisione!

Il tragitto fino al centro della città offre, attraverso i vetri dell’auto, un panorama desolato e cupo. Aldo l’esorcizza cercando di telefonare ripetutamente, e nervosamente, ad un numero di cui non v’è risposta. Alla fine vi riesce, raggiungendo all’altro capo del telefono la persona desiderata.

«Pronto, carissimo, come stai? Sto arrivando in ufficio…» dice fingendo enfatico, a denti stretti, un vuoto entusiasmo. «Come sarebbe ‘non c’è nessuno ad aspettarmi?’ Ma cosa vuol dire che ‘dobbiamo riparlarne’? Come sarebbe…Lo so, ne parliamo sempre, quante volte vuoi…lo so…la poltrona da direttore è ambita da molti… Lo dici a me? Certo che capisco. Manca solo la mia firma, no? Non mancava solo la mia firma? Ho lasciato New York per quell’incarico…tu capisci cosa significa per me…e tu…tu…mi senti? Mi hai garantito… come? E non mi consigliare di andare prima a casa a rilassarmi, non sei mia madre!! Va bene, ci vediamo domani…Va bene! …ciao!».

«Guardi, c’è un cambio di programma… mi porti a casa…», aggiunge brusco, rivolto all’autista, bussandogli più volte il dito indice sulla spalla. «Come preferisce… Dottore. Ci sono problemi?», azzarda bonariamente l’uomo. «Cosa dice?! Quali problemi? Faccia il suo lavoro e mi conduca a casa… conosce la strada…eh? Lo sa dove abito? Lo sa o no?», Aldo è scuro in volto e nell’umore. Una volta a casa, Aldo, braccia conserte, e mento sopito sul pugno di una mano, contempla il vuoto e il silenzio di una abitazione chiusa da mesi. La stessa ove, per anni, ha abitato con la sua ex moglie, e Alberto, il loro unico figlio. Una ex moglie, con la quale sempre è andato d’odio e d’accordo, ma alla quale non ha mai concesso nemmeno il favore fraterno di una separazione consensuale. Un uomo tutto d’un pezzo. Ma non concediamoci alla volgarità.

Aldo cerca di alzare una serranda del salone, ma non vi riesce. La luce del giorno non entrerà di qui. Una cornice portafotografie, impolverata dal tempo e dall’indifferenza d’un’istantanea che mostra tutto il recente passato – muto e remoto come ogni errante passato – d’una famiglia mai davvero felice. Rapporti falliti, colpe mai dichiarate. Insensibilità diffusa, e incapacità di amare, e d’amore ricevere. Gli sbagli veduti già in quel famoso buongiorno che, si mormora, si vede sempre dal mattino.

La foto, di piccolo formato, dice molto d’un’ancora giovane, avvenente donna. Sguardo profondo, ma provato dalle delusioni della vita. Al suo fianco un uomo, mani poggiate sulle spalle della donna, il ghigno d’un sorriso di circostanza. E lo sguardo rivolto a tutt’altra parte. È certo, ora, che Aldo è sempre stato uguale a se stesso. Fin da quando, insomma, marito di fresco, e giornalista praticante di decise ambizioni, soleva fingere comunità d’intenti con questa donna. Poco più in basso, all’interno della medesima inquadratura, tutta l’infelicità celata di un giovane figlio, Alberto, sedicenne senza età, né colpe. «Non è possibile tornare indietro. Ormai sono qua. Cosa posso dire…la mia vita…è stata…Insomma, nella vita ho dovuto combattere di continuo…per ottenere ciò che ho avuto! Ora sono stufo, stufo…Non voglio sentire storie, sono tornato per fare il direttore…e il direttore farò».

Nell’istante in cui Aldo, con un gesto nervoso e incondizionato, fa per nascondere in un cassetto la foto del suo più grande fallimento, il suo lugubre pensiero viene interrotto da un insistente suono di campanello. È la porta!

Qualcuno sta ripetutamente suonando alla porta. Il primo, e più classico risveglio alla vita di tutti i giorni. «Vengo, vengo, un attimo, no?! Ma chi diavolo è?! Cominciamo prest…!» Davanti l’uscio di casa si presenta proprio la donna della fotografia, la sua ex moglie.

«Co…Come…come hai saputo che sarei tornato proprio oggi? Ti trovo….ti trovo…insomma, ti trovo bene…ma io ho da fare…ti farei entrare ma…ma, cos…cosa sei venuta a fare?» Aldo, braccia penzoloni e cravatta snodata, è disarmato dalla ingombrante sorpresa.

«Non mi fai entrare?», chiede, retorica e palesemente rancorosa, la donna. «Sono appena tornato, la casa è in pessime condizioni… devo ancora disfare le valigie… vorrei fare una doccia…».

«Grazie!!» la donna, entra in casa. Diletta, questo è il nome della donna, và a sedersi gambeaccavallate in poltrona. Ad essere bella è bella, ma i suoi capelli sono crespi e neri d’umore, proprio come il suo viso, visibilmente stanco, e mal truccato. La sigaretta che si accende nervosamente, con la pietrina dell’accendino a fare le bizze, è una novità che Aldo prende al balzo, da goffo par suo, proprio come fosse una stupida palla.

«Così …ti sei messa a fumare?» «Non fare il furbo con me, ti conosco …ahimè …troppo bene! Tu non ti senti scalfito dalla vita neanche un po’..tu sei un fallito...ma il peggio è che non lo sai…Tu sei,…sei un povero, lurido arrivista, della peggiore specie…hai rinunciato alla tua famiglia…a me che ti ho regalato i miei anni migliori…». Diletta si alza in piedi dirigendosi verso la finestra, ed alzando – di violenza portata – la serranda. La stessa che Aldo non era riuscito ad alzare al suo arrivo. In quel salone, borghese di polverosi libri e stampe fine art d’inizio secolo, ora entra la luce del giorno.

«…E poi perché cosa? Per quel posto da fanatico a New York! Vergognati!! Ora sei tornato a Roma…per fare cosa?». «Sono tornato per fare il direttore!» biascica Aldo, messo all’angolo dalla irruente, violenta reazione della donna, la qual disperazione, lo avvertiamo, diviene un torrente in piena di dignitoso melodramma.

«Chiudi quella bocca! Tu sei tornato per condizionarmi la vita, con le tue scuse, i pentimenti! Quante volte cercherai ancora di tornare nella mia vita e in quella di tuo figlio? Quali pene infernali mi infliggerà la tua stupida infantilità… quel tuo rinunciare agli affetti…all’amore…per poi tornare, e pregare di essere perdonato…quante volte dovrò alzare il telefono e sentire quelle tue stronzate… tipo ‘ho capito tante cose, sono cambiato, la carriera ormai non conta nulla per me, ora voglio stare con te, proteggerti…’, non ti permetterò…ehi! Ascoltami …questa volta il mio sistema nervoso…non ti permetterò…».

Aldo, sprofondato nel sofà, sudato e già provato, tenta una goffa replica «Cara…io non…»

«…E non chiamarmi cara!! Sono abbastanza adulta da non farmi prendere per in giro! Ma se proprio mi ci devono prendere, sono io se permetti…sono io…a scegliermi la persona più adatta…!!». «Ma…come ti sei messa a parlare? Non essere volgare, ti prego» l’interrompe Aldo, ostentando, d’odiosa teatralità, un senso di nausea, e portandosi una mano sulla fronte. «Sentitelo… Ma tu chi sei? E non mi dire di non essere volgare! Ipocrita! Tu non sei un uomo! Tu sei un poveretto. Per te la gente è soltanto il lavoro che fa! Mi chiedo com’è possibile che esistano ancora uomini come te! Il tuo cinismo tritatutto mi fa pena…ed io, comunque, lo devi sapere…io ho un’altra vita… ormai…».

«Va bene, io capisco, e poi ormai è passato tanto tempo…Ma, ma nostro figlio…», Aldo sembra sincero.

«Nostro figlio, nostro figlio…sentitelo…! Nostro figlio…anzi, mio,…figlio, ha una sua vita…! Sei partito per l’America… ma chi credevi di essere?, il Cristoforo Colombo del giornalismo televisivo…!? Non hai mai voluto che la tua famiglia venisse a stare con te… ad un certo punto, ricordi? In tre anni ti abbiamo visto solo a Natale e Ferragosto…Tu sei un uomo ridicolo! Tu e quelle sciacquette della buona borghesia di New York! Ehi,…non provare…».

Aldo, occhi d’un’ inespressività folle – a metà tra la tristezza di chi non potrà mai tornare indietro, e l’indifferenza scultorea di chi in fondo non desiderava altro – prova una goffa replica, arrangiata nella pochezza del suo dire «Ma come…ma perché parli così…ma quali sciacquette?».

«…Non provare…» Diletta finisce livida di rancore e spossatezza, esausta com’è «… non cercare di rientrare nelle nostre vite…prima mi hai lasciato sola, poi non mi hai concesso nemmeno la separazione! Solo…per il gusto sadico di farmi un dispetto! Non farti mai più vedere! Questa volta te la farei pagare io stessa, con le mie mani! Tu sei un verme…e allora…per l’ennesima vana gloria, striscia…ai piedi del tuo direttore generale!! Pensa pure alla tua stupida carriera! Nè io…nè tuo figlio…vogliamo… vederti …piu!!».

La porta sbatte fragorosa.

Diletta, lasciandosi dietro il fallimento senza ritorno di un matrimonio sbagliato – ferma sulle gambe e sui passi suoi – prova a chiamare ripetutamente l’ascensore.

Il suo toccare inutilmente quel tasto, detta l’attimo di una grande confusione mentale. Sono i momenti più duri.

Quelli in cui i nervosi esaurimenti, irreparabilmente esplosi d’impeto incontrollato, non ti fanno accorgere del tuo intorno, e le energie vitali, quelle, sono divenute ora solo negatività. Accade sempre così, supponiamo.

Nonostante le vibrazioni, giuste, della cosiddetta buona fede.

Aldo sta telefonando. Dall’altra parte, il suono cadenzato della chiamata dice «libero».

Frattanto, Diletta, alla guida spericolata d’una vecchi Mini verde british, la stessa che poco fa non voleva proprio partire – tra semafori rossi, vigili, pedoni e ostacoli urbani vari, evitati per miracolosi millimetri – lanciata alla media dei settanta chilometri orari, guarda l’orologio, passando, di consapevolezza, col semaforo rosso.

Ora la donna, muta e distrutta, piange, mordendosi ripetutamente le labbra. All’altro capo del telefono, intanto, sentiamo rispondere la voce di un ragazzo. Aldo sembra emozionato.

Proprio così, Aldo, nei pochi minuti dello smaltire l’attacco, dalla moglie sferrato, ha di getto scorto tracce di buon senso nella propria estranea anima. Ecco un padre che sta chiamando, sul telefono mobile, il proprio figlio.

Alberto è seduto davanti al suo computer portatile. Una pila di libri e una lampada, poi, completano la approssimativa descrizione dei suoi interessi.

«Si, pronto»

«Ciao Alberto, sono tuo padre…»

«Ah, si?! Lo credevo anch’io…», risponde pungente il giovane Alberto.

La voce ci riconduce al buio, scarno e impolverato salone di casa Branchi dove il padre, ancora più sprofondato nelle effimere rassicurazioni di una soffice poltrona, sta chiedendo qualcosa al figlio, tenendosi la fronte con una mano, e con l’altra reggendo la cornetta del telefono.

«Ho visto tua madre, asserisce che nemmeno tu vuoi più vedermi…»

«Asserisce? Ehi, papà, non sei in diretta tv, io sono Alberto! Non ho mai sentito nessuno che non facesse il commissario di polizia usare il termine ‘asserire’…» replica caustico il giovane. Alberto, un adolescente dai delicati lineamenti – di somatica e natura più vicini alla madre – ma dalla carica ironica, di rabbia e solitudini fatta, taglia corto meccanicamente «… Senti, papà, ho molto da fare …scusami eh, stai bene!» per interrompere subitaneamente la comunicazione. Cattivi presagi di notizie che non vengono mai sole. Se esse tendono al peggio.

Il volto di Aldo è pallido e marmoreo, la bocca una fessura. Un ritratto che non muta, e anzi continua nella stessa identica drammatica amarezza, allorché lo vediamo, eccolo!, più tirato e turchinoccio addirittura, non ancora nel salone di casa – è proprio come se l’ambiente fosse mutato senza mutarne il suo protagonista – ma nella stanza del direttore generale.

Una appartata stradina alle spalle di Via Veneto. In questo ufficio di lussuoso interno, la notizia che Aldo sentiva maledettamente nell’aria, proprio come quei presentimenti che ci descrivono fedelmente i fatti a venire, come già fossero accaduti, è di quelle che accapponano la pelle, e ogni pia illusione.

«Aldo…… ti mi devi capire…mi dispiace ma non ho potuto fare di più, non sai quanto avrei voluto vederti nominato direttore… ma a qualcuno non è mai andato giù il tuo trasferimento a New York… il modo forse un po’ subdolo e odioso in cui lo hai sempre bramato…non so come dirtelo…ma anche al consiglio di amministrazione non hai riscosso mai tanto successo…», il direttore generale, dopo l’imbarazzo tentennato dell’inizio, ora è sollevato. L’uomo sta prendendo coraggio, come se in fondo l’intento non sia tanto il consolando d’un amico, ma quello, più personale, del macigno da togliersi dalla scarpa.

Aldo corre fino a casa di Magda, la migliore amica di sua moglie. Eccolo citofonare, incassare un rifiuto alla richiesta di salire un’attimo da lei per «scambiare due chiacchiere», gesticolare – perdendo platealmente le staffe, proprio davanti a un signore che frattanto sta entrando nel portone dello stabile – per infine riuscire a ottenere «Si, vabbè, sali…ma solo due minuti».

Magda e Aldo sono seduti nel salone della donna, tra, tappeti persiani come quadri appesi in verticale, libri e film distribuiti su d’una libreria in ciliegio. La calda lampada da tavolo illumina il volto di Magda. Un volto certamente morbido e delicato, ma anche aspramente indurito dalla bassa opinione che la donna ha di quell’uomo.

Un tizio che, imperdonabilmente, ha saputo demolire la vita della sua cara amica Diletta.

«Mi devi dire se posso fare qualcosa…tu la conosci da vent’anni, Magda…Lo so…lo so cos’è che pensi di me, ma io ho cercato di fare …quella …carriera, sempre e soltanto per offrire a Diletta e Alberto tutto il benessere di cui avevano bisogno…Non lo so…no lo so…Ma…io…ma tu cosa credi…che i soldi piovano dal cielo!?»

«Ma falla finita, non vorrai prendere per i fondelli pure me…senti io…non sono tua moglie, e meno male… ma se oggi Diletta ha un altro uomo, è perché tu non lo sei… capisci? Te ne sei strafregato sempre di lei, dei suoi bisogni, dei sogni che aveva di voi e…della vostra famiglia…Aldo…ascoltami… dimenticala…e rifatti una vita, se ne sei capace…»

«Un altro uomo? Diletta sta con un altro? Senti, tu sei la sua migliore amica… devi aiutarmi… parlale tu, ti prego…»

«Quante volte me lo ripeti che sono la sua migliore amica…ho capito! Io sono la sua migliore amica, e allora?»

«Devi dirle che io sono pentito…e voglio tornare con lei…»

«…Tu sei pazzo» aggiunge la donna, scotendo la testa con la eloquente, ed amara espressione della bocca «Aldo, calmati!! Cos’è? Adesso sudi? Ma stai bene? Povera Diletta, poveretta… con un uomo come te… Tu sei un poveraccio…adesso via, vattene!…E non aspettarti che io parli con Diletta per te…io non parlo con nessuno, chiaro!? Non hai saputo fare l’uomo, l’hai perduta, e poi sono affari vostri, ora fuori…vai, scusa…eh..!»

«Un attimo, lasciami parlare…» insiste Aldo, vestito di nuova aggressività.

«Ora ho da fare, mi stai facendo perdere un sacco di tempo»

«…Sei la solita stronza, ed in questo vi assomigliate, tu e lei…» azzarda senza ritegno Aldo.

«Fuori, verme!… Torna alla tua fottuta carriera, fuori!! O chiamo la polizia…!»

La tristezza malcelata di Roma quando è inverno, e fuori piove. L’urbanistica grigia di finestre e strade sepolte dalle solite abitudini. Sono i lunghi giorni brevi, pomeridiani, in cui va bene anche un cinema. Un film, certo. Se in ufficio, o a casa, proprio non vi sta a pennello il lavoro da fare, o la solitudine di un riscaldamento centralizzato. O se quel centro sportivo al quale avete aderito, giace stravaccato, la sera, di esausti cinquantenni prossimi all’ennesima illusione anagrafica. Deprimente. Siamo tutti inconsapevolmente soliti a procurarci dei guai, tanto per trovare l’alibi alla nuova fuga.

Aeroporto di Fiumicino. «Voli internazionali». Aldo, testa bassa, giornale sotto il braccio e la valigia a rotelle, sta camminando a larghe falcate, questa volta glabre delle suggestioni dell’arrivo dagli Stati Uniti. Eccolo diretto d’impeto alla biglietteria dell’Alitalia, dove andrà ad acquistare un biglietto per il primo volo disponibile Roma-New York.

Diletta e Alberto, madre e figlio, sono nel salone di casa. Silenziosamente, preparano alternativamente biscotti e tè per il pomeriggio. «Mamma, fuori piove…hai visto?»

«Si sta bene a casa, no? I tuoi amici li vedi oggi…?»

«Mamma…, sai che c’è…non lo so, quel tipo di uscite pomeridiane mi ha rotto, lo sai? Sempre le stesse cose…Le stesse cretinate senza senso, loro parlano come la televisione, si vestono come quei balordi che vanno a fare le ospitate, mascherati da persone serie…sono così ridicoli…e poi non gli va nemmeno di fare una bella partita a pallone…! Mi piacerebbe fare l‘università fuori, magari all‘estero…»

«Sì, e come ti campi agli studi se te ne vai all‘estero? Dovresti lavorare, fare qualcosa per le tue spese…Comunque…parlane con tuo padre…A proposito, io e lui, …insomma…Ho parlato lui, ci siamo visti…perché è tornato…lo sai che è tornato, no?»

«Lo so, lo so…Mah! L’ho capito dal fatto che mi ha telefonato…»

«Ah, e cosa vi siete detti?»

Alberto, replica, scuro in volto «…e voi!?»

Aldo sta spingendosi, gradualmente, verso il suo turno alla biglietteria, mentre, con l’orecchio e la spalla stretti sul telefonino, cerca di un amico le tracce, all’altro capo della comunicazione.

«Pronto, mi senti…?Sono a Roma, certo, ma torno a New York…! Come?Non ti sen…Ho detto che torno…se sei d’accordo arriverei a New York, almeno spero, quando da te saranno le sedici circa..!…Co …cosa vuol dire ‘cosa torno a fare a New York’? Mettiamola così, mi sono preso un momento di riflessione, vengo da te…che ne so!…scriverò uno stupido saggio sulla televisione pubblica nel mondo anglosassone… o qualcosa del genere…e non so, troverò un editore per farmelo pubblicare, oppure me andrò al Village a fare l’artista underground di cinquant’anni, …vabbene!?…senti!! Siamo o no amici!?…Allora mi devi aiutare… me lo devi…questo…Ti ricordi di quel trilocale, sull’ottantesima… credi sia ancora sfitto?!!Sì, ne parliamo al mio arrivo… ti sento molto male…»

Aldo, sudato d’agitazione, non riesce a reggere il telefono con l’orecchio e la spalla. Posizione scomoda, e per di più non s’avvede che il suo turno è arrivato. La signorina allo sportello, critica e impettita già di suo, ha già perduto la pazienza Allora, signore, deve partire o no? Se non deve partire lasci passare gli altri»

«Eh un attimo! Ha fretta?» la difficile comunicazione al telefono ruba ancora attimi preziosi alla fila. Spazientita e, tipica situazione da fila alle poste in un giorno da pensioni, felice di teatralizzarne repentinamente gli effetti.

«…Sì, dimmi, allora, mi ospiti o no? Io sono qui alla biglietteria e si sta facendo tardi…»

«Allora, deve partire o no?» insiste la cassiera dell’Alitalia.

«Non lo so se devo partire, vabbene? Sì!! guardi,…mi faccia, mi faccia…ci sono ancora posti in business?…sì, un biglietto business class, se c’è ancora posto, per New York…New York… il prossimo in partenza,…così va bene!? Contenta?». Aldo ha spento il telefono, sospirando di raggiunto sollievo.

Accade l’imprevisto all‘improvviso. Una voce cantilena e insistente sta chiamando il suo nome, forse proveniente da un non localizzato punto della fila.

Vediamo l’uomo. È un signore su di una anagrafica sessantina distinta di buone maniere. Il suo fare è agitato, e quell’insolito paio di occhiali, di colore rosso fuoco, poi! Il suo cappotto è di buona fattura. La borsa di pelle lo fa sembrare un medico curante. Infine, il giornale sotto braccio, e il cappello in mano a sventolarlo per farsi ritrovare dallo sguardo, perduto e interrogativo, di Aldo.

«Aldo…Aldo Branchi! …Cosa ci fai qui? Lo sai…ho saputo del tuo ritorno a Roma, e…non dovevi …non dovevi fare il direttore? com’è andata? Ora…ora cosa fai? Stai partendo? Non ti avranno mica trombato, come si dice in gergo?, eh?…ah …ah!!» e giù l’uomo a lanciare una grassa risata.

«Ciao Mario.. che piacere vederti, io però sto partendo, devo fare il biglietto, ciao …eh!»

La gente in fila comincia a sbraitare in tutte le lingue, specialmente in italiano, inglese ed «anglo-italiano».

«Ricordi quando ti dicevo di non fidarti di certe amicizie, diquelle facili promesse…Ma, ora…chi te lo fa fare di tornare a New York? Dai, lascia perdere il biglietto, dai…spostiamoci dalla fila altrimenti tra poco ti ammazzano»

«Innanzitutto come fai a sapere…comunque io ero già un vicedirettore…quindi… la mia, non era esattamente una velleità di quelle…

«Ma dai! …Non è da te essere tanto ingenuo…ma …da quando ti fidi degli altri? Dai, vieni con me…voglio dirti un paio di cose…»

Mario prende, delicato e rassicurante, il braccio di Aldo, continuando nella sua opera di convincimento.

«Aldo, ascoltami, sto tornando proprio adesso dall’Inghilterra,…Londra, dove ho fatto acquistare alla nostra rete …un programma incredibile… Sto facendo la spola Roma-Londra tutte le settimane…in realtà! Questo programma è una bomba, e io...insomma, io e i miei collaboratori potremo apportargli tutti i correttivi e le aggiunte creative che riterrò opportune…una grande occasione, no? Questo programma in gran parte d’Europa ha già sfondato!»

«Ma dove mi porti? Dai Mario, per favore…io sto partendo… ma sei proprio tutto matto!»

Fatti pochi passi fuori dalla fila, Aldo vi rientra subito, tornando ad attendere il suo turno.

«E poi …io cosa c’entro in tutto questo? Noi sono…quanto? Due anni, che non ci vediamo? Cosa posso dirti? Auguri, io devo partire, ciao…Mario…Signorina, il biglietto…prego, me lo faccia …sì! …perché …io parto», ormai Aldo pare definitivamente deciso.

«Dai, torna a fare l’autore per i nostri programmi…come ai bei tempi, ricordi… prima che cominciassi con questa storia del giornalismo… dammi retta, ti dico…», insiste con fermezza l’uomo. Ma non c’è nulla da fare.

«In bocca al lupo, Mario. …Signorina, un posto vicino al finestrino, se possibile, …grazie»

Un taxi sfrecciante ci conduce dritti sul raccordo anulare, corsia autovetture in direzione Roma. Sullo sfondo, nel cielo di piombo, il decollo, parallelo e imperioso di un boeing dell’Alitalia. Direzione, Stati Uniti d’America. Ma è sorprendente! Perché all’interno del taxi, sprofondati nei sedili posteriori, ecco due amici e colleghi di antica data. Mario e Aldo. Seduti spalla a spalla.

Dei due, Aldo è il silenzioso, con quella bocca ricurva verso il basso, e gli occhi, quelli di un bambino, come fossero impressionati dal muto vuoto.

Aldo, sì, proprio Aldo, in un senile momento in balia degli eventi, e dei serrati discorsi sulla «scossa elettrica» che questo nuovo programma darà a tutta la televisione generalista. Fortunatamente, non udiamo nulla di tutto quel cacofonico, e autocompiaciuto ciarlare. La colonna sonora prende il posto di quelle parole. Se fosse un film. Aldo è stremato. Il suo sguardo sembra parlare di stanchezze lontane sul genere del «non ne posso davvero più». Il taxi corre verso la capitale, diventando un puntino giallo lontano. Alberto, nei giardini di Villa Borghese, sta passeggiando con una bella ragazza, la sua ragazza. Una limpida coetanea, all’anagrafe e nella sensibilità. Il suo nome e Marta. Lei lo abbraccia al collo, si tengono la mano. A volte raccolgono foglie cadute dai beige dell’autunno. Si baciano innamorati.*

 

 

* Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale.